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Guillermo Del Toro – Monografia: Parte 4 – Un Del Toro inedito, ma sempre coerente con sé stesso

Quella di Guillermo Del Toro è stata una crescita costante: dagli esordi affrontati nella Parte 1, alla maturazione dei primi grandi successi internazionali nella Parte 2, fino alla consacrazione definitiva della Parte 3.

 

Inizia ora per il regista messicano una fase molto particolare, in cui chiunque avrebbe potuto benissimo adagiarsi sugli allori dopo il riconoscimento del Premio Oscar al Miglior Regista e al Miglior Film. Del Toro invece continua ad essere una scheggia impazzita, non finisce di sperimentare e buttarsi produttivamente in nuovi progetti, da molti punti di vista anche azzardati. Genio e sregolatezza lo portano così a realizzare il suo unico film “realista”, ad un’importante collaborazione televisiva e al suo primo lungometraggio d’animazione.

 

Di seguito si tratteranno: “La fiera delle llusioni – Nightmare Alley“, “Cabinet of Curiosities“, “Pinocchio“.

 

Nightmare Alley: il cinema è la fiera delle illusioni

<<È un uomo o una bestia?>>

 

Dopo 4 anni dallo straripante successo de “La forma dell’acqua”, Guillermo Del Toro torna alla ribalta con un altro strabiliante lungometraggio e nuovo adattamento dell’omonimo romanzo del 1946 di W. L. Gresham: “La fiera delle illusioni: Nightmare Alley”. Già trasposto infatti sul grande schermo l’anno seguente l’uscita cartacea per la regia di E. Goulding, l’idea di realizzarne una nuova versione venne già accarezzata nell’ormai lontano 1992, quando il buon compare Ron Perlman mostrò al regista messicano una copia dello scritto di Gresham, dal quale rimase folgorato.


Si abolisce di fatto il termine remake, dato che il cineasta di Guadalajara non da’ corda al film del 1947, ma sfrutta solamente il soggetto del romanzo, per poi infondere nell’opera la sua autorialità per poter rimanere fedele il più possibile alle sue idee e alla sua poetica. Ciononostante, l’undicesima fantastica fatica di Del Toro resta per molti aspetti una vera e propria “mosca bianca” all’interno della sua filmografia.

 

 

La storia narrata è quella del misterioso ed affascinante Stan (Bradley Cooper) che, nel 1939, inizia a lavorare come tuttofare presso il circo itinerante gestito dal Sig. Clem (Willem Dafoe). Fra le varie attrazioni della fiera circense c’è Pete (David Strathairn), un anziano mentalista dedito all’alcol, che gli insegnerà i trucchi del mestiere grazie ai quali il giovane uomo riuscirà ad intraprendere una carriera d’oro. Ma si sa che è sempre bene conoscere i limiti da non superare, e che il prezzo del successo comporta spesso un percorso di dolore segnato dal sangue su candida neve, soprattutto nel caso di Stan in cui un passato pericolosamente ingombrante di morte e disperazione tornerà a perseguitarlo.

 

 

Dall’autore di splendide fiabe come “IL labirinto del Fauno” o “La forma dell’acqua”, oppure di cinecomics con protagonisti diavoli e vampiri, qui si è davanti ad un Del Toro ridimensionato, inedito, che di fatto abbandona il fantasy (sempre difeso, protetto e rilanciato) e con esso la perdita della magia nella fiaba, mettendo in scena un crudo cinismo e pessimismo nell’introspezione circa la natura umana.
Un simbolismo preponderante quello in “Nightmare Alley“, che attinge soprattutto dalla mitologia greca, in particolare nel contrasto amore/odio verso la propria figura paterna/materna: il regista scrittura e rappresenta infatti 3 figure maschili ed altrettante figure femminili, ognuna con le proprie caratteristiche, per mostrare come il protagonista si relazioni ad esse.

 

Ovviamente però Del Toro non abbandona i mostri da cui è ossessionato, e li ricerca anche quando l’intento è quello di realizzare una storia quanto più realistica possibile, seppur ricoperta da tenebrosa magia intangibile, ma fortemente percepibile: cosa si avvicina maggiormente ai personaggi grotteschi e mostruosi delle sue fiabe se non i freaks circensi?

