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Guillermo Del Toro – Monografia: Parte 3 – Una collezione di giocattoli e statuette

Un’infanzia travagliata e molta gavetta hanno condotto Guillermo Del Toro alle prestigiose porte di Hollywood, sebbene il loro incontro sia incominciato con il piede decisamente sbagliato. Iniziando a costruirsi un nome partendo dal cinema di serie B (soprattutto allora l’horror, la fantascienza e i cinecomics continuavano a non essere visti di buon occhio per certi piani “patinati”), il regista messicano riesce a ritagliarsi una fetta importante di popolarità nel pubblico grazie soprattutto a “Blade II” e “Hellboy“. Tuttavia, Del Toro riesce anche a ricevere un degno apprezzamento dalla critica grazie ai suoi lavori più “intimi” – come “La spina del diavolo” – e ad affacciarsi alla prestigiosa cerimonia degli Oscar con “Il labirinto del fauno“. Insomma, il regista di Guadalajara è riuscito a farsi amare un po’ da tutti ma, come imparato dalla Parte 1 e dalla Parte 2 della sua monografia, i problemi (soprattutto produttivi) non mancano mai, seguiti però da una forte rivincita come avverrà anche in questo caso. Di seguito si tratteranno i seguenti film: “Pacific Rim“, “Crimson Peak“, “La forma dell’acqua“.

Pacific Rim: ora servono i mostri ancora più grossi

<<Oggi, ai limiti della speranza, alla fine del nostro tempo, abbiamo scelto non solo di credere in noi stessi, ma l’uno nell’altro! Oggi non esisterà uomo o donna qui che verranno lasciati soli! Non oggi… Oggi affronteremo i mostri che sono alle nostre porte e non proveremo nessuna paura! Tutti noi ora cancelleremo l’apocalisse!>>
Inseguendo i suoi sogni più proibiti, soprattutto dopo la freschezza del materiale fantasy del secondo capitolo di Hellboy (elfi, nani, troll, demoni…manca giusto un Anello del Potere), Del Toro dovette tuttavia scontrarsi nuovamente con i problemi produttivi delle majors. Inizialmente selezionato come capitano per poter realizzare “Lo Hobbit – un viaggio inaspettato”, il regista messicano dovette abbandonare il progetto per i continui ritardi nelle riprese dovuti ai problemi finanziari della MGM (poi il posto verrà ripreso da Peter Jackson, che realizzerà la nuova trilogia basata sul fantastico mondo di J.R.R. Tolkien). Ma questo non fu l’unico sogno infranto: la Universal cancellerà infatti il progetto tanto bramato di adattare il romanzo “Alle montagne della follia” di H. P. Lovecraft, cosa che ha finito per distruggere emotivamente lo stesso Del Toro. Ma proprio quando si stavano spegnendo tutte le luci, Legendary e Warner Bors. concessero 190mln$ di budget per realizzare Pacific Rim. Con l’ormai accantonato Lovecraft (il sogno per il regista e soprattutto per i fan permane), Del Toro può comunque trattare a modo suo gli Antichi, modernizzando un genere, attingendo dalla filosofia e soprattutto dagli anime giapponesi tanto amati, dando libero sfogo all’intrattenimento più puro, ormai acquisito e fatto proprio grazie alle precedenti esperienze con i cinecomics.

Con il film del 2013 (seguito da un secondo capitolo a dir poco dimenticabile, diretto da Steven S. DeKnight, del 2018), il regista messicano è un bambino che si diverte a giocare con i suoi robottoni di plastica, pur rimanendo un genio artistico, visionario e politico. Il divertimento nel prendersi gioco di tutti, inizia già prima dell’uscita del film, avendo di mira direttamente il pubblico con la diffusione su internet di un video – poi diventato virale – in cui una serie di notiziari annunciavano l’attacco di mostruose creature. Il film narra infatti la guerra tra questi Kaiju – personaggi della mitologia nipponica, che qui rappresentano orribili mostri sbucati dal centro della Terra – e gli Jaeger, enormi robot che vengono pilotati necessariamente da 2 soldati interconnessi dal cosiddetto drift. Attraverso la rivisitazione della guerra tra il Godzilla di turno ed un Gundam ricostruito per l’occasione, il regista messicano si diverte anche a prendersi gioco del macchinoso e poco lubrificato mezzo produttivo cinematografico e lo fa, come ormai solito della filmografia deltoriana, attraverso l’ingresso del determinante personaggio femminile della Mako Mori interpretata da Rinko Kikuchi.

