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I film di Guillermo Del Toro dal peggiore al migliore

Il regista e sceneggiatore messicano resta indubbiamente uno dei più importanti della sua generazione, infondendo una poetica strettamente personale in pellicole di vario genere, arrivando anche a vincere importanti riconoscimenti internazionali come l’Oscar e il Leone d’Oro in più di 30 anni di carriera.

Nell’anno in cui si celebra il 30° anniversario da quel debutto di “Cronos” dietro la macchina da presa nel 1993, si ricorda la filmografia del regista messicano Guillermo Del Toro, fresco vincitore con il suo “Pinocchio” del Golden Globe al Miglior Film d’Animazione. Un grande autore che, nel corso degli anni, ha saputo imprimere nella Settima Arte il suo peculiare tratto distintivo omaggiando ed attingendo dai classici (soprattutto letterari e cinematografici), ma con un piglio diretto sulle attuali condizioni politiche e sociali, modernizzando la concezione del mostro e del reietto raccontando il fantasy con venature orrorifiche e sentimentali. Dopo un’abbondante gavetta nel campo degli effetti speciali, nella realizzazione di cortometraggi e progetti extra-cinema, 30 anni di carriera riconosciuti – a corrente alternata – da pubblico e critica, raggiungendo grandi successi al botteghino e nelle varie stagioni dei premi cinematografici, dal Premio Goya all’Oscar, passando per il Leone d’Oro a Venezia. Di seguito la classifica dei 12 film di Guillermo Del Toro in qualità di regista: dal peggiore al migliore.

12) MIMIC

Per poter introdurre al meglio la classifica in questione, è necessario attuare la premessa che, quando si parla di “film peggiore” del regista messicano, ci si riferisce ugualmente ad un prodotto di livello. Questo è il caso di Mimic del 1997, primo vero approdo alle prestigiose porte di Hollywood, le quali si sono rivelate per Del Toro una vera e propria trappola produttiva. Il film è un horror fantascientifico in cui un gruppo di scienziati sta cercando di contrastare il diffondersi di una misteriosa epidemia causata da degli insetti e, nel provarci, creano una minaccia ancora più pericolosa. A causa dei continui scontri produttivi e sul set tra il regista e i fratelli Weinstein della Miramax, il secondo film di Del Toro è egli stesso un vero e proprio Mostro di Frankenstein: una creazione a metà che sfugge al suo creatore. Pur a dosi notevolmente ridotte, “Mimic” presenta gran parte degli stilemi tecnici – ma soprattutto narrativi – del regista messicano, omaggiando la figura del personaggio nato dalla penna di Mary Shelley ma raccontando l’emancipazione femminile e la lotta contro le disuguaglianze sociali. All’ultimo posto della classifica dato che, anche lo stesso Del Toro, voleva negarne l’approvazione dell’uscita nelle sale al seguito del divieto di supervisionare il montaggio finale del film.

11) PACIFIC RIM

In cerca di fondi per poter finalmente adattare “Alle montagne della follia” di H. P. Lovecraft, Del Toro ricevette da Legendary e Warner Bors. un budget di quasi 200milioni$ per realizzare Pacific Rim, l’esborso economico più ingente con cui il regista messicano abbia mai lavorato. Narrando lo scontro tra i mostruosi Kaiju – comunque un modo per potersi approcciare agli Antichi del celebre scrittore statunitense – e i robotici Jaeger, Del Toro omaggia la cultura (pop) specialmente del Sol Levante e manda un messaggio pacifista ed antimilitarista attraverso un war-movie, ed un messaggio umanitario e di solidarietà attraverso i suoi immancabili mostri. Fondamentale anche il lavoro svolto in sede di sceneggiatura anche e soprattutto sulla “quota rosa” del film, continuando il processo di disfacimento del machismo nel genere action-muscolare hollywoodiano. Un prodotto spettacolare, dove il divertimento e l’avvincente intrattenimento denotano un esaustivo sfruttamento del badget nel campo degli effetti speciali, arricchito dalle qualità tecniche del regista che ne esalta anche i piccoli particolari. Tuttavia, seppur immancabile anche in questo Pacific Rim, il film perde molta di quella profonda poetica che contraddistingue la filmografia del regista messicano, registrando un alto tasso di intrattenimento commerciale che non va e non vuole andare oltre.