 

 

Una prima metà del film fa infatti dolcemente smarrire lo spettatore nel surreale mondo delle giostre, dei trucchi di scena e delle ipnotiche locandine, in cui il regista si prende tutto il suo tempo per intavolare le giuste premesse narrative e scandire l’evoluzione del suo protagonista, lasciando intendere quanto si sia divertito sul set nel ricostruire una meravigliosa scenografia che verrà anche candidata all’Oscar. Nella sua seconda metà invece, la pellicola cambia completamente registro ed entra nel vivo: un noir spoglio dei suoi cliché – a detta dello stesso Del Toro – ed impreziosito da potente tensione attraverso i suoi sviluppi narrativi mistery, seguendo le vicende di un protagonista alle prese con i propri demoni, provenienti da un passato ricostruito brillantemente con semplici ed efficaci flash, fino a concludere la ricostruzione con un lacerante frammento terminale.


Il film narra di come un personaggio venuto dal nulla (un “contadino dai denti dritti”) riesca, con il suo carisma e la sua capacità nel saper catturare l’attenzione del pubblico, a raggiungere il successo e il potere, consapevole di essere solo un impostore. Nell’arco dei freschissimi 150′ vengono infatti più volte proposti parallelismi fra il personaggio principale ed un comune pastore religioso, un attivista politico, arrivando a “quel tizio che sembra Chaplin che ha appena invaso la Polonia”.


Uscito infatti successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, il romanzo di Gresham intendeva additare – oltre l’illusione del “sogno americano” – anche la spregiudicatezza degli esponenti politici e religiosi nell’approfittarsi dell’analfabetismo e della superstizione della gente comune per riuscire a soggiogare le masse. Temi che sembrerebbero superati con l’avvento della tecnologia, rendendo obsoleta nel 2022 soprattutto la presa spirituale; tuttavia è possibile leggere ovunque come discutibili esponenti politici, o comunque di una parte della società, approfittino di fake news per catturare il consenso di più persone possibili attraverso appunto l’illusione della verità, che sia consapevole o meno.

 

Del Toro prende un racconto degli anni ’40 e lo modernizza da grande maestro, mettendo alla sedia elettrica l’egocentrismo tossico insito nell’essere umano: l’ignoranza, che qui fa rima con “innocenza”, si lascia abbindolare e porta al dramma del fanatismo, da tragedie interne e private (una scioccante sequenza in particolare nel film acquista maggior cupezza alla luce dei recenti ed inquietanti fatti di cronaca nera), a quelle di dominio pubblico che vanno a sfociare in rivolte o addirittura, appunto, in un Conflitto Mondiale (pertinente oggi più che mai).

 

Già assaporata nel precedente “La forma dell’acqua” il film si presta anche ad una lettura squisitamente metacinematografica, nell’essere una lettera d’amore spassionato verso il cinema che più intriga il cineasta messicano, come il noir, il giallo ed il poliziesco. Un parco divertimenti, quello dello spettacolo, in cui lo stesso ruolo del regista si presenta come moderno illusionista, capace con la sua tecnica e con i suoi trucchi di incantare la visione del pubblico.

 

A portare avanti una narrazione avvincente e ricca di colpi di scena è un cast decisamente stellare. Probabilmente la miglior interpretazione di Bradley Cooper (dal primo incontro con Del Toro per discutere del suo ruolo è stato amore a prima vista per entrambi), con un personaggio tristemente ed inevitabilmente solo che evolve con il passare dei minuti continuando ad uccidere un frammento della propria vita, del suo passato, per cercare ogni volta il salto di qualità, con il rischio che la sua ambizione e la sua avarizia possano farlo finire “Appeso”.


La splendida femme fatale Cate Blanchett ammalia con la sua tenebrosa e pericolosa personalità, mentre il resto del cast presenta: il già citato Ron Perlman dalla massiccia presenza scenica di “uomo forzuto”, il sempre meraviglioso squilibrato Willem Defoe, l’affascinante personaggio di Toni Colette e la rappresentazione dell’innocenza di Rooney Mara, arrivando alla piccola ma sostanziale parte di T. B. Nelson nel finale, ma a cui regalerà prossimamente più spazio in un altro progetto personale del regista messicano.

