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Spider-Man – No Way Home: un kolossal unico nel cinema

“Spider-Man – No Way Home”, uno dei film più attesi di sempre, è finalmente giunto nelle nostre sale cinematografiche. Prima di questa recensione, noi abbiamo precedentemente analizzato le tre ere principali legate all’Uomo Ragno, ma la conclusione dell’arco narrativo della maturazione del personaggio nel Marvel Cinematic Universe sarà stata degna? Scopriamolo!

La trama del film è questa: a causa di un messaggio di Mysterio, tutto il mondo sa dell’identità segreta di Spider-Man. Peter Parker è completamente travolto dalla cosa, perché l’opinione pubblica si spacca letteralmente in due tra chi crede che sia un assassino e chi crede che sia un eroe. Nonostante la spaccatura, Peter soffre per il disagio che causa ai suoi cari a causa delle controversie, così si reca dal Doctor Strange chiedendo a quest’ultimo di far dimenticare al mondo la sua identità. Strange accetta, ma un errore dell’incantesimo causa una spaccatura nel multiverso e numerosi villain, i quali hanno già affrontato uno Spider-Man in un altro universo in passato, sono improvvisamente apparsi ed il nostro Peter Parker dovrà rispedirli a casa, ma tutta questa faccenda rischia di avere conseguenze molto forti…

Dal punto di vista tecnico, Jon Watts, qui al suo terzo lavoro in un blockbuster, dimostra ancora una volta di essere maturato dal punto di vista tecnico, fondendo l’azione con il suo approccio intimo ai personaggi: è interessante infatti che in diverse scene d’azione siano evidenziati molto i primi piani o mezze figure, in modo che vengano espressi a pieno le sensazioni dei personaggi mentre si esaltano o mentre vengono martoriati. Nonostante la cosa sia più volte aiutata da un’impostazione geometrica, a volte questa particolare iniziativa del regista rischia di limitare la fluibilità dei movimenti dei personaggi a causa di alcune inquadrature che comprimono un po’ troppo la cosa, ma in generale l’effetto è molto gradevole e riuscito. Interessanti anche i movimenti di macchina che in pochi ma intensi momenti seguono anche il corpo dei personaggi, continuando con l’esposizione emotiva (il piano sequenza iniziale è per esempio davvero riuscitissimo nell’indicare una potente confusione dettata dal panico). Si può dire che in “Far From Home” ci fosse più fluidità, ma, come abbiamo già detto, la crescita di Watts si nota e l’effetto finale è comunque molto gradevole. Ottimo anche il montaggio fortemente dinamico (salvo due brevissime sequenze in cui lo stacco è troppo veloce) e le musiche di Michael Giacchino sono incredibili nel riuscire ad alternarsi perfettamente tra atmosfera comica, drammatica ed epica utilizzando spesso lo stesso tema ramificato in vari riarraangiamenti per farci sentire il cuore del personaggio. Gli effetti visivi non sono sempre perfetti perché a volte si notano, ma in generale si tratta ancora una volta di un lavoro eccellente a cui i Marvel Studios ci ha abituati, in particolare il ringiovanimento di Alfred Molina che può tranquillamente essere considerato l’esempio più riuscito fino ad ora da quando esiste questo approccio con la tecnologia.

Adesso che è stata analizzata l’impostazione tecnica, chiariamo subito un punto: si sta trattando del film più atteso dell’anno e, anche grazie al tipo di pubblicità tipica dei Marvel Studios basata sulla sorpresa, sappiamo che molti di voi che non hanno ancora visto il film amano gustarsi ogni singolo dettaglio che l’opera riserverà, anche quando si tratta di cose che, il qualunque altro film, non sarebbero spoiler. Se volete sapere se vale la pena precipitarsi in sala, la risposta è “si”. Non ho alcun problema a dire subito che si tratta di qualcosa che si può tranquillamente trovare straordinaria. Tuttavia è davvero impossibile spiegare perché quest’opera è un caso unico nella storia del cinema senza parlare delle parti più importanti, figuriamoci se poi non si può anticipare nemmeno i primi 40 minuti del film. Per questo si avvisa subito che dopo questo avvertimento, il resto della recensione sarà completamente SPOILER, così evitate se non avete ancora potuto godere di questo lungometraggio e ci tenete a mantenere ogni sorpresa possibile. Dopo questa avvertenza, continuiamo con l’analisi.

