Cerca
Close this search box.

I David di Donatello e l’illusione di essere ancora grandi

Si è conclusa la 69esima edizione dei David di Donatello che, tra i vari riconoscimenti e la cerimonia di premiazione, ha dato molto su cui riflettere. Il cinema e l’industria italiana stanno bene o non è tutto oro ciò che luccica?
Il commento ai premi David di Donatello 2024

Il 3 maggio si è tenuta la cerimonia di premiazione dei 69esimi David di Donatello, i più importanti e prestigiosi riconoscimenti che ogni anno vengono assegnati al mondo del cinema italiano. A trionfare sono stati Matteo Garrone con Io Capitano – candidato all’Oscar e vincitore del premio per la migliore regia a Venezia80 – e Paola Cortellesi con C’è Ancora Domani, rispettivamente con 7 e 6 statuette, ma ci sono state anche alcune sorprese come i 5 riconoscimenti a Rapito di Marco Bellocchio ed i 3 a Palazzina LAF di Michele Riondino, oltre ad un singolo premio per Adagio di Stefano Sollima. A bocca asciutta Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti (0 su 7), Comandante di Edoardo De Angelis (0 su 10) e soprattutto La Chimera di Alice Rohrwacher (0 su 13). Al di là del gusto personale, questa edizione 2024 non ha fatto altro che evidenziare nuovamente problemi strutturali che l’Italia si porta dietro ormai da anni e che, piuttosto che affrontare, pare preferisca nascondere sotto il tappeto. Ma cerchiamo di fare chiarezza.

Idee vecchie ed egocentrismo: così non si riuscirà mai a fare un salto di qualità

Nonostante il 17.3% di share con 2.818.000 spettatori, la cerimonia di premiazione dei 69esimi David di Donatello è stata estremamente deludente e questo va detto con grande chiarezza. Va detto in modo chiaro anche perché l’obiettivo non è certo quello di criticare a priori il nostro cinema o puntare il dito contro qualcuno nello specifico, ma solamente di evidenziare dei problemi importanti che minano qualità e dignità di un cinema – quello italiano – dalla grande tradizione. Forse però, una delle questioni fondamentali è proprio questa: vivere di ricordi, continuare a fare leva su quelle figure che hanno portato in alto la nostra bandiera in tutto il mondo. In apertura di serata, la prima voce che sentiamo è quella di Federico Fellini, un gigante nella storia della settima arte ma che, purtroppo, ci ha lasciati da più di 30 anni. Tributare il passato è importante, ma non ci si può aggrappare ad esso senza nemmeno tentare di guardare avanti, di investire sul futuro, col tentativo dunque di campare di rendita. Certo, se guardiamo la cinquina candidata al miglior film, noteremo opere ed autori di grande livello, ma sappiamo bene quanto ciò non sia altro che superficie e che i problemi della nostra industria siano molto più radicati.

Dispiace dirlo, ma ciò che è venuto in mente a tantissimi telespettatori – basterebbe fare un giro sui social per rendersene conto – è la puntata dei Simpson in cui il signor Burns si traveste da Secco e cerca di fare il giovane. Nel momento in cui ciò è forzato e non spontaneo, il risultato diventa inevitabilmente imbarazzante o, come si dice oggi, cringe (Alessia Marcuzzi che afferma di essere nerd perché utilizza wikipedia è solo uno dei tantissimi esempi che si potrebbero fare). A pensare ciò non sono stati però solo le persone che guardavano da casa, ma anche tanti degli artisti che hanno presenziato e che sono stati candidati e premiati: dal pre show all’idea di legare le musiche di Nino Rota a Tuta Gold di Mahmood – che, per quanto sia un bravo cantante, nulla ha a che vedere col cinema – fino al toccante momento dell’In Memoriam durante il quale, è bene dirlo, da casa è risultato difficile se non a tratti impossibile leggere tutti i nomi di coloro che ci hanno lasciato, perché le riprese si sono concentrate più sull’esibizione di Irama e sulle scenografie che, più che ai David di Donatello, hanno fatto pensare ad X Factor. Tanti si sono sentiti in imbarazzo e lo hanno comunicato, per quanto possibile, che fosse a voce o con gli sguardi ed i movimenti del corpo. Questo è fattuale ed innegabile, perché è stato sotto gli occhi di tutti e perché non è stata questione di interpretazioni.

