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I film di David Fincher: dal peggiore al migliore

Tutti i film di David Fincher: la classifica dal peggiore al migliore

David Fincher è uno dei registi più apprezzati nell’era contemporanea per il suo approccio nettamente postmoderno. Tale approccio viene evidenziato anche da una cura meticolosa delle inquadrature e degli altri comparti, dal montaggio alla colonna sonora, passando per la fotografia molto spesso scura ma allo stesso tempo limpida nel mostrarsi, e concettualmente funerea. L’atmosfera cupa impregna la maggior parte dei film di Fincher, dove la fredda color palette si sposa perfettamente ai funzionali virtuosismi del regista. D’altronde, tematicamente vengono esplorati da Fincher il crimine, la corruzione, ma anche la paranoia. La psicologia umana viene così mostrata irrequieta ed emotivamente disturbata da ciò che la circonda, immergendo lo spettatore in ambientazioni create ad hoc dalle immagini postmoderne

 

Su queste ultime, il regista riflette più e più volte, mettendo a confronto l’analogico e il digitale, la realtà e la finzione, la verità e il suo riflesso. Infatti, in alcuni film è possibile osservare come si rapportano la tecnologia e la società, evidenziando caratteri alienati e isolati, nonché vulnerabili. Non a caso le trame di Fincher sono piuttosto intricate, e perciò ricche di suspense. Inoltre, l’ambiguità dei personaggi riescono a mostrare il lato oscuro dell’umanità, e alcuni temi sociali affrontati sono proprio la manipolazione dell’informazione e l’eccessiva – talvolta fuori contesto – ambizione individuale. Dunque, Fincher si propone come uno dei registi più riconoscibili nel panorama odierno per le sue inconfondibili caratteristiche e portando avanti, con il suo stile, una profonda ricerca sull’animo umano. La sua filmografia è costituita da 12 lungometraggi, e per mettere ordine: ecco la classifica dei film di David Fincher.

Tutti i film di David Fincher: la classifica dal peggiore al migliore

I migliori film di David Fincher

Nonostante i suoi film abbiano ricevuto parecchie nomination e riconoscimenti in giro il mondo, David Fincher non si può dire essere un regista particolarmente premiato. Tuttavia, c’è da segnalare l’importante premio DGA (Directors Guild of America Awards) ricevuto nel 2011 per il suo The Social Network. Con The Game, invece, era in concorso a Cannes nel 1997. The Social Network è un film che è valso a Fincher anche un Golden Globe e un Bafta, ma non l’Oscar, per cui era nominato. Proprio agli Oscar, Fincher è stato nominato anche in altre due occasioni: Il curioso caso di Benjamin Button nel 2009 e Mank nel 2021. Di seguito, allo scopo di individuare i migliori film di David Fincher, la classifica dei suoi lungometraggi ordinati dal peggiore al migliore.

12) Millennium – Uomini che odiano le donne (2011)

Con il titolo originale di The Girl with the Dragon Tattoo, Millennium – Uomini che odiano le donne è il peggior film di David Fincher, un lavoro che diventa vittima del suo stesso esecutore, cannibalizzato da una materia letteraria così tanto ostica da diventare tabù; le difficoltà nel trasporre i libri della saga sarebbero seconde al tanto difficoltoso Dune, se non fosse per un Denis Villeneuve che ha saputo finalmente (e non da solo) tracciare la strada. Qui invece l’autore non basta: per quanto Millennium si sporchi rispetto alla perfezione della complessità narrata e tenti di eliminare i più disparati riferimenti cronachistici, resta un film eccessivamente pedante, che si concentra troppo sulle backstories dei personaggi quasi dimenticando (volontariamente) la materia narrata. Non convince neanche la location, forzata nella sua forma e nella sua estetica, in un lavoro anonimo e dimenticabile.

11) Alien 3 (1992)

Il terzo capitolo delle (dis)avventure del tenente Ellen Ripley sposta il setting in una colonia penitenziaria di massima sicurezza. Fincher, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, confeziona un film cupo e nichilistico tornando alle atmosfere del capostipite di Ridley Scott abbandonando l’azione più totale del secondo film di James Cameron. Alien 3, nonostante i problemi di produzione, è la giusta fine del viaggio di Ripley: una pellicola che riflette sulla morte contornata da un carattere pseudo-religioso che a sua volta rispecchia lo stato d’animo di una protagonista esasperata da un apparente incubo senza fine.

