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Recensione – Mank, il film di David Fincher con Gary Oldman su Netflix

Recensione - Mank, il film di David Fincher con Gary Oldman su Netflix

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Mank
Genere: Drammatico, biografico
Anno: 2020
Durata: 131 minuti
Regia: David Fincher
Sceneggiatura: Jack Fincher
Cast: Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfried, Charles Dance, Tom Burke. Arliss Howard, Joseph Cross, Sam Troughton, Tom Pelphrey, Toby Leonard Moore
Fotografia: Erik Messerschmidt
Montaggio: Kirk Baxter
Colonna Sonora: Trent Reznor, Atticus Ross
Paese di produzione: Stati Uniti d’America

Vincitore di due Premi Oscar per la migliore fotografia e la migliore scenografia, a fronte di 10 candidature totali ottenute, Mank è un film di David Fincher basato su una sceneggiatura di suo padre Jack Fincher. Distribuito sulla piattaforma di streaming Netflix, il film si avvale della magistrale interpretazione di Gary Oldman, mettendo in primo piano un adattamento dell’accusa che Pauline Kael ha rivolto a Orson Welles nel suo articolo Raising Kane, attribuendo la paternità della sceneggiatura di Quarto Potere al solo Herman J. Mankiewitz. Di seguito, la trama e la recensione di Mank di David Fincher. 

La trama di Mank di David Fincher, con Gary Oldman

Prima di proseguire con la recensione di Mank di David Fincher, si indica innanzitutto la trama del film con Gary Oldman e Amanda Seyfried; di seguito, la sinossi ufficiali del prodotto: Il film segue Mankiewicz durante la nascita e la produzione del film di Welles (Tom Burke) e racconta la Hollywood degli anni ’30 attraverso l’occhio critico dello sceneggiatore. È il 1940 quando il regista, allora 25enne, ha la possibilità di realizzare il suo primo film, senza alcun limite imposto dalla produzione su trama, collaboratori o cast. È così che Welles decide di rivolgersi per la sceneggiatura della sua opera prima a Mankiewicz, in quel periodo impossibilitato a muoversi a causa di un incidente. Il giovane cineasta si affida completamente all’esperto sceneggiatore, che dal suo letto detta lo script alla sua segretaria Rita (Lily Collins). È quest’ultima a notare, durante la stesura, che il protagonista del film, Charles Foster Kane, sembra aver molto in comune con un influente personaggio del tempo, il magnate dell’editoria William Randolph Hearst (Charles Dance.”

La recensione di Mank, il film di David Fincher su Netflix

Nell’offrire la recensione di Mank, il film di David Fincher presente su Netflix, è impossibile non partire da un elemento che si trova alla base del prodotto stesso, e che Mank adatta sullo schermo: l’articolo Raising Kane, scritto da Pauline Kael e in cui la critica e sociologa statunitense accusava Orson Welles di non aver lavorato alla sceneggiatura di Quarto Potere, che invece sarebbe stata scritta dal solo Herman J. Mankiewitz. L’articolo della critica è stata oggetto di numerose polemiche nel corso della storia, con smentite ufficiali che sono arrivate sia da parte di Peter Bogdanovich, regista statunitense e amico di Orson Welles, che ha screditato punto per punto le accuse della Kael nell’opera The Kane Mutiny, sia dal critico Robert L. Carringer, che nel suo volume The Making of Citizen Kane si è occupato di ricostruire l’intero processo creativo di uno dei film più celebri della storia del cinema. È evidente che, in barba ai sostenitori attuali della Kael, l’accusa fosse infondata, per cui Mank adatta sostanzialmente un falso: eppure, nelle intenzioni di David Fincher, non c’era né l’idea di offrire la verità a proposito del processo realizzativo di Quarto Potere, né la volontà di abbracciare l’una o l’altra tesi, avendo il regista statunitense deciso di dar vita ad una sceneggiatura scritta da sua padre. Lo stesso Fincher, in merito alla polemica, spiegò: «Non era mio interesse fare un film su un arbitrato di credito postumo. Ero interessato a fare un film su un uomo che accettò di non prendersi alcun merito. E che poi cambiò idea. Questo era interessante per me».