Anche se non ha raggiunto l’obiettivo prefissato dalla produzione, “Pacific Rim” è un altro successo commerciale con gli oltre 400mln$ incassati con un film mascherato da blockbuster ma che, ancora una volta, ha permesso al regista messicano di esprimere la sua poetica, giostrandosi ancora una volta con gli alti budget e facendoli suoi (con più o meno consapevolezza da parte del pubblico). Rimane comunque visibile come “Pacific Rim” possa essere considerato forse al momento un Del Toro minore: non tanto per la riuscita in sé del film – che rimane avvincente, spettacolare, ritmato, girato alla grande e con grandi effetti speciali – quanto per la debolezza del suo marchio d’autore, sia nell’estetica sia nella poetica, sebbene quest’ultima sia ovviamente sempre presente e ci fosse anche qui la collaborazione con Guillermo Navarro. Dopo gli anime, con un altro buon successo produttivo e una tiepida – ma generalmente positiva – accoglienza di pubblico e critica, ora Del Toro può dedicarsi a rincorrere un altro sogno nel cassetto: il classico gotico.

Crimson Peak: fantasmi del passato e la spina cremisi del diavolo

<<Forse notiamo le cose quando arriva il momento di vederle!>>
Non c’è niente da fare, Del Toro vuole a tutti i costi adattare “Alle montagne della follia” di Lovecraft. Ripropose la sceneggiatura alla stessa Legendary Pictures che gli permise di realizzare “Pacific Rim” con la speranza di una seconda collaborazione, ma ancora una volta la sceneggiatura venne scartata, assieme ad una versione in salsa western del romanzo di Alexandre Dumas “Il Conte di Montecristo”. Nuovamente, nonostante l’ennesima occasione persa, si cerca di non infrangere i sogni di un uomo, un regista un artista che sta continuando a regalare tanto al suo settore e ai suoi fan e così, al terminare dello stesso anno di “Pacific Rim”, venne accettata la terza sceneggiatura proposta, perché considerata “più adattabile”: Crimson Peak. Il testo venne preparato dallo stesso Del Toro e da Matthew Robbins (co-sceneggiatori entrambi per “Mimic”) poco dopo l’uscita de “Il labirinto del fauno” nel 2006, venduto poi alla Universal Pictures che, attraverso il gotico e i “mostri”, ha costruito gran parte della sua fortuna. La major ha infatti permesso a Del Toro di spostare il progetto alla Legendary, con la condizione che potesse investirci denaro e partecipando quindi finanziariamente al film.

Con “Crimson Peak” del 2015, Del Toro può finalmente affrontare direttamente uno dei suoi generi cinematografici preferiti (l’horror gotico più classico e puro), che fino a quel momento si aggirava – proprio come un fantasma – nella tetra ed affascinante magione che è la sua filmografia. La pellicola racconta della giovane, intellettuale ed intraprendente Edith (Mia Wasikowska) – che sogna di diventare una scrittrice del sovrannaturale di successo – che fa la conoscenza dell’affascinante Sir Thomas (Tom Hiddleston), con i due che inizieranno a vivere nella magione del baronetto in Inghilterra. Ma il nido d’amore non è proprio come lo aveva immaginato e, sconvolta da visioni spettrali, Edith inizierà ad indagare sul mistero che regna nell’antica dimora. Nell’omaggiare un genere classico che ha contribuito a segnare la storia del cinema, Del Toro rispetta sì le regole del caso, ma influenza ancora una volta fortemente il film con tutti gli elementi che hanno contraddistinto e continuano a contraddistinguere la sua poetica d’autore. Ritorna infatti il ghost-movie de “La spina del diavolo”, in maniera decisamente più marcata, dove il fantasma rappresenta ancora una volta l’immagine sbiadita di un orribile passato (che ne incarna, soprattutto in Crimson Peak, fisicamente ed esteticamente la mostruosità) che cerca di avvertire i vivi: c’è chi fugge terrorizzato dalla visione spettrale, finendo per scivolare e farsi male, e chi invece decide di ascoltare ciò che il fantasma ha da dire, imparando da esso. Ritorna anche l’accostamento con la scrittrice Mary Shelley, metaforicamente citata nello stesso “Mimic” e che qui diventa un’oggettiva citazione, tanto per l’ambientazione da gotico squisitamente classico dell’800, quanto per la sua intelligente e determinata protagonista scrittrice. Non è poi così impossibile pensare al personaggio di Edith come ad una versione adulta (sopravvissuta?) di Ofelia, amante dei libri e del mondo fantastico, in puro contrasto con gli ideali del padre e scettica ma allo stesso tempo attratta da chi la seduce, che sia un mostruoso fauno o un baronetto inglese. L’intelligenza della giovane protagonista continua a rendersi portavoce di un cinema, quello di Del Toro, profondamente femminista, dove la cultura, la caparbietà, i sogni ed un cuore puro riescono ad imporsi sul male di un mondo corrotto. A tornare è anche il vampirismo di “Cronos”, nel voler prosciugare la sanguinolenta argilla dal terreno per un’eterna giovinezza negli affari, rafforzando il messaggio ecologista ancora fresco apprezzato in “Pacific Rim”; ma tornano anche gli insetti che in qualche modo popolano sempre i film di Del Toro, sfruttati qui anche per descrivere direttamente i protagonisti, in un ronzare di farfalle e falene al chiaro di una luna insanguinata.

