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I migliori film Horror del 2022

Il 2023 è ormai alle porte ed è inevitabilmente tempo di bilanci, soprattutto nel campo cinematografico per i film usciti in Italia nel 2022. L’horror è un genere particolare, che da questo punto di vista è capace con estrema facilità di regalare tanto prodotti decisamente discutibili (per non dire peggio) quanto grandi titoli da brivido di importanti registi o con comparse di grande spessore. In questa classifica si andranno ad elencare – dal peggiore al migliore – proprio questi ultimi, concentrandosi sui migliori film nel panorama horror del 2022. Quale sarà il migliore del 2022?

10) NOPE (Jordan Peele)

Si inizia la classifica facendo storcere probabilmente il naso a molti. I fattori che avrebbero quasi escluso l’ultima fatica di Jordan Peele da questa lista dei migliori sono molteplici, riguardando le aspettative precedenti all’uscita, alla resa finale e al porsi inevitabilmente la domanda “ma si tratta di un horror?” (ovviamente sì, altrimenti non sarebbe qui).

 

Nope” è infatti il terzo lungometraggio del comico, produttore, sceneggiatore e regista statunitense che ha diretto il sorprendente “Scappa-get out” del 2017 (con il quale vinse l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale) e “Noi” del 2019, oltre ad aver co-sceneggiato un altro film del 2022 diretto da Henry Selick, ovvero il film d’animazione “Wendell & Wild”. Quasi triplicando al botteghino il costo del budget, la pellicola ha ottenuto grandi consensi soprattutto nella critica, la quale l’ha spesso etichettata con un “gusto spielberghiano” piuttosto che ad un vero e proprio horror di genere.

 

 

Nope” narra dei due fratelli Oj ed Em che, alla morte del padre, devono gestire una fattoria in California in cui allevano ed addestrano cavalli soprattutto per produzioni cinematografiche e televisive. Un giorno, dietro le nuvole in cielo, inizia a palesarsi una misteriosa entità che a poco a poco sembrerebbe essere un effettivo U.F.O., che provoca blackout nel quartiere, sparizioni e terrorizza gli animali. I due fratelli e il proprietario di un parco a tema nei paraggi vogliono tuttavia sfruttare economicamente la misteriosa presenza.

 

 

La creatura di Jordan Peele prende vita da una sceneggiatura che potrebbe facilmente lasciare interdetti: si analizzano e si criticano decisamente troppi punti tematici, contraddicendosi più volte; una narrazione troppo spesso derivativa e personaggi alquanto macchiettistici (sebbene il legame soprattutto tra i personaggi di Daniel Kaluuya e Keke Palmer sia molto convincente); il registro viene cambiato decisamente troppe volte, passando con eccessiva frequenza dall’horror alla commedia, dal thriller fantascientifico al western d’avventura (insomma un po’ di tutto, un po’ di niente e un po’ di troppo).

 

Tuttavia è doveroso dare a Jordan quel che è di Jordan. “Nope” è il primo film di genere horror ad essere stato girato con videocamere IMAX, con ogni fotogramma che è infatti capace di suscitare una forte potenza visiva e sensoriale. Considerando prevalentemente la messa in scena, l’ambito scenografico, sonoro e degli effetti speciali – oltre ad una regia ormai esperta come quella di Jordan Peele – il film è davvero ammirevole ed affascinante, regalando una delle immagini più suggestive sul grande schermo del 2022 (quella casa grondante sangue è a dir poco incredibile).

Oggetto Cinematografico Non (ben)Identificato.

 

9) BONES AND ALL (Luca Guadagnino)

Primo titolo italiano della classifica, presentato in concorso alla 79° Mostra cinematografica di Venezia, il nuovo film di Luca Guadagnino vince al Festival il “Leone d’argento alla regia” e il “Premio Marcello Mastroianni” per l’interpretazione di Taylor Russell.


Un grande ritorno per uno dei registi che, assieme a Paolo Sorrentino, è riuscito nell’ultimo periodo a ritagliarsi una bella fetta di popolarità anche a livello internazionale, sponsorizzando grande cinema italiano all’estero anche in vista di prestigiose premiazioni. Un ritorno che purtroppo – soprattutto tenendo presente l’ottimo precedente lavoro con il “Suspiria” del 2018 – potrebbe avere il gusto dolceamaro di un “mezzo passo falso”, sebbene la qualità della pellicola sia quasi indiscutibilmente di livello, tanto da ritagliarsi una doverosa posizione anche in questa classifica.

 

 

La trama di “Bones and All” ruota attorno alla giovane Maren che, abbandonata dal padre, inizia un’odissea alla ricerca di un proprio posto nel mondo ed incontra il vagabondo Lee. Tra i due sboccia l’amore, entrambi soli ed emarginati, entrambi sono dei cannibali, ma non sono gli unici.