Prima di tutto, è incredibile come, stranamente, non si senta l’effetto da minestrone impazzito che è stata una caratteristica perenne dei film di Spider-Man quando è stato imposto l’inserimento di molti personaggi. A differenza di “Spider-Man 3” e soprattutto di “The Amazing Spider-Man 2”, i quali avevano tante sottotrame che soffrivano più volte del poco spazio dato per fare immediatamente spazio ad altri eventi raccontati in essi, “Spider-Man: No Way Home” ha l’intelligenza di collegare i molti villain ad un unico evento nel film che è appunto l’incidente del multiverso, in modo che non si deve passare da un avvenimento all’altro legato esclusivamente ad un personaggio e per questo c’è il tempo e la possibilità di dare il giusto spazio a tutti. Tuttavia c’è ovviamente l’eccezione che conferma la regola, perché l’unica volta che si sente la mancanza di spazio è con Flint Marko, proveniente dall’universo della trilogia di Raimi: fatta eccezione di un’ottima entrata in scena, il personaggio ha pochi momenti nell’opera e non abbastanza per far capire i motivi per cui lui agisca in maniera così scontrosa tanto da schierarsi dalla parte di personaggi mooolto discutibili dal punto di vista morale (e dato che l’Uomo Sabbia di base non è cattivo, ciò è troppo strano). Questo peso si sente poco perché non si tratta di uno dei personaggi importanti dell’opera, ma di certo è una delusione per chi è affezionato alla splendida caratterizzazione fornita nel film precedente.

Collegandoci a questo, si è capito: Doctor Octopus, Goblin, Elektro, Lizard e l’Uomo Sabbia vengono dagli stessi universi dei film di Sam Raimi e di Mark Webb, così come li avevamo lasciati. I villain sono esattamente uguali, poiché si riallacciano agli ultimi momenti successi nelle opere citate poco prima di morire per poi essere trasportati in tempo nell’universo dell’MCU, ma tutti (tranne il già citato Flint Marko) hanno il giusto spazio. Quello maggiormente cambiato è Elektro, il quale ormai è definitivamente sicuro di sé dopo l’esperienza precedente, ebbrio del suo potere e del suo nuovo corpo per cercare in tutti i modi di apparire come un essere che si deve ammirare pur di non tornare all’esperienza d’emarginazione e triste avuta nella sua New York. Lizard è un villain povero di contenuti esattamente come lo era nel primo film di Webb, ma non si tratta di mancanza di spazio perché il suo ruolo è semplicemente quello di un cattivo scenico che aiuta a mandare avanti gli eventi per dare più difficoltà al protagonista. Tuttavia, nonostante questo ruolo, riesce ad essere comunque migliore del lavoro fatto nel suo universo originale, dato che pronuncia una frase interessante legata al personaggio di Spider-Man dovuta alle conseguenze che si possono avere se si rischia troppo in un’azione anche quando il gesto è legato dalla bontà e questo è un grande miglioramento dato che di frase celebre Lizard non ne aveva nemmeno una nel film di Webb. Doctor Octopus è una persona scontrosa e presuntuosa, mossa dall’impazienza di raggiungere il suo obiettivo finale e che detesta l’idea di perdere tempo mentre è straniato dal luogo in cui si trova. Inoltre quest’ultimo è il principale simbolo dell’importanza della redenzione, trovando un nuovo lato del concetto creato da Sam Raimi nel secondo film e che esporrò successivamente.

