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Recensione – La spina del diavolo: il sonno della ragione genera mostri

Il terzo film del regista messicano potrebbe essere definito anche il suo primo vero lungometraggio, grazie ad un supporto e mezzi produttivi mai avuti fino a questo momento.
La spina del diavolo recensione terzo film di Del Toro

Quattro anni dopo le delusioni produttive di “Mimic” e traumatici eventi personali, il regista messicano Guillermo Del Toro torna in cabina di regia con un lungometraggio dall’impronta ispanica, ovvero “La spina del diavolo”. Supportato questa volta in sede produttiva dai fratelli Almodovar, Il regista realizza il suo vero primo grande film, forte di una certa libertà creativa e di un sostanzioso budget, che lo lancerà definitivamente in campo internazionale. Ecco di seguito la recensione di “La spina del diavolo”.

La spina del diavolo terzo film Del Toro

La spina del diavolo: la trama del terzo film di Guillermo Del Toro

Nella Spagna del 1939, si assiste agli ultimi atti della sanguinosa guerra civile. Aiutati dai giovani custodi Jacinto e Conchita, Casares e Carmen gestiscono un piccolo orfanotrofio nella campagna spagnola ma, di nascosto, sostengono la fazione repubblicana del conflitto proteggendo negli angoli oscuri della struttura l’oro usato per finanziare la guerra. In questo clima ardente, un giorno all’orfanotrofio arriva il piccolo dodicenne Carlos, i quali genitori sono morti durante gli scontri.

 

Il bambino entra subito in contatto con un’atmosfera particolarmente tetra e pesante dell’istituto, cercando a fatica di stringere amicizie con gli altri bambini della struttura capitanati da Jaime, un ragazzo particolarmente ostile che però sembrerebbe nascondere qualcosa. Carlos inizierà anche ad avvertire la presenza di un’entità spettrale che si aggira nell’orfanotrofio, la quale ricerca della verità sul fantasma farà emergere anche gli oscuri segreti della struttura.

La spina del diavolo, la Recensione: dopo vampiri ed insetti, arrivano i fantasmi nel cinema di Del Toro

Cercando di coprire le ferite ancora aperte delle appena passate vicende lavorative e – soprattutto – personali, il regista messicano Guillermo Del Toro torna dietro la macchina da presa a 4 anni di distanza dal precedente “Mimic”. Il cineasta si allontana così da hollywood per un progetto decisamente molto più personale, grazie al supporto in sede produttiva dei fratelli Agustin e Pedro Almodovar, sebbene anche lo stesso Del Toro sia presente tra i crediti dei produttori grazie alla sua nuova compagnia Tequila Gang. “La spina del diavolo” faceva infatti parte di un progetto produttivo del regista messicano – abbozzato già immediatamente dopo il “Cronos” del 1993 – che ha fatto particolarmente gola agli Almodovar, ovvero realizzare una particolare trilogia che potesse affrontare di petto l’avvento fascista, senza mettere da parte gli elementi del fantasy-horror inscindibili dalla filmografia di Del Toro.


Il film del 2001 rappresenta infatti una splendida fiaba dark che, sfruttando il fascino spettrale della ghost-story, ambienta la sua narrazione all’interno di un orfanotrofio del 1937 bombardato dalla Guerra Civile, riuscendo così magistralmente a mescolare il mondo reale e storico-politico a quello fantastico ed ultraterreno. Con “La spina del diavolo” infatti, non si pone tanto il focus sul fatto che l’horror fantastico entri nella vita quotidiana e contemporanea, toccando con mano il reale, ma quanto più sulla caratteristica che questo si leghi strettamente con fatti propri della Storia (il franchismo). Cambiando così il corso degli eventi attraverso la finzione cinematografica (in particolare appunto una ghost-story), il film di Del Toro si pone così anche anticipatore di quello stile narrativo del cosiddetto Revisionismo Storico, che sarà la fortuna dell’iconica trilogia di Quentin Tarantino con “Bastardi senza gloria”, “Django Unchained” e “C’era una volta a…Hollywood”.


