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Recensione – Kursk, il Dramma storico di Thomas Vinterberg

Kursk, del Maestro danese Thomas Vinterberg, è un film del 2018, presentato alla tredicesima Festa del Cinema di Roma e giunto nelle sale italiane con un colpevole ritardo di quasi cinque anni. Di produzione belga/franco/lussemburghese, Kursk vanta un cast corale internazionale, composto da alcuni dei migliori attori europei: dai protagonisti Matthias Schoenaerts e Lea Seydoux (richiestissimi dai grandi autori di tutto il mondo), sino a Colin Firth e a leggende del calibro di Max Von Sydow, qui al suo penultimo ruolo. 

Si procede riportando la trama del film.

La trama di Kursk, scritto da Robert Rodat e diretto da Thomas Vinterberg

Il film comincia nell’acqua. Misha, il bambino di Mikhail (Schoenaerts) e Tanya (Seydoux), immerso nella vasca da bagno, sfida sé stesso in una gara di apnea, fissando la lancetta dei secondi sull’orologio del padre. Mikhail presta servizio nella Marina Militare russa e, prima di ripartire a bordo del sottomarino K-141 Kursk, partecipa al matrimonio del suo amico e commilitone Pavel – in quello che è un omaggio all’incipit de Il Cacciatore di Michael Cimino. Questo inizio di finzione introduce i personaggi che saranno i protagonisti della vicenda tragica dell’affondamento del sottomarino di cui sopra, durante un’esercitazione militare. Una ventina di uomini, sotto il comando di Mikhail, sopravviverà in un primo momento all’incidente, e attenderà, invano, i soccorsi russi ed esteri per diversi giorni.

La Recensione di Kursk, un dramma sulla tragedia evitabile che ha sconvolto la Russia nel 2000

La sceneggiatura di Kursk, scritta da Robert Rodat, prende le mosse dal libro A time to die, di Robert Moore, uscito in Italia con il titolo Kursk – La storia nascosta di una tragedia, edito da Bur. È bene specificare ciò poiché non è difficile trovare varie teorie che riguardano l’affondamento del sottomarino russo. Quello che è certo, e rappresenta una parte importante del dramma in questione, è l’ostinata negazione da parte del governo di Mosca, a procedere accettando le proposte di aiuti esteri, compiendo tentativi di salvataggio con mezzi difettosi, i pochi rimasti alla Marina dopo averne venduti buona parte. Nel momento in cui si darà il via libera agli inglesi non vi sarà più alcun marinaio da soccorrere.

 

Ma Kursk non è solamente un dramma storico; è sicuramente ascrivibile anche al genere del survival movie. Il fatto che quanto vediamo sullo schermo sia realmente avvenuto conferisce un peso e un’adesione maggiore agli eventi trasposti. Lo spettatore, che sapesse o no a priori l’esito degli avvenimenti che è qui chiamato a testimoniare, non può fare a meno di appassionarsi e sperare, sentendosi fisicamente intrappolato con i sommergibilisti. La sequenza in apnea con protagonista Mikhail e un altro superstite mozza il fiato alla pari di quella in Mission: Impossible – Rogue Nation, uno dei tanti stunt da record di Tom Cruise. Il freddo che gela i corpi dell’equipaggio, il buio che oscura il loro sguardo e piano piano li trascina verso la fine, sono i connotati dell’immagine che caratterizzano questa esperienza cinematografica, che diviene estenuante con lo scorrere dei minuti, minuti che sono ore preziose per gli uomini del Kursk e per coloro i quali tentano di metterli in salvo.

La tragedia è inscenata tramite una dialettica di interno/esterno e sopra/sotto il livello del mare. Le decisioni dissennate del Cremlino, la burocrazia che impone la stasi (per non subire un’umiliazione o il rischio che altri paesi mettano le mani su segreti militari) quando sarebbe necessario un rapido intervento, suscitano l’indignazione dei familiari delle vittime, cui il personaggio emblematico è la Tanya della bravissima Léa Seydoux, una madre forte, che ha il coraggio di alzarsi e protestare in mezzo alla folla, davanti agli ufficiali, incitare una platea di cittadini abituati al silenzio, a subire gli ordini dall’alto.


Il film ha una struttura circolare: si apre e si chiude con una cerimonia, un matrimonio e un funerale, sequenze mostrate sullo schermo a 1.85, che diventa un 2.35 nel momento in cui il sottomarino si inabissa per cominciare l’esercitazione e torna al formato di partenza nella scena del ritrovamento dei cadaveri. Vinterberg sembra comunicare allo spettatore, tramite questa scelta semplice ma efficace, che la missione, l’affondamento e la mancata riuscita del salvataggio di Mikhail e dei suoi compagni, ma più in generale la tragedia con tutto ciò che comporta, abbia un’importanza universalmente riconosciuta, una visibilità e un’attenzione maggiore rispetto al dolore che resta a quei pochi che sono parte in causa, conoscenti, parenti e amici stretti, presto dimenticati e lasciati ai loro destini, fuori dai confini di un’inquadratura.


Kursk si chiude con una scena malinconica: un uomo della Marina consegna al piccolo Misha l’orologio del padre, che aveva venduto per contribuire alle spese del matrimonio dell’amico. Questo attestato di stima, forse una citazione a Pulp Fiction, questo oggetto, è appunto il simbolo di un legame di sangue spezzato da una disgrazia, un’eredità che può forse rendere indelebile il ricordo di un genitore scomparso prematuramente. Il bambino osserva il mare in lontananza durante i giorni di attesa e speranza e il padre scrive una lettera alla moglie e al figlio, con le ultime forze prima della fine: l’acqua gelida del Mare di Barents consegna le parole e le volontà della vittima ai propri cari. Loro sono la sua eternità.

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