 

 

Tecnicamente c’è veramente poco da aggiungere all’ammaliante visione. Ormai la perizia tecnica di Del Toro è d’alta scuola e non fa più notizia: è tutto un trucco, un’illusione, ma la magia rimane preponderante nella sua estetica, che passa per la fotografia ispiratissima di Dan Laustsen, già collaboratore del regista messicano ne “La forma dell’acqua” e “Crimson Peak” (un nuovo magico duo dopo la collaborazione con Navarro). Sebbene in alcune sale cinematografiche di Los Angeles sia stata distribuita una versione in bianco/nero del film – intitolata “Vision in Darkness and Light” – per accentuare la visione del noir classico, la commistione fra fotografia e la cangiante scenografia curata da Tamara Deverell restituisce pura magniloquenza visiva, forte delle sue umide tonalità dorate e cerulee squarciate da un affascinante gioco di ombre.

 

Insomma, un Del Toro che osa che prova a portare qualcosa di nuovo, ma che non tradisce la sua poetica; forse, alla fine della fiera, i mostri siamo sempre e solo noi, con la paura e l’amore che giocano un ruolo determinante nella manipolazione del cuore, della mente e della natura umana. Praticamente tutto bellissimo, se non fosse che Del Toro sembrerebbe perseguitato dalla sfortuna (forse un patto con il diavolo lo ha davvero stretto come in “Geometria” e nessuno lo sa): il film non lo ha infatti visto quasi nessuno. I problemi legati alla situazione sanitaria del Covid-19 aveva già fatto interrompere le riprese per oltre 6 mesi (più per volere dello stesso Del Toro, allora non fu ancora obbligatorio fermarsi ma la paura che qualcuno potesse infettarsi era tanta) ma soprattutto ha contribuito fortemente ad affossare il film alla sua uscita. “Nightmare Alley” ha infatti fallito completamente al botteghino (per la prima volta nella carriera di Del Toro), incassando un totale di 39,6mln$ in tutto il mondo contro un budget di produzione di 60. Nonostante la risposta della critica fu davvero positiva se non entusiasta – su tutti il regista Martin Scorsese incitava di cuore a vedere il film – l’11° lungometraggio del regista messicano si è rivelato un vero e proprio flop, non ricevendo nemmeno prestigiosi riconoscimenti (4 candidature ai Premi Oscar, tra cui Miglior Film nel 2022 poi scippato da “CODA: i segni del cuore”).

 

Cabinet of Curiosities: arriva Netflix

Il fortunato e fortunoso 2018, non è stato per Del Toro solo l’anno di vittoria del Premio Oscar come Miglior Regista e Miglior Film per “La forma dell’acqua”, ma è stato importante anche per l’inizio di una nuova collaborazione, ovvero quello con Netflix. Negli anni infatti l’idea del regista messicano di realizzare una nuova personale versione di “Pinocchio” stava ormai scomparendo, ma proprio quando il progetto venne abbandonato nel 2017, l’ottobre dell’anno dopo la stessa Netflix acquisì i diritti del film per iniziarne la lavorazione. Questo avvenne sì perché Del Toro fu fresco vincitore dell’Oscar, ma anche perché pochi mesi prima le due parti iniziarono a lavorare su un altro ambizioso progetto: una serie TV denominata “Cabinet of Curiosities”.

 

Guillermo Del Toro non era affatto nuovo al mondo televisivo. Negli anni di attività della sua compagnia Necropia, dal 1986 al 1989 diresse e sceneggiò 5 episodi della serie TV “Hora Marcada”, una serie antologica messicana di genere horror e fantascienza alla quale lavorò anche un altro de “los tres amigos”, il regista Alfonso Cuaron. Successivamente, Del Toro ideò nel 2014 la serie horror “The Strain”, basata sulla trilogia di libri Nocturna (scritta dallo stesso regista e da Chuck Hogan), per la quale curò la sceneggiatura di tutti e 46 episodi spalmati in 4 stagioni fino al 2017. Il fresco vincitore dell’Oscar però non era nuovo nemmeno alle produzioni Netflix, per la quale ha infatti ideato e sceneggiato altre 3 serie tv complessivamente in 6 stagioni. Si tratta della trilogia de “I racconti di Arcadia”, composta da “Trollhunters”, “3 in mezzo a noi” e “I Maghi”, ovvero 3 serie tv d’animazione fantasy per ragazzi andate in onda dal 2016 al 2020 e che hanno riscosso anche un gradevole accoglimento soprattutto da parte della critica.

