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Recensione – Il Labirinto del Fauno: manifesto poetico ed estetico del genio di Guillermo Del Toro

Dopo aver iniziato a proporre cinema personalmente indipendente e dopo le esperienze hollywoodiane ad alto budget, in cui infondere la sua poetica d’autore, era arrivato il momento per Guillermo Del Toro per lanciare definitivamente la sua brillante carriera.

 

 

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2006, il sesto lungometraggio del regista messicano riscosse – e continua ancora oggi a riscuotere – un enorme successo fra pubblico e critica. Quasi quintuplicando al botteghino la quota stanziata per il budget, “Il Labirinto del Fauno” ha ottenuto un consenso pressoché unanime, arrivando ad aggiudicarsi quasi 100 premi in Festival e cerimonie di premiazione in tutto il mondo, tra cui 3 Premi Oscar per Miglior Fotografia, Scenografia e Trucco.

 

 

Di seguito la recensione di quello che potrebbe benissimo essere considerato il “capolavoro” di Guillermo Del Toro, per la capacità di concentrare in un’unica pellicola tutta la sua poetica e la sua riconoscibile estetica. Regista tornato recentemente alla ribalta nel 2022 con le uscite di “Nightmare Alley“, la serie antologica “Cabinet of Curiosities” ed il nuovo adattamento di “Pinocchio“.

 

 

 

Il Labirinto del Fauno: Ofelia nel Paese degli Orrori

Con il lungometraggio del 2006, si va a trattare del secondo capitolo di quella che doveva essere una trilogia spirituale per Del Toro, ambientando fattispecie fantastiche e fiabesche nello scenario della sanguinosa Guerra Civile spagnola. Il primo capitolo, “La spina del diavolo del 2001, lanciò definitivamente la carriera del regista messicano in campo internazionale come nuovo autore emergente – sebbene abbia già dato prova del suo valore al suo debutto in “Cronos” del 1993 e in “Mimic” del 1997 – ma, il consenso ottenuto con “Il Labirinto del Fauno”, cementò di fatto la sua figura come uno degli autori cinematografici più geniali del nostro tempo. Il terzo film, per il quale fu anche pronto il titolo di lancio “3993”, non vide purtroppo mai la luce…ma, col senno del poi, chissà non sia arrivato proprio nel 2022 sotto falso nome, con protagonista un burattino di legno.

 

Dando anche un’occhiata alla sua magione di Los Angeles tanto splendida quanto terrificante ma sicuramente affascinante, il dark-fantasy rimane la dimora preferita del regista messicano e, dopo aver portato sul grande schermo la sua personale reinterpretazione di due “mostri” del mondo fumettistico (“Blade II” del 2002, e “Hellboy” del 2004), i tempi furono maturi se vogliamo per un grande classico della letteratura. Pur non essendo ovviamente un suo adattamento, non è difficile riscontrare come la perversa e mostruosa originalità deltoriana abbia accomunato la giovane protagonista del film Ofelia a quella del romanzo di Lewis Carroll “Alice nel Paese delle Meraviglie”, divise fra sogno e realtà.

 

Tuttavia, occorre rimarcarlo, la pellicola presenta tutta l’anima personale del regista, con la sua genesi da riscontrare in un suo taccuino pregno di meravigliosi bozzetti composti nel corso degli anni. Talmente personale che, nonostante Hollywood continuasse a premere esternamente per un’atmosfera meno sinistra e per la recitazione in lingua inglese – al fine di rendere il film accessibile ad un pubblico più ampio – Del Toro si oppose, dichiarando come “Il Labirinto del Fauno” non fosse stato concepito per il profitto, ma per la sua visione, arrivando a rinunciare anche al suo intero stipendio da regista pur di assicurarsi che i requisiti del budget fossero rispettati.

 

 

Il Labirinto del Fauno: la trama

<<Tanto tempo fa, nel regno sotterraneo. Dove la bugia, il dolore, non hanno significato, viveva una principessa che sognava il mondo degli umani. Sognava il cielo azzurro, la brezza lieve e la lucentezza del sole. Un giorno, traendo in inganno i suoi guardiani, fuggì. Ma appena fuori, i raggi del sole la accecarono, cancellando così la sua memoria. La principessa dimenticò chi fosse e da dove provenisse. Il suo corpo patì il freddo, la malattia, il dolore, e dopo qualche anno morì. Nonostante tutto, il Re fu certo che l’anima della principessa avrebbe, un giorno, fatto ritorno, magari in un altro corpo, in un altro luogo, in un altro tempo. L’avrebbe aspettata, fino al suo ultimo respiro. Fino a che il mondo non avesse smesso di girare.>>

 

 

Una fiaba degna di questo nome non poteva certo non incominciare con un “Once upon a time” e la magnetica voce del narratore Pablo Adàn – Tonino Accolla nel doppiaggio italiano – non fa sicuramente sconti, per poter dare inizio ad un magico viaggio oltrepassando il ponte che separa fantasia e realtà.