10) The Killer (2023)

Tra i minori film di David Fincher ci finisce anche The Killer, un gradino sopra i precedenti citati ma più scarno di intuizioni brillanti a differenza dei successivi titoli. Il lungometraggio avente Michael Fassbender come protagonista è un ottimo esempio di utilizzo consapevole del postmoderno, dando vita a scene ripetitive ma arricchite ogni volta da fattori tipici caratterizzanti la società contemporanea (un ordine tramite Amazon Prime, ad esempio). Le sequenze assumono ridondanza perché lo scopo del cineasta è di mostrare la normalità-banalità dietro la vita di uno spietato sicario, a dispetto di quanto si possa generalmente pensare. Peccato per il mancato approfondimento sullo sguardo, inserito come premessa nell’incipit, giocando tra soggettive e oggettive, ancorandolo a seconda delle necessità e dei punti di vista.

9) Panic Room (2002)

Il terrore per lo straniero, la paura che si trasforma in ossessione, la paranoia che sarà poi protagonista di tanti altri lavori cinematografici successivi e un insieme smodato di cliché, in grado di coesistere all’interno di un film compatto che, se non vedesse la mano di David Fincher, apparirebbe disastroso. Il regista statunitense è più che mai consapevole del suo valore e della sua importanza, inserito com’è in un sistema cinematografico hollywoodiano di cui condivide le accezioni estetiche. Eppure, Panic Room con la sua Jodie Foster scelta all’ultimo momento e con la sua risma di attori-macchietta, rappresenta un gioiello di ambizione tecnica, culminato dal piano sequenza impossibile e digitale, che comunica al mondo quella grande ossessione per la perfezione anima il lavoro del regista.

8) The Game (1997)

Guardare oggi un film come The Game equivale a prendere un minimo di coscienza di quello che sono i meccanismi postmoderni. L’immagine cinematografica è costruttrice di mondi, di nuove realtà che possono digitalmente essere modellate e rimodellate a piacimento dell’imbonitore, il quale in tal caso è incarnato da Conrad. Quest’ultimo mette in piedi un vero e proprio gioco, che Fincher arricchisce perché alterna diversi generi e sottogeneri, dall’action fino al sentimentale, passando per il thriller psicologico e così via. The Game risulta essere una riflessione interessantissima, quasi profetica e sempre più attuali sul rapporto tra analogico e digitale, tra la verità e il riflesso. Il regista qui riesce a indurre le emozioni – angoscia, tenerezza, terrore – quando vuole, grazie alla macchina cinema. La soggettiva finale è un espediente per parlare direttamente allo spettatore.

7) Gone Girl – L’amore bugiardo (2014)

Il film comincia con un sorriso, quello di Ben Affleck, scelto da David Fincher per il ruolo di Nick Dunne proprio per la sua ambiguità e dualità. A fare coppia con lui c’è invece Amy, femme fatale interpretata da Rosamund Pike. Gone Girl – L’amore Bugiardo – decimo lungometraggio del regista di Denver – è un film su ossessione, violenza e paranoia, su come i media vadano a distorcere la realtà e di come forse essa stessa non è mai lineare e ciò che si vede non corrisponde necessariamente alla verità.

6) Il curioso caso di Benjamin Button (2008)

Il curioso caso di Benjamin Button è un film travolgente pur avendo apparentemente un impianto stilistico e narrativo semplice. Al contrario, c’è una certa complessità di fondo nel rappresentare il tempo del racconto, legato inevitabilmente all’invertita storia del protagonista e alla sua percezione. Passato e presente camminano parallelamente per poi incontrarsi a metà film, e stringendosi la mano proseguono linearmente fino alla delicata e sensoriale dissolvenza in nero che segna definitivamente il percorso di Benjamin Button. 

 

I punti di vista dei diversi personaggi entrano in gioco e marcano i confini dei loro desideri e dei loro traumi, esponendo i relativi sentimenti con passione. Gli oggetti che ritornano continuamente sottolineano la potenza dei ricordi e la conseguita maturazione, ma il tempo è tiranno e la morte uno spettro costante. A contrastarla c’è però la vita, quella inestimabile voglia di raggiungere i propri obiettivi: il mélo della seconda parte del film è incentrato sull’amore impossibile tra Daisy e Benjamin.

5) Mank (2020)

L’ultimo lavoro di David Fincher rappresenta anche l’estremo tentativo di una maturazione artistica che si allontana dal mero artificio retorico e che non fonda il suo intero potere su un mostruoso comparto tecnico. Se Zodiac rappresenta lo spartiacque della carriera di Fincher, che mostra una maturazione dettata dal prediligere l’impianto narrativo talvolta estremizzato nella sua forma, Mank dimostra l’appendice di un processo in cui la crescita appare completa. Lavoro intimistico, che si serve di un cast eccezionale, su cui spiccano i ruoli di Gary Oldman, Amanda Seyfried e Tom Burke, in grado di dare volto ad un Orson Welles messo in terzo piano rispetto alla storia. Nonostante il precedente letterario – la critica mossa da Pauline Kael alla paternità di Quarto Potere – il risultato di Fincher, totalmente disinteressato rispetto alla storia e più concentrato sul processo di ambiguità esistenziale di un uomo, è affascinante.