10) BLADE 2

Con il secondo capitolo della trilogia sul Diurno cacciatore di vampiri, Guillermo Del Toro si ritrova a fare i conti per la sua prima volta in carriera con una storia ed un personaggio totalmente non di sua creazione: oltre al soggetto non originale, come altri (pochi) suoi film, è l’unico caso della sua filmografia da regista in cui non compare come sceneggiatore (ruolo ricoperto qui da David S. Goyer, autore della trilogia). In Blade II, il regista messicano tende maggiormente a curare l’estetica tecnico-visiva del secondo suo film di vampiri dopo il debutto di “Cronos”, arricchito qui da un notevole comparto action e dalle coreografie di numerose sequenze di arti marziali. Nonostante la sua assenza in sede di sceneggiatura, Del Toro in produzione riesce comunque a fare suo il personaggio tratto dai fumetti della Marvel, plasmando l’antieroe protagonista interpretato da Wesley Snipes e raccontando una storia d’avventura fantasy con tinte orrorifiche che annulla il concetto razziale. Un lussuoso campo d’addestramento, in cui Del Toro ha potuto sperimentare molte sue tecniche registiche e che darà il via ad altri prodotti “supereroistici” di grande successo.

9) CRONOS

Al momento primo ed unico film realizzato in Messico, con la sua opera prima del 1993 Del Toro, pur soffrendo degli inciampi del debutto, realizza un audace biglietto da visita cinematografico che regala un’originale storia di vampirismo, affrontando con decisione l’inesorabile scorrere del tempo, la giovinezza e la possibilità della vita eterna per un uomo anziano. Cronos colpisce particolarmente per la sua pungente scrittura, ma ancor di più per il suo tratto estetico gotico e fiabesco, già ben marcato al suo primo lungometraggio e che registra l’avvio della storica collaborazione con il direttore della fotografia Guillermo Navarro, oltre che con l’attore Ron Perlman.
Come tutte (o quasi) le opere prime, anche Cronos difetta dell’inevitabile mancata maturazione soprattutto tecnica – da ricondurre specialmente alla natura “indipendente” della produzione – sebbene il film resti notevolmente affascinante e abbia iniziato a far conoscere il nome di Del Toro a livello mondiale.

8) HELLBOY

Creato nel 1993 per la casa editrice Dark Horse Comics dalla mano di Mike Mignola, Hellboy è il protagonista perfetto per incarnare appieno la filmografia deltoriana, una vera e propria mascotte direttamente dall’Inferno. Forte del successo ottenuto con il secondo capitolo della saga su “Blade”, con il film del 2004 Del Toro torna infatti a cimentarsi con i cinecomics, divertendosi a mettere in scena un bambinone divertente e divertito dalle fattezze di Ron Perlman, dal cuore grande ma pur sempre Satana in Terra, in perenne ricerca del suo vero posto nel mondo, dalla sua creazione – con l’apertura di un portale demoniaco ad opera dei nazisti con l’aiuto del necromante Rasputin – fino alla sua prossima morte e rinascita. Un cinecomic con la C, capace egregiamente di mixare l’aspetto umoristico fumettistico con la spettacolarità action sullo schermo, senza dimenticare l’intimo percorso di crescita del suo antieroe protagonista ed accompagnando il tutto con una messa in scena tetra e favolistica. Un personaggio iconico che riceverà una trattazione migliore proprio nel suo sequel.

7) CRIMSON PEAK

Arrivati a metà classifica si è davanti anche ad un vero e proprio spartiacque che separa ottimi prodotti cinematografici – dall’estetica accattivante e dalla narrazione di forte impatto – ma per lo più nati e destinati al grande pubblico commerciale (ad eccezione del debutto di “Cronos”), da vero e proprio cinema d’autore, egregio tanto visivamente quanto negli aspetti contenutistici che, per loro rilevanza, adattano il film anche al grande pubblico. Lo spartiacque è rappresentato qui dal suo 9° lungometraggio, ovvero l’horror gotico Crimson Peak attraverso il quale, omaggiando un genere cinematografico classico ed amato dal regista messicano, Del Toro rispetta sì le regole del caso, ma influenza ancora una volta il film con tutti gli elementi che hanno contraddistinto e continuano a contraddistinguere la sua poetica d’autore. Con una romantica e spettrale ghost-story, il regista messicano si diverte ad impersonare la macchina da presa dando vita ad una vera e propria “Danza Macabra” tra le tetre sale della magione, omaggiando il cinema di genere soprattutto degli anni ’60 e regalando un’immersione gotica assolutamente affascinante e magnetica, dove la scenografia regna sovrana. Uno spartiacque anche tra il romantico e l’horror che, soprattutto per il pubblico (dato l’effettivo flop al botteghino) ma anche per la critica, non ha saputo prendere una netta decisione se virare da una parte o dall’altra.