 

 

Adattamento dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, il primo film girato ed ambientato interamente negli Stati Uniti di Luca Guadagnino racconta un’aspra, toccante e delicata storia d’amore contro l’emarginazione e le diversità sociali, attraverso un coinvolgente road-movie dalle tinte orrorifiche, dove però lo splatter e la violenza non si divorano mai il romanticismo e l’intimità dei suoi bei protagonisti. Un film dilatato nei suoi tempi per poter assaporare al meglio il legame che si viene a creare in una giovane coppia capace, attraverso i propri interpreti, nel suscitare molta delicatezza, amore ma anche paura e frustrazione, con la giovane Taylor Russell – al suo primo vero e prestigioso ruolo sul grande schermo – che prende il sopravvento sull’altrettanto giovane (ma già di per sé “navigato”) Timothée Chalamet e su un inquietante Mark Rylance. Oltre alla sceneggiatura di David Kajganich ben dosata e che sa regalare anche qualche colpo di scena, un impianto visivo elegante e ben definito, a convincere è anche e soprattutto la bella colonna sonora del duo Trent Reznor e Atticus RossLa vita va assaporata, lentamente.

 

8) BARBARIAN (Zach Cregger)

Una vera rivelazione per il 2022, passato (almeno in Italia) praticamente in totale sordina e sottotraccia, riuscito ad ottenere una grande potenza mediatica grazie al passaparola che gli ha permesso anche di incassare oltre 43mln$ in tutto il mondo contro un budget di 4,5, distribuito da noi da Disney+.

 

 

La storia di “Barbarian” narra di Tess che, giunta per la prima volta a Detroit per sostenere un colloquio di lavoro, decide di affittare un appartamento in una zona di periferia. Oltre all’atmosfera che risulta particolarmente ostile, Tess scopre che, per errore, lo stesso appartamento è già abitato da un ragazzo di nome Keith. I due sconosciuti decidono comunque di condividere l’appartamento almeno per la notte e iniziano a conoscersi, ma Tess piomberà in un vero e proprio abisso infernale.

 

 

Sarebbe bastato giusto qualche accorgimento (doveroso) soprattutto in sede di sceneggiatura – al fine di poterla rendere più “pulita” ed interessante – per poter definire memorabile l’opera prima del regista/sceneggiatore statunitense Zach Cregger. Ciò non toglie che si è davanti ad un debutto cinematografico a dir poco folgorante, imprevedibilmente intrattenente, ricco di tensione e con una buona dose orrorifica che sa spaventare e tenere incollati allo schermo grazie ad un ritmo profondamente incalzante. La grande fattura tecnica nella ricostruzione della tetra ed affascinante messa in scena di fatto oscura goffi ed inutili scivoloni proprio della sceneggiatura (spesso sempliciotta, frettolosa e poco meticolosa), ma che comunque è ugualmente capace di assestare qualche punto decisamente intrigante. “Barbarian” vive per l’atmosfera al cardiopalma che riesce a tenere ad alto livello una visione da brivido grazie ad una fotografia oscura, al raggelante sonoro e al ritmo lacerante. Convincenti anche le prove di un cast ben calato nella parte, contando Georgina Campbell, Bill Skarsgård e Justin Long.


In conclusione un film senza troppe pretese davvero ben confezionato, con il passaparola principalmente dovuto a causa di quel plot-twist, perfettamente messo in scena e destinato forse a diventare già di per sé un cult.

7) OLD PEOPLE (Andy Fetscher)

Distribuito in Italia da Netflix, il secondo film del regista tedesco Andy Fetscher – a differenza per esempio di titoli come “Barbarian” – non ha sicuramente goduto di un buon passaparola, sviando abbastanza nell’anonimato per via di pareri discordanti e per non avere di fatto grandi nomi altisonanti dietro e davanti la macchina da presa. Il film resta a suo modo positivamente sorprendente e non poteva non essere presente in questa classifica.


Per raggiungere la sorella prossima al matrimonio, Elle è una madre divorziata che torna al paese natale insieme ai figli. Per celebrare al meglio il Grande Giorno devono però esserci tutti, compreso ovviamente il padre della sposa e allora Elle decide di andare a recuperarlo presso la casa di riposo. Peccato che gli anziani del paese iniziano a comportarsi in modo davvero sinistro.