Se questi cattivi hanno il giusto spazio, quello che spicca più di tutti è Goblin, perché il personaggio non solo ha la stessa identica caratterizzazione che abbiamo visto in “Spider-Man” di Sam Raimi, mostrando un uomo che utilizza i suoi poteri per i suoi scopi avidi anche a costo di fare del male, mentre la sua personalità originale che cerca di essere sulla giusta via è continuamente consumata dall’oscurità, ma è stato contestualizzato in un modo che aggiunge valore e non lo fa sembrare una minestra riscaldata. Goblin più volte fa riflessioni su quanto la mancanza di moralità sia una debolezza per l’essere umano e che l’unico modo per raggiungere la perfezione che permette di essere superiori agli altri sia non farsi problemi all’essere egoisti ed evitare di provare rimorsi. In questo modo, Goblin vuole dimostrare la sua tesi a Peter corrompendolo, facendo uscire fuori il suo lato oscuro distruggendogli letteralmente la vita per farlo impazzire, così questo incredibile villain non solo è la parte oscura di Norman Osborn che prende il sopravvento, ma rappresenta anche la parte oscura dello stesso Peter che lo porta alla tentazione di uccidere, di perdere la calma, di non avere pietà. La scena dell’uccisione di zia May causata dallo stesso Goblin porta all’estremo la perdita della speranza in un male che in tutti i modi è gratuito e che sembra quasi impossibile da poter combattere senza utilizzare i suoi stessi metodi. Ed è incredibile come si sia riusciti a rispettare lo spirito di questo antagonista rendendolo la nemesi per eccellenza di Peter nonostante lui appartenga alla timeline di un altro universo e non abbia il percorso costruito da Raimi che mostra l’evoluzione dell’abisso del personaggio collegata a ragioni familiari come l’amicizia di Harry. Tutto perché Osborn ha studiato la ricerca di aiuto di Peter per guardare ad un futuro migliore, il quale gli ha fatto vedere in lui una testimonianza di quel bene che ostacola il cammino di un Dio e che dimostra la debolezza dell’essere umano. Solo applausi per un espediente del genere costruito con estrema intelligenza, ma ancora più applausi per la performance di Willem Dafoe che è una delle migliori che si siano viste in un cinecomic e che non ha perso un minimo di smalto di 20 anni fa, così come il carisma di Alfred Molina ed il divertimento assoluto di Jamie Foxx.

Collegandoci al significato di Goblin, è qui che il film compie il grande passo di mostrare un Peter Parker che spesso non riesce più a gestire il peso di una vita che non fa altro che creargli problemi nei rapporti delle altre persone, una vita spesso decisa non solo dalle fatiche, ma dall’apparenza di essere mostrato una persona controversa, mentre lascia che la negatività causata dalle isterie delle persone decida al posto suo, perdendo immediatamente la voglia di combattere tanto da reagire con impulsività pur di togliersi questo peso: l’incatesimo viene chiesto a Strange senza che prima abbia provato un minimo ad affrontare le accuse mosse da lui ma facendosi subito trascinare dalle avversità nel vedere i suoi amici che vengono condizionati dalla semplice amicizia con lui. Ma la faccenda di un Peter che non ce la fa più a gestire la sua vita, pur essendo trattata con dolore e con immedesimazione per i giovani che non riescono a proseguire nella carriera che vorrebbero, è qualcosa che abbiamo pur sempre già visto. Tutto però si trasforma quando nell’opera viene messa in discussione la bontà di Peter che viene vista come dell’ingenuità: Peter cerca in tutti i modi di aiutare il prossimo e come ricompensa gli viene uccisa la persona che l’ha cresciuto, per aver creduto troppo nel bene del genere umano. Questo senso di colpa è estremamente forte ed aumenta l’egoismo e la rabbia di Peter, perché in tutto questo non solo è lui a subire, ma viene anche tacciato come un malvivente da notizie false (anche qui: grande intelligenza dell’uso del linciaggio dell’opinione pubblica causata da J. John Jameson). Mai come ora il dramma del personaggio è stato tanto distruttivo nella versione di Jon Watts ed è qui che l’opera cerca di comunicare la sofferenza, il dolore che porta spesso le persone buone a cadere sempre di più soltanto perché cercano di fare la cosa giusta, ma nonostante ciò si tratta appunto della cosa giusta, la cosa per cui vale la pena combattere, la cosa simboleggiata dagli occhi pieni di luce di Doctor Octopus dopo essere stato guarito da un male atroce, dopo essere stato recuperato.