Raccontando infatti il periodo forse più buio della storia spagnola, Guillermo Del Toro pone infatti il suo focus sui fantasmi di quel sanguinoso conflitto, sugli innocenti, con le visioni spettrali che alla fine non spaventano più dei colpi di cannone che si sentono fuori dalla finestra. Ancora nel cinema del regista messicano (e così sarà sempre nella sua filmografia), gli eroi della Storia sono emarginati, orfani, zoppi, dimenticati e – appunto – addirittura i defunti, fantasmi, assistendo così ad una visione fantastica che cambia il corso degli eventi, vista attraverso gli occhi dell’innocente fanciullezza.
La storia della morte della Spagna e dei suoi fantasmi che, ovviamente, si pone anche e soprattutto come atto di denuncia verso i carnefici di quegli innocenti, verso il franchismo e il machismo fascista. Continuando Del Toro a stuzzicare a suo modo la fede religiosa, la stessa “Spina del diavolo” era un appellativo attribuito dalla superstizione cattolica ad una semplice deformazione proprio della spina dorsale, anche in piena contrapposizione a quella fiera virilità, forza e perfezione fisica che rappresentano i semi di un’ideologia fascista innaffiati da acqua palustre e mortifera.

La spina del diavolo, la Recensione: spiritualmente la vera opera prima di Guillermo Del Toro

<<Che cos’è un fantasma? Un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito, forse solo un istante di dolore, qualcosa di morto che sembra ancora vivo, un sentimento sospeso nel tempo come fosse una fotografia sfocata, come un insetto intrappolato nell’ambra…>>

 

“La spina del diavolo” del 2001 a conti fatti potrebbe essere considerata, spiritualmente, la vera opera prima di Guillermo Del Toro. Questo perché, sostanzialmente, con il supporto finanziario e morale dei fratelli Almodovar, il regista messicano poté approcciarsi ad un’idea strettamente personale – carta quasi completamente bianca venne offerta al cineasta di Guadalajara – a fronte di un budget più che sostanzioso per le sue corde di allora, soppiantando così i limiti produttivi dei suoi precedenti due lungometraggi.
Per quanto riguarda innanzitutto il cast, oltre alla gran bella prova del giovane Carlos interpretato da Fernando Tielve, “La spina del diavolo” mostra così l’ennesimo esempio di accordi e compromessi tra regista e produttore: il primo, riportando nella sua cerchia il fedele Federico Luppi protagonista del precedente “Cronos” (che la produzione di “Mimic” tagliò fuori dal casting) e, il secondo, inserendo nel film una delle muse di Pedro Almodovar, ovvero Marisa Paredes, entrambi nei ruoli dei due governanti dell’orfanotrofio Casares e Carmen.

 

Oltre a registrare un uso sempre più funzionale ed elaborato dietro la macchina da presa – unito ad una delicatezza e profondità narrativa e soprattutto dei personaggi in sede di sceneggiatura – nel gestire soprattutto i tempi narrativi dilatati al punto giusto per permettere una maggior aderenza con la drammaticità del racconto, senza sacrificare l’intrattenimento thriller della tensione orrorifica, Del Toro ritrova anche il fidato direttore della fotografia Guillermo Navarro. Quest’ultimo si fa artefice di una messa in scena gotica particolarmente sensibile al mutare della narrazione, spostandosi con abile mano dalle aride steppe spagnole ai freddi e gocciolanti momenti della notte nel tetro orfanotrofio, costruendo un’esile e spettrale linea di demarcazione tra il vivo e il morto, tra il mondo reale e quello ultaterreno.

 

Ne “La spina del diavolo” è poi da registrare assolutamente la prima collaborazione di Del Toro con l’esordiente compositore spagnolo Javier Navarrete, che realizza qui una toccante e suggestiva colonna sonora le quali doloranti e malinconiche note saranno poi fondamentali per la futura filmografia del regista messicano. Un film – quello del 2001 – che, tanto per la sua anima tematica e contenutistica quanto anche e soprattutto per quella più prettamente tecnica, pone le basi per il futuro capolavoro di Guillermo Del Toro “Il labirinto del fauno”; ma prima, per il regista messicano sarà necessario tuffarsi nel mondo del cinecomic.

Valutazione
4/5
Alessio Minorenti
4/5