Con “Old People” il regista Andy Fetscher realizza un horror tedesco violento e terrificante, che si lascia andare anche alla drammatica critica sociale trattando la fondamentale importanza della memoria, del legame umano tra inizio e fine vita interconnesso tra nonni e nipoti, la disgregazione del nucleo familiare e gli anziani che troppo spesso non ricevono i riconoscimenti che meriterebbero per i loro sforzi e sacrifici, ma vengono abbandonati ed emarginati in strutture opprimenti, sia per il luogo in sé sia a volte purtroppo per il personale privo di passione che vi ci lavora (si vuole ovviamente salvaguardare la categoria al fronte delle molte notizie di cronaca riguardanti i maltrattamenti).


Qui gli anziani decidono di vendicarsi una volta per tutte e già dai primi minuti il regista prepara lo spettatore ad una visione secca, violenta e sanguinolenta, con la commistione di tanti generi horror nella stessa (dallo slasher all’home invasion, passando per lo zombie-movie ed il film apocalittico) inscenati con una grande regia soprattutto nel mantenere perennemente alta la tensione, ma sapendo esplodere anche nell’orrore al momento più opportuno. Bella la tetra fotografia e l’ambientazione marcia, decadente ed a tratti infernale che circonda le azioni dei protagonisti. Peccato per la mancanza di prove di alto livello nel cast (comunque sono tutti più o meno convincenti) e per un finale tanto necessario quanto contraddittorio, non tanto per il lato tematico (appunto necessario, il finale è la “giusta conclusione”) quanto per l’esecuzione, che smorza decisamente troppo i toni della tesa visione appena terminata.

Gallina vecchia fa buon brodo.

6) DOCTOR STRANGE: NEL MULTIVERSO DELLA FOLLIA (Sam Raimi)

Dopo 27 film e varie serie TV – in un universo cinematografico come quello Marvel, popolato da mostri e alieni, azionato da magia e continui combattimenti – serviva l’ingresso (meglio, “ritorno”) di un visionario come Sam Raimi per introdurre un po’ di sano brivido: demoni, spettri, non-morti, cattiveria e brutalità, sangue e splatter, addirittura qualche jump-scare. Il regista ha ottenuto gran parte della sua fortuna per la sua peculiare originalità nel sapere manipolare il genere horror attraverso la commedia nera e l’avventura, ed una cosa è assolutamente certa ed innegabile: un film Marvel così non si era mai visto!

 

Successivamente agli eventi di “Spiderman – No Way Home”, Doctor Strange si trova a dover proteggere la giovane America Chavez: la ragazza non riesce a controllare appieno il suo potere, ovvero quello di poter attraversare le varie dimensioni del Multiverso, e una serie di demoni le danno la caccia. Un’ex alleata dello Stregone è in realtà dietro a tutto questo.

 

La faccenda del Multiverso è e continua a rivelarsi un vero e proprio vaso di Pandora, con il regista del caso che si ritrova a dover strecciare e rappresentare su schermo una linea narrativa che ormai si sovrappone nel tempo e nello spazio con troppe altre dimensioni. Tra i rari esempi, il capitano dietro la macchina da presa riesce in questo “Doctor Strange: nel multiverso della follia” a portare a casa il suo meraviglioso lavoro, sapendo accettare e allo stesso tempo saper aggirare il compromesso produttivo: cercando di rientrare nei binari inossidabili tracciati da Kevin Feige, Sam Raimi realizza il suo film, totalmente folle, anarchico e visionario dove il sottotitolo non serve solo per riempire la locandina.

 

Un Multiverso che non è solo pretesto per riempirsi la bocca e gli occhi di delirante potenza visiva, ma un elemento che ha la sua essenziale valenza narrativa: una porta verso le nuove opportunità, quelle perdute e quelle che non sono state colte. Elaborazione del lutto, un amore impossibile che travalica ogni confine, il destino di chi deve inesorabilmente amare per poi perdere tutto, oppure la ricerca della felicità in almeno uno dei mondi possibili.  Oltre ad un’intrigante teoria del sogno, sono tutti temi che spiccano in un film che riesce appieno ad esaltare il tormento dei due protagonisti (se non i più interessanti, almeno tra i personaggi più affascinanti del MCU).


Il bene e il male, insiti in ogni essere umano, che continuano a riflettersi attraverso uno specchio davvero molto fragile: da una parte il chirurgo Strange (interpretato sempre dal grandissimo Benedict Cumberbatch), intento a riparare il vetro del suo tempo, incrinatosi per gli errori commessi, e portando il peso sulle spalle di “salvatore del mondo” dopo la compianta dipartita del Signor Stark; dall’altra la luciferina Wanda di Elizabeth Olsen, con il suo specchio ormai andato invece completamente in frantumi che, da “buona” madre, si preoccupa dei propri frammenti, cercando di ricomporli e senza timore di tagliarsi provandoci. Proprio il maggior spessore offerto al personaggio di Wanda è sicuramente una delle cose più belle del film: avendo già regalato gli iconici personaggi del Goblin di Willem Defoe e del Dottor Octopus di Alfred Molina, il regista riesce nuovamente a rappresentare qui – attraverso la sceneggiatura di Michael Waldron – un villain finemente caratterizzato e che ha il suo sacrosanto momento di gloria sul grande schermo, schiacciando tutte le sue eroiche colleghe.

