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Marco Bellocchio torna in concorso al Festival di Cannes (nel 2019 l’ultima volta, con Il Traditore) portando sullo schermo la vicenda di Edgardo Mortara, bambino sequestrato, o rapito – come da titolo – dallo stato pontificio alla famiglia ebraica il 23 giugno 1858, poiché ritenuto battezzato in Cristo. Il film si concentra su quanto avvenuto in seguito all’episodio, sino alla morte della madre di Mortara, ormai adulto. Di seguito, la trama e la recensione di Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio. 

La trama di Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes 76

Edgardo, a soli sei anni, è sottratto ai genitori a Bologna e trasferito a Roma presso la Casa dei Catecumeni, dove viene educato ai precetti del Cristianesimo, insieme ad altri bambini. Le voci si diffondono, fanno il giro del mondo, Papa Pio IX attira lo sdegno di capi di stato, dell’opinione pubblica e persino di diversi cristiani, ma non accetta di cedere il bambino. La famiglia non lo rivedrà per diverso tempo, salvo in rare occasioni. Passano gli anni e nasce il Regno d’Italia, il fratello stesso di Edgardo milita nell’esercito. Nel 1870, con la breccia in Porta Pia, Mortara ha l’occasione di fare ritorno a Bologna, ma rifiuta di riunirsi alla famiglia. Sarà ordinato sacerdote e tenterà di convertire la madre morente, senza successo.

Recensione di Rapito: il rapimento di un bambino ebreo a mano dello Stato Pontificio

A questo punto, si può considerare nel dettaglio la recensione di Rapito, di Marco Bellocchio. Fino al giorno dell’annuncio della line-up del Festival di Cannes, si parlava di questo film con il titolo provvisorio “La Conversione”; poi Thierry Fremaux annuncia “Rapito” in concorso. Viene da riflettere se si pensa a quanto sia significativo tale cambio. “La conversione” fa quasi pensare ad un procedimento lungo, volontario; il rapimento, per contro, è un’azione rapida, fulminea e premeditata. E fa bene Bellocchio a spostare il focus dello spettatore sulla non legittimità del gesto compiuto dallo stato pontificio, ritraendo da subito la Chiesa come una vera e propria associazione a delinquere, pronta a scelte illogiche, irrazionali, disumane. 

 

 

E all’inizio parte bene, la storia di Edgardo, che si nasconde a cominciare dalla prima sequenza (“tana libera tutti!” grida due volte nel film il bambino), si intrufola sotto il letto, sotto la gonna della madre (Barbara Ronchi), cercando di sfuggire a un destino già predeterminato. Attraverso i suoi giovani occhi lo spettatore si confronta con un punto di vista in cui fede e dolore sono inestricabili, interconnessi e incomprensibili. Vi sono diversi momenti in cui Mortara si interroga sulle sofferenze di un suo coetaneo morente, una scena in cui gli viene predicata l’importanza del martirio e, la più riuscita e nell’intero film, che lo vede rimuovere i chiodi dalle mani e dai piedi del Cristo crocifisso per liberarlo da quel dolore eterno e universalmente condiviso.

 

 

Ritroviamo la maestria di Bellocchio nei momenti grotteschi, quando vediamo le vignette dei giornali dell’epoca animarsi inaspettatamente o nello stile recitativo di Paolo Pierobon (qui davvero straordinario), quando sopra le righe, pieno di rabbia, con la bava alla bocca, non si capacita della perdita di consenso e della progressiva diminuzione del suo potere temporale. Il ritratto del Pontefice è dunque la rappresentazione di un vecchio capriccioso, intollerante, un consumato uomo di potere più che una guida spirituale. Si ride quando lo vediamo nel letto, subire una circoncisione coatta, assistendo al suo incubo. È una immagine potente quella del battesimo di Edgardo presso Pio IX, plasmata da una luce calda e avvolgente; Edgardo che siederà di lì a poco sulle ginocchia del papa stesso (ciò che poi è la locandina del film).