E qui si va su qualcosa di totalmente inedito per un cinecomic Marvel: lo scopo del personaggio non è sconfiggere i cattivi, imprigionarli, o ucciderli, ma è riportarli alla normalità, far vedere loro una nuova luce per fare in modo che possano ricominciare. Anche qui, una nuova visione che abbraccia l’operato di Sam Raimi, il quale non aveva mai creato un cattivo che non avesse alle spalle un destino tragico totalmente involontario. Jon Watts prende il concetto di Raimi e lo usa per mostrare che non è mai troppo tardi per ribaltare la propria vita ed avere una seconda occasione, anche per uno come Norman Osborn, perché in tutto ciò non si tratta di esseri orribili, ma di anime perdute che non sanno più come gestire il loro controllo e che hanno bisogno di una nuova via, la stessa via di cui ha bisogno Peter diversamente di uno Strange che invece è più cinico e più legato alle regole dell’Universo che sembrano seguire uno schema. Ed è quando Peter trova questa via che viene mostrato l’atto del sacrificio, il dolore della rinuncia, il dolore più grande pur di fare in modo che il mondo vada avanti con le proprie mani: Peter raggiunge la sua completa responsabilità, arriva alla conclusione che la vita è fatta anche di sacrifici estremi se si vuole portare avanti il proprio futuro e quello degli altri. Peter diventa adulto, diventa quasi padre del mondo e quasi un martire per il peso che ha sulle spalle ma che accetta pur di salvare le persone che ama, pur di privarsi del suo stesso cuore facendo in modo che i suoi amici dimentichino chi lui sia per salvare l’universo. In tutto ciò si sente quindi l’essenza di Spider-Man, l’eroe per cui tanti ragazzi hanno creduto, riso e pianto da quando Stan Lee è stato vicino ai loro problemi quando ha creato il personaggio negli anni 60.

Ma in tutto questo, non ho dimenticato un altro elemento profondamente importante: grazie allo stratagemma del multiverso, come ho detto prima, i film di Raimi, di Web e di Watts si incontrano… ed ecco che in questo modo gli Spider-Man di Tobey Maguire, Andrew Garfield e Tom Holland si vedono per la prima volta insieme nello schermo, come molte persone sognano da tempo. Pensate che questo incontro sia una pretesa fatta per fare innamorare il pubblico e trascinarlo nelle sale? Beh… avete ragione. Avete assolutamente ragione. L’idea di base è fatta per accalappiare più pubblico possibile, è un’idea fondata sul fan service… ma che cos’è il fan service se non un modo per accontentare gli amanti di personaggi o di film iconici? Qual è la differenza tra le operazioni fatte esclusivamente per portare pubblico generalista? E proprio quando il contesto è lo stesso che tali operazioni si dividono nel fan service fatto male perché si vuole solo accontentare il pubblico inserendo elementi che richiamano ad altre opere ma senza centrare il punto della materia (“Star Wars: Il Risveglio della Forza”) e poi nel fan service realizzato da persone che c’entrano il nucleo del personaggio e sono attenti ad inserire il fan service facendo però in modo che non sia mai forzato e si connetti bene con la storia: “Spider-Man: No Way Home” è uno di questi esempi, anzi, è una delle vette principali da seguire, perché davvero bastava un minimo di disattenzione per creare un disastro, ma ciò non è avvenuto.