 

Stregone (di fatto) Supremo contro una Strega prestata a deliri di onnipotenza, ma la vera magia è quella offerta da chi sta dietro la mdp: Sam Raimi è il vero e reale maestro delle arti magiche, amalgamando nel suo pentolone vari generi, sapendo essere “commerciale” senza perdere la propria autorialità, regalando puro intrattenimento con sprazzi di grande cinema. Magiche dissolvenze, zoom improvvisi, rapidissimi movimenti di macchina e frequenti primi piani sui volti terrorizzati dei personaggi, aiutano ad esaltare la bellezza visiva offerta da un comparto tecnico strabordante che regala un’esperienza visiva allucinante (decisamente meno patinata rispetto ai suoi predecessori grazie alla sua tinta dark) e meravigliosamente allucinogena, con trovate immaginifiche che continuano il trip di acidi offerto dal prequel del 2016.
Tanta carne al fuoco in 2h belle pregne e dense di contenuto, volate via con immenso piacere in un’adrenalinica corsa al cardiopalma (o meglio un continuo salto nel vuoto dimensionale), condita da immancabile action spettacolare e da una riconoscibile e macabra ironia.


Dulcis in fundo, le note della colonna sonora (presenti anche letteralmente e fisicamente in una sequenza di rara bellezza) vengono affidate allo storico collaboratore del regista: dopo la splendida colonna sonora nella trilogia iniziata nel 2002, Danny Elfman porta a termine anche in questo caso un lavoro egregio.
Rimane ovviamente un prodotto Marvel che risente degli evidenti ed ingombranti problemi previsione (su tutti il dover seguire decine e decine di prodotti cinematografici e televisivi per poter stare dietro ad un singolo film) e con qualche annebbiamento per quanto riguarda alcuni effetti speciali (quell’occhio rimane orrendo), ma rimane una delle prove indissolubili del fatto che anche in questo “settore” si può fare un altro tipo di cinema e si vuole premiare un prodotto fresco, a suo modo coraggioso e decisamente ricco di intrattenimento.


La stregoneria di Sam Raimi.

5) PIOVE (Paolo Strippoli)

Primo vero debutto cinematografico per il regista pugliese Paolo Strippoli, “Piove” è un horror drammatico italiano – con punte splatter e sovrannaturali – che tratta anche biblicamente la rabbiosa natura insita nell’essere umano fin dalla notte dei tempi, inevitabilmente destinata ad esplodere, ma con la speranza di un mondo migliore.

 

Quando piove, dai tombini delle fogne di Roma fuoriesce uno strano vapore che, una volta entrato in contatto con un essere umano, lo rende violento, rabbioso e libero di sfogare i propri sentimenti repressi. La storia del film di Paolo Strippoli si concentra sulla famiglia dell’ormai vedovo Thomas, che conduce la sua monotona ed insignificante quotidianità assieme ai propri figli Barbara ed Enrico. Come gli altri abitanti della città, anche a padre e figlio toccherà respirare la misteriosa aria malsana, instaurando una vera e propria resa dei conti per i sensi di colpa di un passato che torna inevitabilmente a bussare.

 

Sapore biblico che si può assaporare già dai primi secondi di visione, con quel epico prologo in cui viene mostrato come la morte, la rabbia, l’omicidio e il bramoso istinto bellico siano insiti nell’essere umano accompagnandolo per tutti i secoli della sua storia. Dall’epoca antica a quella moderna guerre, persecuzioni o “semplici” omicidi a sfondo passionale o economico sono all’ordine del giorno: l’uomo uccide e vuole uccidere, con la società civile che fortunatamente ha represso questo istinto che comunque sembrerebbe rimanere sempre presente, chi più chi meno.

“Piove” intende scatenare la natura umana in un periodo storico in cui sembra non ci sia effettivo bisogno: l’essere umano sta diventando sempre più nervoso e stressato anche dai nuovi assetti tecnologici, sta continuando a perdere empatia verso il prossimo, il senso di solidarietà.

Il film di Paolo Strippoli non intende far altro che portare all’estremo la nostra attualità quotidiana, per svegliare lo spettatore facendogli realizzare il fatto che dobbiamo riappropriarci di quel senso di solidarietà, di empatia, di perdono ed accoglienza, nonostante fuori continuino a scoppiare le bombe dei conflitti.