Nonostante però il cast dalla brillantina hollywoodiana – nel quale il regista ancora una volta inserisce il suo fidato Doug Jones – e tutta l’intenzione di raccontare di fatto una storia d’amore romantica e passionale, anche se attraverso il genere (gotico) e il soprannaturale, “Crimson Peak” viene accolto ancor più tiepidamente da critica e fan rispetto a “Pacific Rim”, incassando appena 74 mln$ in tutto il mondo contro il suo budget di 55. Dopo gli Oscar vinti per “Il labirinto del fauno” e il sensazionale “Hellboy: The Golden Army”, la carriera di Del Toro sembrerebbe avviarsi (per i più) verso la discesa: il suo zenit lo ha raggiunto e ora sta semplicemente bighellonando nel realizzare i suoi sogni personali. Un brusco e pericoloso intoppo non indifferente per la carriera di Del Toro che, in molti casi, poteva essere un passo falso (produttivamente) fatale. Se non fosse che, come l’Araba Fenice, la rinascita del regista messicano non tarderà ad arrivare ed incontrerà un altro strepitoso successo, al momento il suo picco più alto.

La Forma dell’acqua: un Oscar (anzi 2) per celebrare l’amore ed abbattere le barriere…e i muri

<<Il film è sui nostri problemi di oggi e sulla demonizzazione dell’altro, sulla paura o l’odio, e su come questa sia una posizione molto più distruttiva dell’imparare ad amare e capire [ …] se dico “C’era una volta nel 1962” diventa una fiaba per i tempi difficili. La gente può abbassare un po’ di più la guardia e ascoltare la storia, ascoltare i personaggi e parlare dei problemi, piuttosto che le circostanze dei problemi.>>.
Il 2017 è finalmente l’anno della consacrazione di Guillermo Del Toro. Non che ci fosse ancora bisogno di dimostrare per l’ennesima volta il suo talento artistico, la capacità di manipolare facendo propri prodotti commerciali e la caparbietà nell’attingere sempre e comunque da una personale poetica, ma dopo quasi 30 anni di carriera e a 14 anni dal debutto di “Cronos”, era arrivato finalmente il momento legittimamente sognato da qualsiasi addetto ai lavori nel mondo del cinema: il Premio Oscar.