I limiti del film di Marco Bellocchio

Elencati questi punti si potrebbe pensare di essere di fronte a un’opera grandiosa, stilisticamente ineccepibile, struggente e metaforica. Purtroppo, così non è: Rapito è un film estremamente statico, che ad eccezione dei pregi sino ad ora elencati, non riesce a evolvere stilisticamente dal principio alla fine, ripetendosi sistematicamente nell’impostazione della messa in scena. Come se seguisse una formula rigorosa, Bellocchio inquadra i propri attori quasi esclusivamente in primissimi piani shallow focus (il volto a fuoco, tutto il resto fuori fuoco) alternandoli a un totale del profilmico in deep focus a camera fissa, per mostrare il contesto in cui avviene l’azione. La base del linguaggio classico, insomma. Non che chi scrive voglia far passare come un difetto il linguaggio filmico acquisito in decenni di Cinema, ma un settaggio così rigido, che nega sistematicamente, ad eccezione di poche sequenze, il movimento, porta chi guarda a sviluppare l’idea di confrontarsi con un testo povero di idee, finendo per rivelare la finzione.  

 

 

Un plauso va al giovanissimo Enea Sala (Mortara da bambino) che, sebbene facente parte di un cast di grandi attori, è qui secondo solo a Pierobon per bravura nell’interpretazione. Si parlava di grottesco pocanzi, ma Rapito, non è Il Traditore o Esterno Notte – per citare gli ultimi titoli – i cui personaggi (rispettivamente i membri di Cosa Nostra e della classe politica italiana anni Settanta) erano maschere. Qui solo alcuni lo sono, altri no. Perché? Sebbene il Maestro Bellocchio si trovi bene nel lavorare con i suoi attori di fiducia (Alesi, Pierobon, Ronchi, Cariello, Timi) ciò non giustifica la mancata direzione degli stessi, come se potessero procedere autonomamente; Gifuni qui è ancora l’Aldo Moro di Esterno notte, però indossa una tonaca e porta la tonsura monacale (l’effetto risulta involontariamente ridicolo).

È buona la ricostruzione scenografica, ma i personaggi vi si muovono in modo eccessivamente lento e composto, senza dare l’idea di essere a proprio agio nell’ambiente che abitano, nei luoghi in cui vivono. C’è un eccesso di pulizia in un film che racconta la fase più movimentata del diciannovesimo secolo italiano. Non riesco a credere in ciò che vedo poiché troppo ricostruito; non riesco a sentire la foga dei tumulti dei soldati del regno perché ripresi sempre da lontano, corrono scomposti, in costumi di scena “troppo perfetti” per essere le uniformi dei combattenti. Il processo rappresentato nella seconda parte, infine, porta con sé un didascalismo innecessario meramente didattico: “questo processo passerà alla Storia!” sentenzia l’avvocato di Salomone Mortara a quest’ultimo (Fausto Russo Alesi), e a noi spettatori. Vi è poi una rinuncia da parte del montaggio nel tagliare tutte quelle ripetizioni legate alla ritualità della preghiera, che data la storia trattata è sì necessario mostrare, ma non con tale ossessività.


Al netto di critiche positive o negative, l’ultima opera di Bellocchio si inserisce perfettamente nella filmografia del grande Maestro italiano; i temi con cui si è spesso confrontato ritornano: la rabbia giovanile, la nevrosi, la volontà di sondare tanto la famiglia come istituzione quanto gli uomini di potere. Rapito ha senza dubbio il merito di fare luce su una vicenda poco conosciuta ai più, ma non può fare a meno di lasciare deluso chi, come chi scrive, entusiasta dell’ultima fase bellocchiana, sperava di trovarsi di fronte a un grande film.

Voto:
3/5
Andrea Barone
4.5/5
Matteo Pelli
4.5/5
Christian D'Avanzo
4.5/5
Gabriele Maccauro
3/5
Alessio Minorenti
3/5
Vittorio Pigini
4/5

Una risposta

  1. Perchè sempre così incompleti nel narrare vicende storiche? con l’arma del racconto cinematografico non si possono fare certi errori. I maestri non fanno errori di incompletezza storica nelle narrazioni….sembra quasi si voglia far vedere quello che non è…..dunque è un punto di vista personale.

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