 

Insomma Guillermo Del Toro vive per il cinema e per renderlo più magico possibile, ma alle spalle ha una gavetta anche nel mondo televisivo e sa come muoversi. Netflix gli concede infatti di realizzare l’ambizioso progetto di “Cabinet of Curiosities”, quale vero e proprio vaso di Pandora della sua visionaria mente che viene spalancato in occasione dell’appuntamento di Halloween 2022. La serie antologica di genere horror presenta infatti 8 episodi (“Lotto 36”, “Il cimitero dei ratti”, “L’Autopsia”, “L’Apparenza”, “Il modello di Pickman”, “Sogni nella casa stregata”, “La visita”, “Il mormorio”), indipendenti tra loro nel raccontare storie dell’orrore uniche, con l’intento di sfidare e superare il genere tradizionale dando vita propria alle collezioni e quaderni personali che hanno contribuito a distinguere la carriera artistica dell’autore messicano.

Incarnando un moderno menestrello, Del Toro si è messo comodo intorno ad un falò per raccontare le sue storie ad un pubblico inghiottito dal buio e dall’oscurità, riuscendo ad incutere paura, inquietudine, mistero e appunto tanta curiosità: il regista non solo è co-sceneggiatore degli episodi (2 dei quali sono suoi soggetti originali), ma all’inizio di ogni capitolo presenta direttamente la storia che andrà a raccontare.

 

Sebbene “Cabinet of Curiosities” sia stata accolta con recensioni per lo più positive da parte della critica, ed è subito salita ai primi posti della classifica di gradimento e ricezione del pubblico di Netflix, la serie non è da tenere in forte considerazione solo per l’aspetto qualitativo di ogni singolo episodio (alcuni più riusciti di altri), ma lo è per l’aspetto produttivo stesso. La mente di Guillermo Del Toro è sempre infatti in un continuo processo creativo e, per dare sfogo alle continue idee che popolano i suoi scrigni più reconditi e per dare vita alle numerose sceneggiature già complete, il cinema e il grande schermo (che è, rimane e dovrà continuare a rimanere casa sua) non gli basta più, ma non gli basta più nemmeno una persona sola, per quanto questa possa giganteggiare. Del Toro incarna lo spirito che muoveva i produttori cinematografici di “vecchio stampo” (uno su tutti Roger Corman) e nella sua indomabile passione per il cinema lo spinge a chiamare a sé amici, vecchi collaboratori, autori emergenti per dare loro un’occasione in più. Gli 8 registi che dirigono gli episodi della serie vengono infatti scelti e selezionati direttamente dallo stesso regista messicano, co-sceneggiando gli episodi ed ovviamente determinando linee guida (la serie è pur sempre una sua mostruosa creatura), ma lasciando agli autori molta libertà, i quali vengono direttamente presentati in ogni intro dell’episodio (non una cosa che si vede tutti i giorni).

 

Fra questi sono presenti vecchi amici e collaboratori – come il suo storico direttore della fotografia Guillermo Navarro e Vincenzo Natali (“Cube”, “Splice”, in quest’ultimo Del Toro è produttore esecutivo) – ma anche nuovi autori emergenti – come David Prior (“The empty man”) e il regista greco Panos Cosmatos – senza far mancare autrici più conosciute e navigate – come la regista Ana Lily Amirpour (conosciuta specialmente per il suo debutto con “A Girl Walks Home Alone at Night”) e la Jennifer Kent di “Babadook”.

 

Attraverso racconti originali, omaggi e adattamenti di H. P. Lovecraft e E. A. Poe, Guillermo Del Toro dà vita alla sua personale e mostruosa fucina di idee con il cuore diretto all’horror, al fantasy, al gotico e alla fantascienza. Ma non si smette mai da lavorare per progetti personali in ambito cinematografico, e la prossima opera di Del Toro potrebbe essere (sotto svariati punti di vista) quella che chiuderà molte faccende rimaste in sospeso, tra sogni e trilogie mancate: Pinocchio.