Dopo “Crimson Peak”, Del Toro continua ad omaggiare la letteratura dei classici alzando ulteriormente il tiro per il romanticismo, ispirandosi qui alla fiaba (e non poteva essere altrimenti) de “La bella e la bestia”. Per “La forma dell’acqua” si tratta, a detta dello stesso regista messicano, del primo film “adulto” della sua carriera, arrivando a dichiarare: <<per 9 film ho riformulato le paure e i sogni della mia infanzia e questa è la prima volta che parlo come un adulto, di qualcosa che mi preoccupa in quanto adulto. Non sono preoccupazioni che avevo a 7 o 9 anni>>. Del Toro dovrà perdonare coloro che non credono in queste affermazioni, dal momento che anche le sue opere precedenti, sebbene impregnate di un innocente spirito fanciullesco, siano rimaste sempre spietatamente adulte: razzismo, politica, sesso, coraggio, emancipazione e chi più ne ha più ne metta. Con il suo 10° lungometraggio, il regista continua a rendere grazie anche al cinema horror di genere di metà ‘900, in particolare tornando agli amati Mostri della Universal con “Il mostro della laguna nera” del 1954 diretto da Jack Arnold (già omaggiato, non solo esteticamente, con il personaggio di Abe nei due capitoli di “Hellboy”). La nuova magica e malinconica fiaba di Del Toro venne ideata già nel 2011 assieme a Daniel Kraus (con il quale, in seguito, ha collaborato alla scrittura del romanzo “Trollhunters”), ma i soliti problemi produttivi che lo attanagliano lo spingono ad entrare in fase di produzione attiva solo nel 2016 ma, l’anno dopo, avviene un fatto che costringe lo stesso Del Toro (affiancato qui per la prima volta da una donna, Vanessa Taylor, costituendo un dettaglio fondamentale per la resa finale del film) a correggere qualcosa in sede di sceneggiatura: l’elezione di Donald Trump come Presidente degli U.S.A.

“La forma dell’acqua” è infatti ambientato, all’inizio degli anni ’60, in un laboratorio che conduce esprimenti scientifici a scopo militare nella cittadina di Baltimora. Nella struttura lavorano Elisa (Sally Hawkins)e Zelda (Octavia Spencer) che, insieme al coinquilino della prima Giles (Richard Jenkins), si renderanno eroi di una missione speciale ed improbabile. Un giorno, infatti, nella struttura governativa viene catturata una strana creatura anfibia, con la quale Elisa riesce a relazionarsi fin da subito, facendo nascere un intenso rapporto che spingerà la donna a voler salvare il Mostro dalle grinfie del governo. In tal contesto, il personaggio di Elisa si mostra come vera e propria musa per Del Toro, la sua protagonista divenuta insieme a lui finalmente adulta dopo le fasi attraversate, vinte e perse, dalle sue precedenti “donne”. In “La forma dell’acqua”, tutta la poetica e l’estetica deltoriana viene non solo ripresa (mai abbandonata), ma viene esasperata (nel senso più nobile del termine) in tutti i suoi aspetti, estetici e concettuali, così come la regia (già di alto livello fin da “Cronos”) e gli spassionati/intellettuali omaggi cinematografici. Ed è così che quella domanda fondamentale “Cos’è che fa di un uomo un uomo?” torna a martellare lo spettatore, tramutandosi ancora una volta negli affetti, nell’amore che scardina le disuguaglianze ed ha funzione complementare, addirittura tra una donna muta ed una divinità anfibia. Ancora una volta la musica, il cinema, l’Arte, diventano fonte vitale da cui attingere, una salvezza per l’anima in tempi oscuri e spunto per dimenticare il pianto con “Can’t smile without you”, conciliare il sonno con la ninna nanna di Navarrete, oppure ancora fantasticare nuove avventure o raccontare l’amore.

“La forma dell’acqua” è, in questo preciso momento della sua carriera, il film più “adulto” di Guillermo Del Toro, così definito da lui stesso. Una maturazione completa di temi e tecnica che ha saputo convincere tutti, risultando un trionfo tanto di botteghino (quasi 200mln$a fronte dei 20 di budget) quanto soprattutto di critica. È stato presentato in concorso alla 74a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – dove ha ricevuto il Leone d’Oro – per poi ottenere 13 candidature ai Premi Oscar, vincendo 4 statuette: quelle sacrosante per la colonna sonora di Alexandre Desplat e la scenografia di Paul D. Austerberry e, soprattutto, quelle per Miglior Film e Miglior Regista. Del Toro ce l’ha fatta! Anche se i premi ovviamente non influiscono per definire il talento di un artista, il regista messicano riesce ad ottenere il riconoscimento alla sua carriera, con discorsi alla cerimonia degli Oscar del 2018 spezzati dall’emozione. Ora può finalmente riposarsi…se non fosse che si chiama Guillermo Del Toro, che in Italia siano uscite solo nel 2022 due film e una serie TV da lui curata e che abbia più di 20 sceneggiature già complete “solo” da produrre.