6) LA SPINA DEL DIAVOLO

Grazie al sostegno (soprattutto finanziario) dei fratelli Almodovar, nel 2001 vede la luce quella che potrebbe essere considerata la prima vera opera di Guillermo Del Toro. A differenza infatti dei limiti di esperienza e di risorse in “Cronos” e quelli sulla libertà produttiva e creativa in “Mimic”, con La spina del diavolo Del Toro può infatti contare sia su un dignitoso budget che su totale libertà creativa. Ne esce una una splendida fiaba-dark che, sfruttando una ghost-story ambientata in un orfanotrofio durante la Guerra Civile spagnola del 1937, riesce magistralmente a mescolare il reale mondo politico a quello fantastico ultraterreno. Una storia di fantasmi per ironizzare ancora una volta sulla fede e la tradizione popolare che, soprattutto in questo caso, si lega indissolubilmente al machismo fascista, con gli emarginati, orfani, dimenticati (addirittura i morti) che diventano gli eroi della Storia. Oltre alla magistrale fotografia di Guillermo Navarro, il film segna anche la prima collaborazione tra Del Toro e il compositore spagnolo Javier Navarrete, che realizza qui una toccante colonna sonora, ma con le sue note che diventeranno fondamentali nei prossimi progetti del regista messicano.

5) LA FIERA DELLE ILLUSIONI – NIGHTMARE ALLEY

Dopo 4 anni dallo straripante successo de “La forma dell’acqua”, Guillermo Del Toro torna alla ribalta con un altro strabiliante lungometraggio, raccontando l’illusoria scalata al successo del misterioso ed affascinante personaggio di Stan Carlisle nel nuovo adattamento dell’omonimo romanzo del 1946 di W. L. Gresham: “La fiera delle illusioni: Nightmare Alley”. Pur continuando comunque ad additare istituzioni religiose e politiche, con l’immancabile cura e tutela dei propri mostri – che qui vengono rappresentati dai freaks circensi – il film è una vera e propria “mosca bianca” all’interno della filmografia di Del Toro. Mettendo alla sedia l’egocentrismo tossico insito nell’essere umano, il regista messicano realizza un noir fortemente suggestivo ed impreziosito da potente tensione attraverso i suoi sviluppi narrativi mistery, ma comunque rientrando nel campo del “realismo” senza – per la prima volta nella sua filmografia trentennale – regalare alcun mezzo fantasy. Un cast stellare – che va da Bradley Cooper a Cate Blanchett, passando per Willem Defoe ed ancora Ron Perlman – in un film tetro ed abbagliante che offre anche una peculiare lezione di metacinema, in una narrazione pregna di simbolismo preponderante che attinge soprattutto dalla mitologia greca.

4) LA FORMA DELL’ACQUA

Avendo purtroppo il podio solamente 3 posti a disposizione, è d’obbligo escludere dal terzetto uno dei 4 capolavori del regista messicano solo per scelte d’opportunità. La forma dell’acqua del 2017 non è solo il 10° lungometraggio di Guillermo Del Toro, ma è anche quello della consacrazione definitiva soprattutto a livello di critica e riconoscimenti, grazie alle vittorie ai Premi Oscar di Miglior Film e Miglior Regista (oltre a quelli per la toccante Colonna Sonora di Alexandre Desplat e la favolosa Scenografia di Paul D. Austerberry, senza dimenticare il Leone d’Oro ottenuto a Venezia). Ispirandosi alla fiaba de “La bella e la Bestia” ed omaggiando il cinema a lui più caro con “Il mostro della laguna nera” del 1954 diretto da Jack Arnold, Del Toro realizza nel pieno mandato di Donald Trump una delicata e passionale storia d’amore “interrazziale” – tra un’eroina muta, inserviente in un laboratorio governativo, ed una divinità dalle sembianze anfibie – ambientata durante la Guerra Fredda, abbattendo ogni barriera sociale elevando ad eroi del racconto le minoranze e gli emarginati, e continuando a descrivere acidamente gli spietati mostri del potere politico-istituzionale. Una visione romantica e delicata che non disdegna minimamente la tensione del film di spionaggio, regalando grande cinema anche grazie al citazionismo ed attraverso una messa in scena magniloquente tanto nell’originalità visiva quanto nella perizia tecnica.