 

Vincitore di due statuette agli Oscar nelle categorie di migliore fotografia e migliore scenografia, Mank rappresenta l’apoteosi di un processo che Netflix ha deciso di inaugurare nel corso degli ultimi anni, coinvolgendo registi affermati e commissionando prodotti atipici rispetto agli standard rappresentativi della contemporaneità: una volontà da un lato prettamente artistica, dall’altro aderente a quei principi di un marketing anche estetico di cui Fincher può considerarsi uno dei massimi artefici. Ingaggiato per House of Cards, Fincher ha poi lavorato con Netflix anche per Mindhunter, oltre che per Mank e per The Killer, tanto da scegliere il direttore della fotografia Erik Messerschmidt, che con lui aveva lavorato in Mindhunter, anche per il film con Gary Oldman nei panni del protagonista. Un processo costruttivo algoritmico, per così dire, in cui Netflix pondera anche l’esistenza di prodotti che non generano profitto rispetto al copioso budget (in questo caso 25 milioni, ma esistono esempi più estremi, come The Irishman di Martin Scorsese), ma che hanno come obiettivo l’arricchimento autoriale di una piattaforma. Mank funziona in tal senso non solo per il nome del suo regista o per la storia raccontata, ma anche per la realizzazione di un elemento che nella pop culture americana è sicuramente degno di nota, la realizzazione di Quarto Potere, ma che nel resto del mondo appare francamente sconosciuto o ignorato, se non da un certo pubblico.

 

 

Non aiutano l’utilizzo del bianco e nero, la descrizione di una situazione economico-sociale rappresentativa di una sola cultura, la citazione a marchi o nomi di persone e case di produzione o l’utilizzo di elementi estetici (tra cui spiccano anche i rimandi ad alcune riprese che hanno fatto la storia del cinema). Insomma, Mank è un film che parla ad un pubblico ristretto, per certi versi elitario, che può coglierne ogni aspetto e può apprezzarne i contenuti, rivolgendo lo sguardo anche allo spettatore medio che, però, si ferma al solo elemento (in questo caso falso) biografico. 

 

Mank e l’intimismo studiato ad arte di David Fincher

Il David Fincher di Fight Club e del piano sequenza impossibile di Panic Room è più che mai lontano, in un’opera come Mank che tenta di mettere in primo piano un racconto totalmente differente: non più la sola estrema tecnica, benché Mank si conceda anche un bianco e nero spettacolare e una fotografia che si arricchisce anche di quei vezzi estetici del tempo (tra cui le bruciature di pellicola), bensì un racconto intimistico che conferisca all’opera un valore altro. Da sempre, il regista statunitense è stato etichettato come il maestro della tecnica e il maniacale direttore di attori, mentre con Mank l’obiettivo è quello di regalare un intimismo studiato ad arte: a partire dalla sceneggiatura scritta da suo padre, Fincher omaggia ancora una volta Hitchcock servendosi del mcguffin dell’infortunio, che tiene Mankiewitz fermo a letto e intento a scrivere la sceneggiatura di Quarto Potere, soffermandosi poi sul tratteggio di due figure femminili, tra cui spicca quella interpretata da Amanda Seyfried, che a sua volta richiama l’opera wellesiana, in cui il ruolo della donna finiva per riscrivere le regole rappresentative della storia del cinema.

 

 

E ancora, il ruolo dello stesso Orson Welles, grazie al quale Fincher riesce a parlare per e del regista, senza mai metterlo in primo piano e, anzi, riuscendo anche a sbeffeggiarlo grazie al superbo ruolo di Tom Burke. Il tutto, grazie all’apoteosi della carriera di Gary Oldman, che qui incarna il Mankiewitz di cui la storia ha spesso ignorato le fattezze e che Fincher tenta, pur condensandone la rappresentazione, di riportare in auge. Del resto, non si può raccontare la vera storia di un uomo in due ore: al massimo si può dare l’impressione di averlo fatto. 

Voto:
4/5
Andrea Barone
5/5
Andrea Boggione
4.5/5
Christian D'Avanzo
4/5
Gabriele Maccauro
3.5/5
Riccardo Marchese
4/5
Matteo Pelli
4/5
Paola Perri
4/5
Vittorio Pigini
4/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
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