 

 

Nel 1944, in una zona montuosa della Spagna logorata dalla Guerra Civile si assiste alla caccia, da parte dello spietato capitano Vidal, ai ribelli che continuano a contrastare il nuovo regime franchista. Affinché possa assistere alla nascita del suo erede, il capitano ha chiamato a sé la moglie Carmen, la quale decide di portare anche sua figlia Ofelia – nata dal precedente matrimonio con un sarto morto durante la guerra – e la premurosa governante Mercedes.

 

Con la madre sofferente a causa del parto e con un violento patrigno, Ofelia si rifugia nel suo personale mondo dell’immaginazione, trovando conforto nei libri per poter evadere dalla realtà. Un mondo che però si rivelerà non essere solo una fantasia, ma un sogno lucido ad occhi aperti.

 

 

Una notte infatti, accompagnata da delle fate, Ofelia si addentrerà in un labirinto situato presso la sua nuova dimora, incontrandovi una misteriosa creatura dalle sembianze di un Fauno, che le rivelerà la sua vera natura. Ofelia sembrerebbe infatti essere in realtà la reincarnazione di Moana – la principessa di un incantato mondo sotterraneo – e per poter tornare a casa la bambina dovrà superare le tre difficili prove del Labirinto.

 

 

La recensione de de Il Labirinto del Fauno: attraverso lo specchio

<<Il film si sviluppa su così tanti livelli, che durante la visione sembra cambiare forma.>>

(Stephanie Zachareck)


Fantasia usata come espediente per cercare di evadere dalla realtà, quando questa è troppo dolorosa e soffocante da sopportare. Tuttavia sfuggire del tutto è impossibile e il mondo reale permane, con la necessità qui di Del Toro nel raccontare gli orrori e il dramma della Guerra Civile, visti attraverso gli occhi innocenti di una bambina.


Lasciando abilmente aperto il dubbio – se le visioni di Ofelia siano solamente frutto della sua fantasia, o proprio la stessa si ritrovi immersa in un mondo effettivamente magico – il film di Del Toro si sviluppa con il perfetto equilibrio nel passaggio bidimensionale dal reale al fantastico, dove si contrappongono buio e luce, magia ed orrore, senza mai marcare del tutto la linea che separa i due mondi.

Ed è così che, oltrepassando il portale magico, la pura innocenza di Ofelia (Ivana Baquero) si riflette nella brutalità del comandante Vidal (Sergi Lopez, con lo stesso attore che dichiarerà <<È il personaggio più malvagio che io abbia mai interpretato nella mia carriera. È così ben scritto che è impossibile aggiungere altro.>>) nel torturare – anche con un gusto sadico non del tutto velato – i ribelli che riesce a scovare.


Due personaggi talmente distanti, eppure accomunati dal voler credere al proprio mondo che hanno e stanno contribuendo a creare. Vidal crede ciecamente nella dittatura di Franco: non combatte i rivoltosi perché costretto a farlo da ordini superiori, ma perché nella sua retta e tormentata visione del mondo crede che questo sia necessario e l’unico modo possibile; crede nei malsani valori nazifascisti, soprattutto per il suo sangue puro che deve assolutamente sopravvivere attraverso la sua progenie, non curandosi ovviamente con istinto machista e maschilista della moglie e della giovane figliastra. Allo stesso modo Ofelia, seppur con qualche titubanza iniziale, crede alla sua natura svelata dal Fauno e con una certa determinazione cerca di portare a termine le prove del labirinto. Ha bisogno di aggrapparsi a quelle parole, a quel mondo, per riuscire a tornare principessa e poter fuggire dall’oppressione di dolore creata dal patrigno.


Un finale poi spietato e sfruttato con maestria da Del Toro, riuscendo ad apparire agrodolce nel lasciare allo spettatore la libertà di scegliere – come per i due protagonisti – a quale versione della storia/a quale mondo credere, anche se forse non esistono due versioni ma una sola, dove realtà e fantasia collidono nella vita, popolata da orrori e magia.

Un intento, per tematiche e impatto emotivo, che il regista messicano replicherà con successo anche nel 2017 con lo stupefacente “La forma dell’acqua”, riuscendo ancora a strappare più di qualche lacrima e lasciare impressa una visione magica e svincolata da ogni tempo e luogo.


La Recensione de Il Labirinto del Fauno: manifesto estetico e poetico della filmografia di Del Toro

<<Uno dei pericoli del fascismo e del male puro nel nostro mondo è che risulta molto attraente. La maggior parte delle persone rende i loro cattivi brutti e sgradevoli e penso che no, il fascismo ha un intero concetto di design, uniformi e scenografie che lo rendono attraente per i deboli di carattere. Ho cercato di rendere Sergi López come tutti i politici che sono veramente malvagi: ben vestito, ben curato, ben educato, si alza dalla sedia quando una signora entra nella stanza, si alza dalla sedia quando una signora lascia la stanza.