Perché ciò non è avvenuto? Perché gli Spider-Man di Tobey Maguire e di Andrew Garfield non sono inseriti negli ultimi dieci minuti per un contentino estetico, ma hanno l’importanza di guidare lo Spider-Man di Tom Holland in un percorso di luce: quello di Raimi ha ormai raggiunto la saggezza della vecchiaia ed è sempre accogliente e sorridente nel vedere il lato buono della vita, mentre quello di Garfield ha avuto problemi a superare la peggior tragedia che potesse capitargli tanto da smettere di essere lo Spider-Man classico rimanendo in preda alla rabbia, ma che proprio per questo cerca redenzione aiutando lo Spidey più giovane a non scadere nello stesso errore. Ed in tutti questi discorsi di guida, questi Spider-Man hanno un lungo momento di dialogo, un lungo momento di confronto in cui tutti quanti si vengono incontro e si aprono. Certo, ci sono i momenti divertenti come gli ultimi due che rimangono sbalorditi dal fatto che la versione di Raimi abbia le ragnatele organiche senza gli spara ragnatele, ma questi momenti vengono accompagnati da qualcosa di dolce e tenero che mette in evidenza le anime dei personaggi, in cui tutti imparano qualcosa l’uno dall’altro: il Peter di Raimi si sorprende che la versione molto più giovane di lui sia stata nello spazio guardando in faccia al futuro di ciò che verrà, mentre il Peter di Webb si redime e si sfoga completamente quando riesce a salvare MJ, pensando a quello che avrebbe potuto fare se fosse stato più capace qualche anno fa con la sua Gwen, mostrando anche qui la speranza del futuro che si confronta con i dolori del passato.

Ed infine, proprio il Peter di Watts sarà salvato dal Peter di Raimi che gli impedirà di uccidere Goblin ed entrare nel lato oscuro… ma proprio in quel momento, Goblin lo trafigge, cercando di mostrare ancora una volta la distruzione della bontà che per lui è ingenuità… ma stavolta la cosa non funziona, perché non solo il Peter di Watts risparmia Goblin, ma il Peter di Raimi non muore, perché lui è abituato ad essere trafitto e l’esperienza lo porta a riprendersi sempre, a creare un’altra cicatrice che però non lo abbatterà: il cerchio di Peter è concluso per sempre in una luce che non lo abbandonerà più. Vecchie generazioni che si confrontano con le nuove, che mostrano l’importanza di entrambe tanto da non essere solamente un messaggio dentro la storia, ma coinvolgendo il pubblico a 360 gradi, perché il confronto tra Peter e gli altri due Peter è un confronto tra il Marvel Cinematic Universe e quello che è venuto prima (a proposito: tutti e 3 gli attori sono perfetti e carichi di entusiasmo nell’affrontare un ruolo del genere in un progetto del genere). Tutto questo viene confermato in un dialogo in cui lo Spider-Man di Raimi dice a quello di Webb che quest’ultimo non è così male come pensa e che dovrebbe avere più fiducia in sé stesso, un messaggio intrinseco nel personaggio che però allo stesso tempo è una frecciata alla accoglienza sottono riservata ai due film con Garfield. E nonostante due figure tanto importanti che hanno il giusto approfondimento, lo Spider-Man di Tom Holland riesce lo stesso ad avere il tempo di essere sempre il protagonista di tutta l’opera senza perdere spazio.