 

Pinocchio: l’amorevole Mostro del Dottor Del Toro

<<Per me è essenziale contrastare l’idea che devi trasformarti in un bambino in carne e ossa per essere un vero essere umano. Tutto ciò di cui hai bisogno per essere umano è comportarti davvero come tale, sai? Non ho mai creduto che la trasformazione dovrebbe essere richiesta per ottenere l’amore.>>

Il 22 ottobre del 2018, Netflix annunciò la lavorazione di un nuovo (ed ennesimo) adattamento della storia di “Pinocchio”, con regista proprio Guillermo Del Toro. Ma il legame che unisce i due personaggi viene stretto decisamente molto prima.

Da bambino nella sua casa a Guadalajara, il prossimo regista messicano Premio Oscar impazzì di gioia per la visione del 2° Classico Disney del 1940 “Pinocchio”. Ricordando che Del Toro inizio a prendere in mano una Super8 già in tenera età, il sogno di poter realizzare un film sul “suo” burattino di legno crebbe già dall’infanzia, con il primo lungometraggio che sarebbe dovuto essere un film d’animazione in stop-motion, poi infranto dal furto dei pupazzi appena costruiti. Nel 2003 scoprì una nuova edizione del libro di Carlo Collodi “Le avventure di Pinocchio” con le illustrazioni particolarmente dark dell’artista Gris Grimly, con il quale decise subito di entrare in contatto perché Del Toro ne aveva riconosciuto lo spirito in linea con la propria visione della storia.


Dopo l’uscita di “Hellboy: The Golden Army”, nel 2008 Del Toro annunciò che il suo prossimo progetto sarebbe stato infatti un adattamento più oscuro del romanzo di Collodi, affermando come questa sia una delle sue più grandi passioni: <<Nessuna forma d’arte ha influenzato la mia vita e il mio lavoro più dell’animazione e nessun singolo personaggio nella storia ha avuto un legame personale così profondo con me come Pinocchio, ho volevo fare questo film per tutto il tempo che posso ricordare>>.


Già nel febbraio 2012, Del Toro pubblicò alcuni concept art con i disegni dei vari protagonisti, con il rilascio inizialmente previsto nel 2013 o 2014, ma ovviamente il progetto è entrato come al solito in un inferno di sviluppo senza ulteriori informazioni per anni (poi sono subentrati gli altri progetti del regista messicano, a cominciare proprio dal “Pacific Rim” del 2013). Come spiegato anche alla 74a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, sorgevano principalmente problemi produttivi legati alla mancanza di fondi, con nessuno studio disposto a finanziarlo: al regista venne anche proposto di ridurre i costi di produzione trasformando il film in animazione 2D, ma se il sogno è quello della stop-motion per la sua visione non può essere infranto ed ovviamente rifiutò con la consapevolezza che potesse mai vedere la luce. Fortunatamente nel 2018 Netflix decise di prendersi carico del progetto e, dopo una campagna distributiva tanto discutibile quanto ristretta, finalmente il regista messicano ha potuto realizzare il proprio sogno.


Suo primo film d’animazione, “Pinocchio” è (per tanti aspetti) l’anello che chiude armoniosamente molte questioni irrisolte nella carriera e nella filmografia di Guillermo Del Toro; a partire proprio da quel sogno che si realizza ovviamente, ma la stop-motion non è solo un capriccio d’artista, ma è una strategia ben definita.
Sul set il regista deve anche dirigere gli attori, esseri umani che inciampano, dimenticano le battute e tutto contribuisce ad arricchire il processo creativo. Con l’animazione tradizionale (in 2D o 3D) non puoi interagire, i personaggi vengono appositamente disegnati e creati per non commettere errori, per svolgere quelle specifiche azioni. Nella realizzazione in stop-motion si creano i pupazzi, i burattini, ma poi serve anche poterli animarli, trovare l’angolazione giusta nello spazio del set e tutte le componenti tecniche e scenografiche. Possono sbagliare (provando a mettergli in mano determinati oggetti che poi cadono a terra perché non vengono stretti per bene) e tutto è processo creativo…più lungo, più dispendioso, ma più vero. I pupazzi fanno errori, sono difettosi e diventano così umani, e “Pinocchio” non può che essere il soggetto perfetto per una lavorazione in stop-motion e trasferire questa visione.