 

Dopo essersi preso i suoi tempi, dalla seconda metà di visione inizia tutto un altro film per “Piove” che spinge sul pedale dell’acceleratore, fino allo schianto nel climax finale. Goccia dopo goccia, anche la fotografia di Cristiano Di Nicola inizia ad inumidirsi sempre di più, tanto della pioggia incessante quanto del sangue che continua a scorrere anche in sequenze dalla violenza quasi inaspettata. Eccezion fatta per la difettosa resa del gas verdastro, gli effetti speciali di “Piove” sono d’alta fattura, con un make-up incisivo e dalla grande realizzazione tecnica che contribuiscono alla visione orrorifica soprattutto per le sequenze più gore. Un ulteriore plauso andrebbe fatto anche ai membri del cast. Convincente il rapporto elettrico tra il padre famiglia Fabrizio Rongione e il figlio ribelle Francesco Gheghi.

 

Il cinema italiano di genere vive.

4) X – A SEXY HORROR STORY (Ti West)

A riassumere la nuova fatica del regista statunitense Ti West sarebbe assolutamente sufficiente l’etichetta della salsa-gadget distribuita da Midnight Factory per promuovere il film (CONTIENE: immagini da urlo / scene piccanti / vecchia psicopatica / sangue a volontà / set film porno / musica da sballo / gemiti hot / citazioni cult).

 

La trama di “X – a sexy horror story” viene ambientata nel 1979. Una troupe di giovani videoamatori decide di girare di nascosto un film per adulti nelle zone rurali del Texas. Il piano è quello di diventare così ricchi e famosi, ma quando la coppia di anziani che ospita il gruppo nella loro fattoria scopre ciò che sta realmente accadendo nella loro proprietà, i giovani dovranno prima preoccuparsi di rimanere vivi.

 

Un profondo scontro generazionale quello abilmente portato sulla scena da Ti West, innanzitutto dal punto di vista politico culturale, contrapponendo infatti: da un lato la giovinezza e la crescita dell’autostima, la smania di libertà, la rivoluzione, il poter sognare il proprio futuro e godere dei propri impulsi, della propria natura finché sarà possibile; dall’altro un geloso aspetto conservatore, spesso e volentieri legato al dogmatismo religioso, una vecchiaia nostalgica della giovinezza ormai perduta che riversa la propria frustrazione nel bigottismo, nel razzismo e nel pregiudizio.
Tuttavia il regista decide di non marcare del tutto la linea che delimita le due aree, scegliendo il più delle volte la via del confronto invece che dello scontro, riuscendo ad entrare in empatia anche con psicopatici assassini, una dei quali – attraverso un incredibile lavoro di make-up – viene interpretata da Mia Goth, che decide qui di sdoppiarsi e di promettere un altro film piccante con il prossimo “Pearl” (già presentato in anteprima alla 79° Mostra cinematografica di Venezia).


Lo scontro generazionale però è anche quello meta-cinematografico. Ti West fa esplicitamente risorgere lo slasher e il selvaggio cinema di genere anni ’70/’80 – attraverso continui riferimenti, ovviamente e soprattutto a quel “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper – sia narrativi che registici, ma intende andare oltre lo spicciolo fan-service volendo e riuscendo ottimamente ad uscire dagli schemi. Il regista si diverte a prendere in giro lo spettatore: rilancia il sesso e le nudità al cinema, rendendo scabroso e disturbante un taboo che ormai sembra sempre superato; fa frequentemente uso di depistaggi, intavola la sequenza per aspettarsi un “brivido facile” per poi concludersi con un nulla di fatto e colpire inaspettatamente; spezza i momenti “clou” attraverso il montaggio alternato facendo rimanere lo spettatore sbigottito e in fremente attesa.
Terrore, suspense e riflessioni principalmente sullo spaccato sociale ed economico oltre che sull’ipocrisia e il voyeurismo; ma in un’ambientazione così elegantemente sporca il regista non disdegna assolutamente di mostrare ciò che non si vuol vedere, ma che alla fine tutti attendono: via allora con violenza, gore, occhi cavati, sangue che schizza, panico, urla e disturbanti momenti d’amore.


“Godrete…da morire!”

3) NON SARAI SOLA (Goran Stolevski)

Si sale sul podio con un folgorante e promettentissimo debutto sul gradino più basso. Si tratta di “Non sarai sola”, opera prima del regista/sceneggiatore macedone Goran Stolevski presentato al Sundance Film Festival.

 

Nei villaggi rurali della Macedonia dell’800, la piccola Nevena viene rapita da una strega per essere trasformata in una sua adepta. Isolata dal resto del mondo per anni, dopo aver appreso la capacità di prendere le sembianze di chi uccide, alla giovane viene concessa la possibilità di relazionarsi con gli abitanti di un villaggio vicino. La strega è sicura che l’impatto con la “realtà comunitaria” faccia arrendere la giovane all’idea che sia meglio rimanere soli, ma Nevena – un omicidio dopo l’altro – scoprirà la vita, attraverso la morte.