Gli estremi sono incredibilmente potenti nel cinema e il fatto che questa bambina di 11 anni si senta più a suo agio con se stessa di un fascista che si odia così tanto da fendere la propria gola allo specchio, rifiutare l’orologio di suo padre e compiere atti folli, ciò dà potere alla bambina e dà all’altro l’illusione del potere e la scelta della crudeltà.

La scelta è la chiave di ciò che siamo.>>    (Guillermo Del Toro)

 

I tre Oscar tecnici arrivati per Miglior Fotografia, Scenografia e Miglior Trucco, rendono in parte giustizia ad un’opera monumentale dal punto di vista dell’impatto visivo, ammaliante nella sua messa in scena.

Per un uomo che ha più volte visto la morte in faccia, rappresentare nelle sue opere il vero aspetto della paura risulta dolorosamente più semplice e, con essa, anche il modo per provare a contrastarla. “Il Labirinto del Fauno” mette in scena l’ennesimo dualismo anche nel saper colpire l’occhio di chi lo ammira. Il regista messicano e il direttore della fotografia Guillermo Navarro scelsero infatti di privilegiare la composizione delle immagini rispetto ai dialoghi (sono le stesse iconografie a parlare), con la differenza tra il mondo umano e quello fantastico che viene espressa in particolare dall’uso della palette cromatica: da una parte tingendosi di grigio argentato e di mortifere gradazioni bluastre, con i suoi toni cupi ed orrorifici, macabri ed efferate sequenze sanguinolente; dall’altra invece cercando di sfumare con tonalità dorate, una luminosità calda ed accogliente con rari – ma importanti – momenti di gioia.

 

Riempiendo il suo taccuino di appunti e meravigliosi bozzetti circa i viaggi onirici effettuati durante la notte, il simbolismo è e rimane preponderante nel cinema di Guillermo Del Toro. Si potrebbe menzionare l’albero in cui Ofelia dovrà addentrarsi durante la prima prova, il quale possiede una conformazione che ricorda sia le corna del Fauno (una figura mitologica pericolosamente sfuggente, ammaliante e seduttiva), sia l’apparato genitale femminile, rimandando al concetto di fertilità e rinascita.
Il mostruoso Uomo Pallido è invece basato su una creatura della mitologia giapponese (che prende il suo nome proprio da “occhi sulle mani”), mentre una scena agghiacciante del film viene direttamente ripresa dal quadro di Francisco Goya “Saturno che divora i suoi figli” (tra gli artisti preferiti del regista messicano). La creatura rappresenterebbe infatti per Del Toro tutto il male istituzionale che si “nutre” degli indifesi – non risparmiando in più di una scena frecciate avvelenate alla combinazione tra la Chiesa cattolica ed il regime fascista – non a caso sorvegliante di un ricco banchetto dal quale, se il malcapitato dovesse assaggiare qualcosa, finirebbe con l’essere divorato dal mostro.

 

Nel cast, oltre ai già citati Ivana Baquero e la grandissima prova di Sergi Lòpez, impossibile non menzionare il camaleontico attore feticcio di Del Toro: il mimo statunitense Doug Jones…lui sì che è un personaggio proveniente dalle fiabe. Oltre infatti a ricoprire gli svariati ruoli di Abe nella saga di “Hellboy”, del Dio anfibio ne “La forma dell’acqua”, e delle apparizioni spettrali in “Crimson Peak”, non bastava qui dare vita al misterioso personaggio del Fauno, ma serviva anche impersonare le terrificanti movenze dell’Uomo Pallido. Su tutti, un lavoro di trucco sui due personaggi a dir poco sbalorditivo, confermando per l’ennesima volta come una geniale artigianalità sarà sempre superiore alla migliore CGI.

 

Il capolavoro di Del Toro “Il Labirinto del Fauno” è manifesto della sua poetica filmografia, riuscendo a raccontare un’emozionante fiaba nera – a tratti dolcemente macabra, cogliendo l’atmosfera sensoriale di una notte tormentata e pericolosa al chiaro di luna – che imbriglia pregevoli invenzioni visive ed una spiccata tensione narrativa.
Crogiolandosi in una fantastica messa in scena che collide con la cruda realtà, ed attraverso la struggente ninna nanna composta da Javier Navarrete alla colonna sonora, questa perla del dark-fantasy giunge alla sua degna conclusione in un finale dolceamaro, al quale non si smette di pensare anche dopo aver terminato la visione.

 

<<Per me queste cose sono come una cipolla, man mano che scopri più strati, piangi ancora di più. Non ci sono vincitori nelle guerre, solo sangue e vinti.>>   (Guillermo Del Toro)

Valutazione
5/5
Giovanni Urgnani
5/5
Christian D'Avanzo
5/5
Andrea Barone
5/5
Andrea Boggione
5/5
Bruno Santini
5/5
Paola Perri
4.5/5
Alessandro Di Lonardo
4.5/5
Gabriele Maccauro
4/5