Ma la cosa ancora straordinaria è il lato produttivo: ci rendiamo conto che per la prima volta nella storia del cinema c’è stato un crossover tra 3 generazioni di un personaggio perché ben 3 saghe che hanno rappresentato un periodo diverso del cinema si sono letteralmente incontrate insieme? E non è semplicemente un minestrone, perché incredibilmente il film riesce ad essere il sequel di “Spider-Man 3”, il sequel di “The Amazing Spider-Man 2” ed il sequel di “Spider-Man: Far From Home” contemporaneamente. Ogni versione del personaggio ha la sua conclusione e se comunque l’attenzione è riservata al futuro rappresentato dallo Spider-Man di Holland che erediterà il peso di tutto ciò che è venuto prima, allo stesso tempo chi non ha visto i film precedenti sarà comunque in grado di comprendere il film e, mosso dall’entusiasmo, si recupererà le versioni di Raimi e di Webb. Il passato che insegue il futuro ed il futuro che insegue il passato in un intreccio non solo narrativo, ma anche produttivo e di conseguenza con il pubblico che mai prima d’ora si è sentito così chiamato in causa, così unito. Ed in tutto ciò, in questa unione universale che si concentra sugli Spider-Man della Sony, Kevin Feige riesce comunque ad approfittare di questo proggetto per stendere altre strizzate ed altre basi per lo sviluppo dell’MCU attraverso il geniale cameo di Daredevil e attraverso il trailer di Doctor Strange 2 mosso dall’entusiasmo della questione multiversale lanciata dal successo di questo film in cui è presente lo stesso Doctor Strange.

Ed un progetto tanto ambizioso, tanto folle per quanto potenzialmente di successo alla base, arriva in un momento in cui il cinema è in crisi a causa della pandemia, trasformandosi non solo in qualcosa senza precedenti, ma arrivando anche come un simbolo di resurrezione di eventi e di contatto fisico (si parla di un contatto di generazioni no?), in cui tutte le persone urlano di gioia alla vista di questo incontro, dopo che una pandemia ha distrutto tante cose e di cui il film si fa carico di restituire tanta luce almeno nel cinema. “Avengers” era la consacrazione della nuova linea narrativa cinematografica dettata dall’universo condiviso, “Avengers Endgame” è l’incontro finale di un progetto durato 10 anni, mentre “Spider-Man: No Way Home” è l’intreccio finale di un cammino durato 20 anni tra vari linguaggi diversi del cinema e dei personaggi. Manca solo un accordo speciale tra Disney e Warner che crei quindi una collaborazione produttiva impressionante attraverso un incontro Marvel e DC e solo così si supererebbe il limite in maniera definitiva senza possibilità di andare oltre. “Spider-Man: No Way Home” è l’ultimo tassello straordinario del fenomeno globlale dei cinecomic che ha condizionato prepotentemente l’immaginario collettivo del cinema dall’inizio del 21° secolo e verrà ricodato per forza.

In tutto ciò il film non è perfetto, perché a volte l’umorismo è di troppo, come detto prima l’Uomo Sabbia risente della mancanza di caratterizzazione e ci sono delle falle narrative anche grosse: se i villain che arrivano devono sapere l’identità di Spider-Man per essere attratti dall’incantesimo, perché c’è anche Elektro che non ha mai saputo chi fosse Peter Parker in “The Amazing Spider-Man 2”? Perché sia Doctor Strange che Peter non pensano alle persone care che non vorrebbero dimenticare chi è Spider-Man? Sono dei problemi che possono essere considerati grossi? Ritengo che la simbologia e la profondità della storia e della caratterizzazione dei personaggi, i quali continuano a tramandare l’importanza sociale del supereroe, essendo scritte da Dio, siano molto più importanti delle falle narrative che, pur essendo grosse, sono poche ed appaiono minime. Se poi inseriamo la genialità produttiva senza precedenti che crea un unicum nella settima arte, i problemi della narrazione diventano ancora meno influenti. Ovviamente si devono considerare nella valutazione dell’opera e senza di loro il film sarebbe migliore, ma quello che si cerca di dire è che, nonostante questi difetti, “Spider-Man: No Way Home” è un’opera di straordinario valore, un’opera in cui c’è tanta voglia di incassare, ma anche tanto rispetto per il pubblico, per il personaggio e per la voglia di raccontare qualcosa di profondo.

Voto: 9

Andrea Barone

Andrea Boggione: 8
Christian D’Avanzo: 7+
Carlo Iarossi: 7
Paolo Innocenti: 7
Paola Perri: 8
Giovanni Urgnani: 7
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