 

Dopo una decina di cortometraggi, l’opera prima di Stolevski impressiona e colpisce proprio per il coraggio, l’intraprendenza (anche arroganza) di mettere in scena una certa complessità narrativa, concettuale e tecnica al suo primo lavoro cinematografico. Una pura favola horror dell’anima, con streghe, maledizioni, sangue ed omicidi, ma si vuole avvertire che “Non sarai sola” potrà risultare sicuramente poco adatto a coloro che mal accolgono film “lenti”, silenziosi ed esistenziali.

La pellicola di fatto vuole trovare (più o meno consapevolmente) un punto di incontro tra il New Folk-horror (su tutti saltano in mente titoli come “The VVitch” di Robert Eggers del 2015 e “Hagazussa” di Lukas Feigelfeld del 2017) e il cinema di Terence Malick, facendo ripetutamente cozzare la bellezza dell’ambientazione rurale circostante con le riflessioni voice-over, tanto secche quanto tenere, ma più che mai “curiose”. Il tutto cullato da tempi densamente dilatati, sostenuti silenzi e l’orrore sfruttato come mezzo e non come fine, per un cinema indipendente viscerale che osserva e studia il “bene” della vita attraverso gli occhi esterni del Male, della Morte.

 

Attingendo dalle leggende popolari del Paese natale, il regista realizza un film di streghe sulle streghe sorprendente, originale e con tanta voglia di mostrare le proprie capacità, anche inciampando lungo il percorso. La giovane protagonista mutaforma sperimenta la frivola vita animale, l’orgasmo maschile e femminile, il patriarcato visto attraverso gli occhi di donna e di uomo, il partorire ed il togliere una vita, fede e stregoneria (decisamente troppa carne al fuoco per essere purtroppo ben analizzata in un unico film).

La messa in scena di questo viaggio esistenziale – ristretta in 4:3 – è capace di far immergere lo spettatore in un racconto fortemente intimo, seguendo di pari passo una sceneggiatura “alta” attraverso appunto la sacra colonna sonora di Mark Bradshaw ed una fotografia squisitamente bucolica che riescono ad ambientare il tutto in un “nessun luogo” ed un “nessun tempo”. Una visione emozionante anche e soprattutto grazie alle prove del cast, “rapito” dai poteri della giovane protagonista (nel quale figura anche Noomi Rapace, che sarebbe potuta entrare due volte nella classifica grazie a “Lamb”, un altro notevole folk-horror diretto da Valdimar Jóhannsson ed uscito nelle sale italiane sempre quest’anno), privato della parola e messo ottimamente in scena anche da Stolevski che, spesso, tende a tagliare direttamente il corpo con inquadrature di stretti primi piani, concentrandosi sugli occhi e la parte superiore della testa, quasi nel voler riprendere direttamente i pensieri portati avanti dal voice-over.

 

Una certa “arroganza” nel voler mostrare un po’ tutto (inevitabilmente non riuscendoci a pieno) e pose da “film d’essai”, potrebbero far allontanare molti dalla visione di un film dalla natura indipendente che sa sorprendere per tecnica ed una certa originalità narrativa.

 

Sorprendente, audace ed un nome da tenere d’occhio.

2) MEN (Alex Garland)

A 4 anni da “Annientamento” e a 7 dal suo debutto da regista con “Ex-Machina” – dopo aver regalato sceneggiature di spessore per i due film diretti da Danny Boyle “28 giorni dopo” e “Sunshine” – Alex Garland si prende una pausa dalla fantascienza e torna dietro la macchina da presa firmando in grande stile il terzo tassello di una filmografia che continua ad essere a dir poco affascinante ed intrigante.

 

In “Men“, Harper decide di ritirarsi nella tranquilla campagna inglese per staccare la spina e riposarsi, cercando di affrontare e superare il trauma legato al suicidio del marito. Tuttavia, da quello che si presenta subito come un vero e proprio “Paradiso Terrestre” emergono le prime insidie: qualcosa o qualcuno dal bosco sembrerebbe perseguitarla ed Harper si ritroverà presto a rivivere il trauma all’interno di un incubo.

 

Poggiandosi su un ricco simbolismo e su svariati riferimenti mitologici, biblici e soprattutto al folklore irlandese, Garland scrive ed imposta una feroce e spietata visione della misoginia e della mascolinità tossica – “messa a nudo” in tutte le sue più subdole e viscide sfaccettature – della mentalità patriarcale e fallocentrica, della cultura dello stupro e della colpevolizzazione. Un logorante racconto psicologico di genere sull’elaborazione del lutto, sul processo di guarigione, sul senso (anche e soprattutto mistico) di morte e rinascita, con uno sguardo preoccupante/rassegnato sulle nuove “generazioni”.