Che si trattasse di intervistare gli autori o di consegnare un premio, l’impressione netta è stata quella di star guardando persone capaci nel proprio lavoro ma lontane dal mondo del cinema, per cui si è caduti spesso in siparietti in cui gli stessi intervistati sono intervenuti per sottolineare come si fosse detta una cosa sbagliata, dettata evidentemente dall’ignoranza. Tutto questo sarebbe sì un problema, ma un qualcosa di perfettamente risolvibile se ce ne fosse la volontà. Nel momento in cui si dice a Giorgio Moroder che il David vale più del premio Oscar, ecco che cambia tutto, perché entra in gioco l’egocentrismo, la convinzione di essere più di ciò che si è e la mancanza di umiltà. Perché no, il David non è superiore al premio Oscar, né come cerimonia di premiazione – dove, banalmente, ad esibirsi sul palco sono coloro che vengono candidati per la miglior canzone, cosa che in Italia non avviene – né come riconoscimento.

Premi giusti ma occasione sprecata: al cinema italiano serve più coraggio

Come detto in precedenza, la cinquina candidata al miglior film è stata di assoluto livello: Io Capitano, C’è Ancora Domani, Il Sol dell’Avvenire, La Chimera e Rapito. Il meglio che il cinema italiano possa offrire ed opere dirette da autori importantissimi a livello nazionale ed internazionale. Paola Cortellesi non è però riuscita a fare en plein come si aspettavano in molti. Matteo Garrone si è rivelato il vero vincitore della serata, ma a sorprendere sono stati soprattutto i premi a Marco Bellocchio e Michele Riondino: dietro queste scelte sembra esserci un’idea estremamente vecchia e antiquata di cinema, per cui Rapito si aggiudica trucco, acconciatura, scenografia e costumi in quanto il film in costume è sempre stato visto come il migliore per queste categorie e lo stesso discorso lo si può applicare a Palazzina LAF, opera in cui le interpretazioni sono estremamente cariche e che, infatti, si porta a casa attore protagonista e non protagonista. I premi all’arte sono null’altro che un gioco e come tali vanno presi. Non c’è la volontà di attaccare opere o autori ma di riflettere su come certe scelte vengono prese e su un approccio che, come detto anche in precedenza, appare sempre più vecchio e svogliato.

A proposito di premi, è bene iniziare a rendersi conto che, per quanto film, regia, attori e sceneggiature siano considerate dai più come i premi più importanti, di premi secondari non ce ne sono. Questo è importante sottolinearlo perché veder assegnare i premi a scenografia, costumi, fotografia, montaggio, trucco, acconciatura ed effetti visivi fuori dalla sala principale ha fatto solamente una gran tristezza, come sottolineato in primis dal discorso di Sergio Ballo, che ha atteso la premiazione seduto di profilo su uno scalino e non al fianco di Marco Bellocchio e di tutti i colleghi con cui ha lavorato a Rapito su una poltrona nella sala principale che, col passare del tempo, si è sempre più svuotata. D’altronde in Italia, se ti annoi o non vieni premiato, ti senti in diritto di alzarti ed andare via. Inoltre, come sottolineato sempre da Ballo, il fatto che non vi fosse neanche un giusto numero di statuette per i premiati ha lasciato abbastanza a bocca aperta.

È poi interessante notare come, sia con lui che con altri premiati, si sia tentato più volte di tagliare corto il discorso “per questioni di tempo”, ma non ci sono stati problemi a spendere minuti e minuti per intervistare non i vincitori di altre categorie, ma i vari artisti invitati per consegnare i premi. Una passarella onestamente evitabile in una serata durata tre ore e mezzo. Prima si citavano i social: ecco, non farebbe male farsi un giro tra Facebook, Instagram, X e Tiktok per rendersi conto che questo è un pensiero collettivo, condiviso sia da addetti ai lavori che da semplici cinefili ed appassionati. Si può porre rimedio a tutto questo? Certo, ma a condizione che si abbia il coraggio di fare un passo indietro e di ricominciare, piano piano, a portare l’Italia dove gli compete ma dove attualmente non si trova.

Salvo rare eccezioni, l’Italia ha smarrito la capacità di raccontare la propria contemporaneità: oggi, per esempio, non saremmo in grado di realizzare un film come Civil War e le due personalità più importanti del nostro cinema (tolti i soliti noti) finiscono per ricevere lodi da ogni parte del globo tranne che dal loro stesso paese, ovvero Luca Guadagnino e Alice Rohrwacher. L’unico vero, sincero ed enorme attestato di stima che quest’ultima ha ricevuto ieri, lo ha ricevuto da Justine Triet, Palma d’oro a Cannes con Anatomia di un Caduta e presente a Roma per ritirare il David al miglior film internazionale. Se vogliamo tornare grandi, c’è bisogno di sradicare le erbacce, seminare tutti insieme, andando nella stessa direzione, per poter poi, finalmente, tornare a fiorire. Siamo già indietro di 10 anni rispetto agli altri, cerchiamo di non perdere altro tempo.