3) HELLBOY: THE GOLDEN ARMY

Arrivati sul podio, un altro dei capolavori del regista messicano è un cinecomic, nonché uno dei migliori del genere, con un unico grande difetto: essere il secondo tassello di una trilogia ancora incompleta. Il sensazionale Hellboy: The Golden Army del 2008 riprende il personaggio di Red del primo capitolo del 2004 – interpretato sempre dal fedele Ron Perlman – ed eleva il tutto all’ennesima potenza, tanto nell’aspetto contenutistico quanto soprattutto in quello visivo. Nello scontro tra Hellboy e l’ammaliante e potente villain del Principe Nuada, Del Toro continua a raccontare storie di mostri per riflettere la mostruosità insita nell’essere umano, sfruttando il processo di crescita della sua mascotte del Ragazzo Infernale per raccontare forti ed intensi rapporti interpersonali. Sequenze toccanti e drammatiche, ma contrastate con maestria da altre estremamente ironiche e grottescamente comiche, senza mai abbandonare un intrattenimento action spettacolare. I grandi effetti speciali servono poi solo come supporto alla visionaria messa in scena di Del Toro, che qui dà l’ennesima prova di un gusto estetico abbagliante e fuori dal comune, confermandosi creatore di mondi nel dare libero sfogo al suo genio creativo attraverso scenografie mastodontiche, sia per complessità tecnica nella realizzazione, sia per l’impatto visivo che riesce a restituire.

2) PINOCCHIO

Già nel 2008, proprio dopo l’avventura con “Hellboy: The Golden Army”, Del Toro dichiarò l‘intenzione di riadattare il romanzoLe avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi. Il sogno mancato per Del Toro fu infatti quello di realizzare un film d’animazione in stop-motion (ancorato per sfortunati episodi biografici) che, fortunatamente nel 2022 grazie all’intervento di Netflix, riesce a vedere la luce. “Pinocchio” potrebbe benissimo essere considerato il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia storica” – completando l’aspra critica de “La spina del diavolo” e “Il labirinto del Fauno” – con un superbo film d’animazione che difende ed onora la diversità, ridicolizza l’ideologia fascista, tratta il labile confine tra la vita e la morte, enfatizza la magia nel quotidiano e fa divertire il suo pubblico (diretto tanto agli “adulti” quanto ai più giovani) con tanta meraviglia. Al momento primo ed unico lungometraggio d’animazione nella filmografia del regista messicano, “Pinocchio” gode di un tratto estetico mirabile forte dell‘incredibile lavoro artigianale svolto sulla stop-motion, che restituisce una visione in particolari minuziosi e “fedeli”, ma che sa anche rappresentare il peculiare mondo fiabesco di Del Toro popolato dalla magia e dagli incubi.

1) IL LABIRINTO DEL FAUNO

Probabilmente al livello dei suoi 3 predecessori in classifica, impossibile non assegnare il primo posto nel podio a “Il labirinto del fauno”, ovvero quello che potrebbe benissimo essere considerato il manifesto estetico e poetico della filmografia di Guillermo Del Toro. La fiaba di Ofelia che, oppressa dallo spietato patrigno e capitano franchista Vidal, viene introdotta da un misterioso e leggendario Fauno ad un mondo magico popolato da creature fantastiche – tra magia ed orrore, sogni ed incubi – è la summa cinematografica del regista messicano, con Del Toro che riempie il film di un marcato simbolismo e ne straborda tutto il suo genio creativo attraverso la sua poetica. Un’opera pregiata tanto nell’aspetto contenutistico pregno di significato, quanto in quello prettamente tecnico. Sia dal lato più squisitamente registico, nel saper restituire attraverso montaggio e scrittura forti emozioni che virano dal dramma all’horror, sia da quello dell’incantevole messa in scena che regala, attraverso una laboriosità quasi esclusivamente artigianale, un’affascinante visione forte dei Premi Oscar alla Miglior Fotografia, Scenografia e Trucco, senza dimenticare la struggente e seducente colonna sonora di Javier Navarrete.