Sullo stesso passo delle altre due splendide opere incentrate sulla figura femminile, questo folk horror parla attraverso la drammatica realtà di chi ha vissuto e continua a subire violenze da parte del proprio partner, con una sensazione di forte disagio esaltata qui dalla semplice ed efficace trovata di rendere tutti gli uomini con lo stesso volto: che sia un bambino, un prete, un poliziotto o un apparentemente amorevole padrone di casa, tutti i “Men” presenti nel film hanno il volto di Rory Kinnear. Il regista infatti evita che la protagonista soffrisse il senso di colpa per ciò che è successo all’ex marito, potendo notare come Harper stia soffrendo “semplicemente” il trauma, ma non come responsabile della vicenda, quanto per la triste conclusione della stessa, forse amplificata anche da relazioni e rapporti passati. Il dubbio del senso di colpa viene infatti spinto dall’esterno, da quei “men” che non le credono, che vogliono semplicemente approfittare di lei, opprimerla o comunque farla sentire a disagio.
Un horror dell’anima dunque ma, per quanto riguarda la realizzazione e la surreale messa in scena, davvero di difficile collocazione. Mentre un forte senso di inquietudine e di tensione suggestiona la visione fin dai primi minuti, Garland decide di iniziare a piccoli passi, facendosi appunto una passeggiata per “ammirare il paesaggio”: il primo atto è infatti incentrato ad inquadrare il trauma vissuto da Harper, con i continui flashback a ricomporre tassello dopo tassello l’intera vicenda.
Con il secondo atto invece si inizia a correre, con la tensione del thriller che sale in un vorticoso climax: si va dall’investigativo all’home invasion, in una realtà sconnessa che rende il tutto più criptico ed intrigante.
Sul finale invece Garland è senza freni, “annientando” la psiche per la sua tenuta ansiogena e fortemente inquietante, con una messa in scena che sbalordisce per la costruzione dell’immagine tetra e claustrofobica, spingendo con la palette cromatica di un’ambientazione infernale – una forte e lugubre influenza della Natura – e sperimentali trovate visive sì respingenti (“Gozu”), ma che rendono l’esperienza fortemente incisiva.


Oltre alla messa in scena e ai notevoli movimenti di macchina, il film gode in un montaggio esaltante e di un comparto sonoro composto da Ben Salisbury e Geoff Barrow a dir poco perfetto: il turbativo mix di urla, scossoni (senza mai scivolare nel jump-scare) e canti gregoriani, unito alla scenografia/fotografia che ricostruiscono un vero e proprio “paradiso perduto”, aiutano ad immergere in un’esperienza mistica, onirica e terrificante.
Fiore all’occhiello è sicuramente anche la magnetica coppia attoriale. Jessie Buckley offre una bella interpretazione che ormai è di ordinaria amministrazione per il suo talento (“Judy”, “Sto pensando di finirla qui”, “La figlia oscura”), mostrando una figura angelica e tormentata; vittima sì, ma che non vuole soccombere alla vita, ma difendersi e reagire, con i fantasmi del passato (del presente…e del futuro) che l’assalgono nel tentativo di farla cedere alla passività, allo sconforto e al vittimismo. Ma ancora più rilevante è l’interpretazione di Rory Kinnear: il grande attore britannico (“Black mirror”, “Penny Dreadful”, “Skyfall”) riesce a far vedere tutte le sue suggestive doti camaleontiche ogni volta che appare sullo schermo in un ruolo diverso, mostrando tutte le sfaccettature tossiche e viscide dell’uomo ricercate da Garland.


Men – tutti i volti del Male.

1) CRIMES OF THE FUTURE (David Cronenberg)

Il corpo per me è l’essenza dell’esistenza umana, è ciò che siamo e tutto parte da lì, compresa la tecnologia. Negli anni ’50 la tecnologia era roba che arrivava dallo spazio e ci minacciava, con strane armi e cose di questo tipo, ma per me è sempre stata ultraumana, un’estensione di ciò che siamo: il nostro pugno diventa un missile, ciò che vediamo, sentiamo, il telefono…sono tutte cose che partono dal corpo. Quindi la tecnologia diventa ciò che siamo, nel bene e nel male, lo vedi con ogni nuova tecnologia, con internet, i social media: è tutto grandioso, bellissimo…ma anche orribile e spaventoso, tira fuori il nostro lato migliore e anche quello peggiore. Per me è quindi naturale andare lì, tuffarmi nell’essenza: voglio l’essenza di ciò che siamo e della condizione umana e il mio percorso mi porta lì.
Crimes of the Future ha dentro tutto ciò, ma ha anche una strana tenerezza, una strana storia d’amore, c’è della dolcezza nel film e in fondo non c’è un vero villain. È un oggetto strano, che penso rappresenti accuratamente la stranezza dell’essere…l’essere umano.