4) Seven (1995)

Seven è il thriller postmoderno e malinconico diretto da David Fincher, il quale rappresenta uno specchio deformato (o forse no) di una realtà ormai consumata dal malessere individuale e pubblico. Inoltre, i tempi del racconto vengono legati ai due protagonisti, in contrasto per psicologia e azioni: il più anziano è saggio, acculturato, e perciò il ritmo si fa più riflessivo e compassato; il più giovane è frenetico, ambizioso e anche ingenuo, dunque il ritmo con lui prende velocità. L’intimità di questi personaggi lasciano trasparire i loro pregi e difetti, innescando un meccanismo di seduzione/repulsione poi espanso anche al killer interpretato da Kevin Spacey. Quest’ultimo è la prova del nove per il pubblico, poiché si prova del fascino per la sua espressa ideologia, ma la morale del finale tende a far schierare gli spettatori da una parte o dall’altra.

3) Fight Club (1999)

Nel dialogo relativo a quale sia il miglior film di David Fincher, si dà sempre spazio anche a Fight Club, nonostante un passo indietro – anche parecchio evidente – rispetto ad altri lavori dello stesso regista, che appaiono maggiormente completi dal punto di vista della sceneggiatura, della tecnica e della magistrale direzione degli attori. Perché? Più che in ogni altra pellicola, David Fincher si rende conto di (poter) essere la voce di una generazione cinematografica, convinto delle sue qualità e pregno di un talento che può essere espresso in un film che rifugge le sue accezioni tradizionali, rifugiandosi in un qualcosa di altro. 


Fight Club è il manifesto postmoderno per eccellenza, figlio di una generazione che risente dell’ossessione del cambiamento, inglobato in quell’eco esistenziale della galassia Starbucks, legato quasi consanguineamente all’omonimo romanzo di Palahniuk, che viene adattato pagina per pagina. Il film con Edward Norton, Brad Pitt ed Helena Bonham Carter diventa così un’allucinazione estetica, la macchina di un cambiamento dell’immagine, un nuovo sguardo verso il nostro tempo, in cui il tema del doppio e dell’annullamento di sé stessi si fondono nella figura immaginifica di Narratore/Tyler Durden. Un capolavoro immortale, già destinato ad essere uno dei capisaldi in cui il cinema attuale saprà dialogare con il futuro.

2) The Social Network (2010)

The Social Network è un film biografico dalle molteplici peculiarità rispetto agli altri appartenenti alla medesima categoria. Questo perché le abilità di sceneggiatore di Aaron Sorkin si mescolano perfettamente con quelle del regista David Fincher, e i due insieme creano un lungometraggio dalla facciata politica. Il film è composto da tre verità: quella di Zuckerberg; quella di Saverin; quella dei fratelli Winklevoss. Ognuno ha le proprie ragioni, e lo script non prende mai realmente una posizione a riguardo, lasciando che lo spettatore colga tutte le ambiguità, le sfaccettature e le contraddizioni del caso. 

 

Tuttavia, Fincher presenta il protagonista interpretato dal miglior Jesse Eisenberg come una specie di gangster, un anti eroe malinconico e solo nella sua ritrovata ricchezza. La genialità di Zuckerberg lo mette in risalto, fa sì che rispecchi perfettamente la struttura del nuovo Facebook, incarnando pregi e difetti. Sincerità e fragilità riescono in particolar modo a generare empatia, permettendo a chi osserva di comprendere appieno il protagonista. In questo modo Fincher evita di porre il focus dell’attenzione sul self-made man, poiché non è tale mitologia a interessare, bensì il cinismo del mondo del lavoro che si mescola alla vita privata. Il ritmo odierno è frenetico, e ancora una volta le differenze di classe influenzano le situazioni.

1) Zodiac (2007)

Il miglior film della carriera di David Fincher, regista simbolo degli anni ’90 ma che con Zodiac – suo sesto lungometraggio, diretto nel 2007 – arriva ad una definitiva consacrazione. Oltre a regalare una delle migliori interpretazioni della carriera ad attori come Robert Downey Jr, Jake Gyllenhaal e Mark Ruffalo, Zodiac è anche summa del pensiero cinematografico del regista di Denver: c’è l’ossessione, c’è il thriller, c’è la caccia al mostro, ad un’entità malvagia che però non è poi così diversa dai cosiddetti buoni. Insomma, si tratta di 162 minuti di pura goduria per la psicologia dei personaggi e per la tensione costruita magistralmente, consacrando il momento più alto nella carriera di un regista che ha sì avuto dei bassi all’interno della propria filmografia ma che con Zodiac – come anche con The Social Network o Seven – è stato in grado di toccare vette alte, in questo caso altissime.