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“Viaggio in Italia”: il manifesto del cinema moderno

La recensione di Viaggio in Italia, con Ingrid Bergman

Nella nostra rubrica de #IClassici, volta alla scoperta dei pilastri della storia del cinema, non può assolutamente mancare quello che viene considerato come il manifesto del cinema moderno: “Viaggio in Italia” diretto da Roberto Rossellini, risalente al 1954. Il grande successo di uno dei primissimi film che sancirono la nascita del neorealismo, “Roma città aperta” (1945), avevo procurato una certa fama al regista romano tanto che, una diva hollywoodiana quale Ingrid Bergman, gli propose di lavorare con lui. Rossellini la fece venire in Europa, s’innamorò, la sposò, ma fece a pezzi spietatamente la diva, la privò di tutti i suoi trucchi ed effetti speciali per ritrovare sotto di essi la donna vera ed autentica, spazzando via in un attimo lo star system. Questo è il primo punto di rottura con il cinema classico americano, ma sarà la nuova maniera di raccontare e di osservare a rendere “Viaggio in Italia” il manifesto del cinema moderno.

 

 

Terza opera della coppia Rossellini-Bergman, dopo “Stromboli (1949) ed “Europa ’51” (1951), “Viaggio in Italia” riassume e perfeziona il lavoro di Rossellini, la sua ricerca dell’umanità e della femminilità autentica, al di sotto della patina divistica creata da Hollywood, e anche sul confronto fra il mondo moderno, industriale, ricco ma spiritualmente arido e morto, con quello arcaico, mediterraneo, povero, ma pieno di umanità e di spiritualità. Due coniugi inglesi, Alex (George Sanders) e Katherine Joyce (Ingrid Bergman), vicini a separarsi perché il loro matrimonio è fallito, vengono in Italia, ricchi, orgogliosi e sicuri, ed il confuso, immenso mondo napoletano, traboccante di povera gente, affannata, miserabile, ma piena di coraggio e di amore, sconvolge tutte le loro certezze. Anche la straordinaria ricchezza culturale del mondo mediterraneo finirà per sconvolgerli, con le sue radici che attraversano i secoli. Li sembra che gli dei della Grecia siano ancora vivi e presenti, che Apollo, Enea, Ercole e gli eroi del mondo antico abitino ancora quelle terre. I vivi e i morti, gli antichi e i moderni respirano ancora uno accanto all’altro. Come indica anche il nome dei due protagonisti, il film contiene an-che un importante riferimento letterario: il famoso racconto dello scrittore irlandese James Joyce: “I morti”, in cui il protagonista Gabriel, al termine di una lunga notte di festa, scopre quanta importanza abbiano proprio i morti nella vita di ciascuno di noi. Come Gabriel, anche Alex e Katherine si rendono conto della grandezza e dell’immensità del passato.

 

 

Il film sconvolge anche i modelli narrativi: è quasi un documentario, una visita guidata ai tesori della cultura mediterranea. In particolare la visita di Katherine al Museo Nazionale di Napoli, con le grandi statue greche, il fauno ubriaco, le danzatrici misteriose che sembrano guardarci dall’eternità, e il maestoso Ercole Farnese che osserva il mondo appoggiato alla clava, sconvolgono con la furia dei secoli la protagonista e con lei anche lo spettatore. Non a caso la cinepresa sapientemente inquadra il fauno addormentato e la nostra protagonista che l’osserva stupita, e successivamente si posa sul corridore antico con cui Katherine sembra instaurare un dialogo muto che attraversa i secoli. Infine non si può evitare di citare tutta la possanza della statua di Ercole che sembra guardare direttamente la protagonista, piccolissima, inerme, ricambia lo sguardo dal basso. Il tutto ripreso da dietro, in una lontananza non eccessiva, oserei dire perfettamente bilanciata, tanto per lasciarci guardare entrambi. Ecco quindi che lo sguardo della cinepresa rosselliniana gioca con lo spettatore in un atto riflessivo quanto liturgico, tra soggettive ed oggettive di cui abbiamo appena fatto qualche esempio. Le scenografie non possono essere da meno, in quanto hanno funzionalità tra il descrittivo e l’evocativo: la solfatara di Pozzuoli, l’antro della sibilla Cumana, il tempio di Apollo, e soprattutto Pompei, con i corpi carbonizzati dei due amanti che riemergono dalla cenere di duemila anni prima ancora abbracciati, il più grande monito alla brevità della vita e alla pochezza dell’uomo di fronte allo scorrere dei millenni, ma allo stesso tempo se ci dotiamo dello sguardo della protagonista, penseremo a quanto può essere grande l’amore e quanto stia soffrendo essa stessa la rottura con il marito. La cinepresa quindi segue sempre da vicino Katherine, guarda le statue, le persone, i paesaggi con gli occhi della straniera, in una continua mescolanza di oggettività e soggettività, al servizio di una narrazione documentaristica (oggettività) ma indissolubilmente legata a chi guarda, ossia il personaggio della Bergman (soggettività).

 

 

Rossellini ci conduce verso un percorso nuovo, siamo noi spettatori a costruire il senso del film. Non ci viene detto niente, non abbiamo certezze, ma siamo invitati solamente a guardare, insieme con la protagonista, una Ingrid Bergman completamente distrutta e rinnovata pronta ormai a ricevere la grazia e la capacità di vedere il mondo. Infatti, gettata dentro un mondo che non conosce, la protagonista cambia e capisce, o impara a vedere per la prima volta tante cose, e il cinema impara con lei a guardare. Sarà infatti la mescolanza fra narrazione e documentario, fra visione di luoghi e racconti di storie la parte veramente nuova del cinema, fino ai giorni nostri: la storia consisterà d’ora in poi in un rapporto fra personaggio e ambiente, fra personaggio e paesaggio. Ed anche per i coniugi Joyce il paesaggio sarà fondamentale per prendere consapevolezza di sé, salvando così il loro matrimonio. Dopo che più volte i bambini vengono inquadrati teneramente, il finale è evocativo al massimo in tal senso, perché per la coppia, il segreto sta proprio nella voglia di avere un figlio. Questo film, come i precedenti del regista romano, suscitarono anche una vasta polemica, poiché la critica italiana li condannava come tradimenti del neorealismo e dell’impegno politico. D’altra parte invece, la critica francese si accorse della grande novità, tanto che Bazin e i suoi allievi (Truffaut, Rivette, Rohmer, Godard) scrissero parole forti per difenderlo. Tutti ammiravano il profondo senso di umanità, il coraggio rosselliniano di mostrare una diva che piange, con la goccia al naso, spettinata e sporca, o un paesaggio così nuovo, o una narrazione così descrittiva e documentaria in cui il mondo è autentico protagonista. Capolavoro eterno, “Viaggio in Italia” rappresenta un vero e proprio rinnovamento per il linguaggio cinematografico.