 

Basterebbero semplicemente queste dichiarazioni dello stesso David Cronenberg per riassumere gran parte di una filmografia tanto complessa quanto imprescindibile che, sotto diverse forme, ha saputo piazzare diverse opere fondamentali per la storia del cinema (non solo di “genere”).
Dopo 8 anni dal meraviglioso “Maps to the Stars”, il film segna il trionfale ritorno sulla scena per il regista canadese, che rimette mano a quella strana creatura tanto ripugnante quanto dannatamente affascinante che è il suo body-horror, a distanza di più di 20 anni da “eXistenZ”.

 

Nella trama di “Crimes of the future” ambientata in un futuro distopico, l’evoluzione ha reso l’uomo insensibile al dolore fisico, trovando nuova forma d’arte e di piacere nell’autolesionismo e nella chirurgia specializzata. Saul è un artista di successo in tal campo, affetto da una strana sindrome che crea in continuazione nel suo corpo nuovi organi, i quali vengono tatuati e rimossi dall’ex chirurgo Caprice per poterli esporre al pubblico. Molti saranno gli occhi addosso al successo della coppia e Saul si ritroverà coinvolto nella rivolta popolare di una misteriosa setta.

 

Una storia sci-fi con un grande cuore (letteralmente, ma in buona compagnia con gli altri organi) e sentimentale, un horror viscerale con un gran gusto praticamente cyberpunk che non disdegna il gore, racconto di crimini di un futuro che non potrebbero essere più attuali e presenti, potendo riflettere ancora una volta sul cambiamento del corpo, sul magnetismo e vacuità delle forme d’arte e sulla strumentalizzazione della tecnologia.
Cronenberg riprende i suoi stilemi, li modernizza e li riadatta: il progresso, l’evoluzione, la tecnologia, parte tutto dal nostro corpo, e lo stiamo distruggendo, mutilando, deformando, o anche semplicemente modificando. A partire dal semplice buco sul lobo per l’orecchino, al marchiare la pelle con un tatuaggio, arrivando al cambio di sesso, passando per l’intervento chirurgico per sistemare il naso o il seno, per non parlare delle estreme espressioni di body-modification. Siamo tutti sotto accusa dal regista canadese, senza mai (anche qui sta la grandezza di un maestro) additare bigottamente ed in modo superficiale gli usi e costumi di una razza – come quella umana – sempre ed inevitabilmente in evoluzione, nel bene e nel male.
L’aspra critica sta nella ricerca dell’illusione della libertà – più che nell’effettiva libera scelta di prendere determinate strade – che viene ossessivamente riscontrata nel morboso desiderio di apparire, soprattutto per rispettare un trend/una moda, senza sapere o senza accorgersi della vacuità di quell’essenza e finendo, inevitabilmente, per danneggiare te stesso e quella forma d’arte, d’espressione. Una tecnologia che, invece di imbrattare tumori per poi esporli al pubblico, potrebbe e dovrebbe spingere verso la salvezza di una specie a rischio, l’uomo, con la speranza in un passo (positivo) dell’evoluzione portata avanti dalle nuove generazioni che punta alla salvezza dal punto di vista tanto fisico quanto spirituale.

 

Una narrazione prettamente fantascientifica che tessa trame spionistiche in un’ambientazione noir, con un grande cast (Viggo Mortensen sempre una sicurezza, soprattutto in collaborazione con il regista canadese, ma decisamente convincenti anche Léa Seydoux e Kristen Stewart) chiamato intensamente a riflettere sulle affascinanti pause esistenziali dettate da una grande sceneggiatura firmata dallo stesso Cronenberg.
A rapire gli occhi è però soprattutto la visionaria messa in scena di un maestro. Una perdita di umanità esaltata e riflessa perfettamente in un’ambientazione senza luogo/senza tempo, sfruttata a meraviglia da Cronenberg attraverso un’indiscutibile tecnica registica fluida e brillantemente elaborata, alimentando il gusto da futuro distopico semplicemente attraverso la curata scelta nella costruzione dell’immagine e dei luoghi di scena, passando soprattutto per una stupefacente fotografia di Douglas Koch e la grande colonna sonora di Howard Shore, mentre le iconiche invenzioni meccaniche – che hanno contraddistinto gran parte della fortuna della filmografia di Cronenberg nei primi decenni – trovano qui nuova linfa.


Gloria e vita alla nuova carne!