Dopo al sogno che si realizza, come secondo aspetto fondamentale “Pinocchio” potrebbe benissimo essere considerato il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia storica”, completando l’aspra critica fascista de “La spina del diavolo” e “Il labirinto del Fauno”. Già, perché il film non è il classico riadattamento della storia che conoscono tutti (il pezzo di legno che magicamente prende vita e dovrà superare una serie di avventure per poter diventare un bambino vero), specie dopo le numerose versioni solo negli ultimi anni, ma “incarna” completamente la visione del suo regista, esteticamente e concettualmente. Nella storia di Del Toro, Pinocchio non ha bisogno di diventare un bambino vero dato che è già un fanciullo chiassoso, curioso e dal cuore innocente, catapultato però nell’Italia fascista degli anni ’30. Lì sì che ci sono i burattini. Ci sono le pecore superstiziose ed ipocrite che seguono il loro pastore religioso, ci sono gli schiavi spazzatura che obbediscono ad avari affaristi, ci sono soldatini che seguono ciecamente gli ordini di politici corrotti e senza scrupoli. Pinocchio “incarna” la magia, la meraviglia, la fanciullezza, la ribellione, la speranza: non può omologarsi ai burattini umani ma deve vivere, non può morire.


Già, la Morte. Altro tema particolarmente caro a tutta la filmografia del regista messicano, ovvero lo stretto legame con l’aldilà, dove qui raggiunge il suo apice poetico attraverso una trattazione didascalica. Quest’ultimo aspetto non necessariamente inteso in termini negativi, si sta comunque parlando di un film rivolto principalmente ai più piccoli anche se lo stesso Del Toro ha poi dichiarato: <<Ognuno di noi facciamo questo genere di film non pensando che sia solo per bambini. L’animazione è arte. L’animazione è cinema.>>.

In una fiaba dove ancora una volta gli eroi sono i bambini, i freaks, i reietti, gli emarginati e i diversi, Del Toro non solo torna alla sua ammirazione per le opere di Mary Shelley (Pinocchio come piccolo Mostro di Frankenstein), ma riprende la storia di Collodi per poterla stravolgere a proprio piacimento, senza tradirla. Così come per capire la luce serve necessariamente il contrasto con l’oscurità, così Del Toro prende il pezzo di legno del romanzo italiano e levigandolo costruisce la propria creatura, trasformando una storia principalmente di formazione in una cinica riflessione sulla morte, sull’elaborazione del lutto, sul “peso” della memoria, sull’apprendere e sulla conoscenza della morte per rendere la vita più magica e significativa. In questo quadro profondo e sentito, dettaglio non da poco diventa che, poco prima della Premiere al London Film Festival del 15 ottobre 2022, Del Toro annunciò la scomparsa della sua adorata madre Guadalupe: Pinocchio è stato un film (quello del 1940) che ha particolarmente legato madre e figlio e, in post visione della sua nuova versione del 2022, il tutto acquista molta amarezza ma ancor più dolcezza.


Guillermo Del Toro, uno dei registi più visionari del nostro tempo, prende la sua poetica d’autore popolata da mostri invincibili e Dei e semplicemente/umilmente/innocentemente realizza una nuova versione del burattino più famoso del mondo, con animazione stop-motion in salsa musicale. Perché, nonostante le grandi avventure, i mostri terribili e i castelli gotici, il regista messicano rimane pur sempre un bambino che ama giocare con i suoi pupazzi. Ancora una volta in “Pinocchio” difende ed onora la diversità, critica e ridicolizza l’ideologia fascista, tratta il labile confine tra la vita e la morte, enfatizza la magia nel quotidiano e fa divertire il suo pubblico con tanta meraviglia (anche qui tornano infatti i suoi meravigliosi tratti distintivi estetici di “creatore di mondi”). Insomma, Del Toro non ha mai smesso di fare il Del Toro nemmeno in una fase per lui inedita, punta tutto sulla sua visione del mondo e continua a regalare sfaccettature fantastiche di quello e di altri mondi che solo lui riesce ad immaginare. Il film fortunatamente riesce in poco tempo ad ottenere un consenso pressoché unanime da parte di critica e pubblico, con la colonna sonora curata anche questa volta da Alexandre Desplat, vincitore del Premio Oscar proprio con “La forma dell’acqua”, che potrebbe accompagnare verso un’altra probabile e trionfante Notte degli Oscar.