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I migliori film in bianco e nero della storia del cinema

Il bianco e nero è stato uno degli elementi distintivi più importanti di sempre nella storia del cinema: ma quali sono i migliori film in bianco e nero di sempre da ricordare assolutamente?
I migliori film in bianco e nero della storia del cinema

Il bianco e nero è stato, in un primo momento per necessità strutturale, poi per bisogno estetico di numerosi registi, il motore della storia del cinema, nonché l’espressione tecnica maggiormente utilizzata dal punto di vista prettamente statistico. Per questo motivo, scegliere quali siano i migliori film in bianco e nero della storia del cinema vuol dire – di fatto – scegliere anche alcuni capolavori della storia della settima arte; tuttavia, con uno sguardo rivolto anche all’oggi e ad alcuni lavori attuali e degli ultimi anni, si vuole indicare una sorta di macroarea storica. La redazione si è impegnata, dunque, in una selezione individuale di alcuni dei film migliori di sempre in bianco e nero, partendo da primi capolavori della storia del cinema e fino a giungere a lungometraggi incredibile del presente. Il tutto, ovviamente, nel segno del B/N.

Ombre rosse (John Ford)

Tra i maggiori rappresentati di tutto il genere western, titolo originale Stagecoach, mediante il viaggio di una diligenza, John Ford mette in scena lo spaccato della società americana, caratterizzata da contraddizioni ed ipocrisie, non rinunciando a criticare velatamente le istituzioni del governo federale, in una terra dove regna ancora la legge del taglione e della vendetta privata. La sequenza finale dell’assalto dei nativi è storia del cinema, punto imprescindibile di riferimento per tutte le successive realizzazioni di inseguimenti automobilistici del cinema post-moderno, grazie alla sua spettacolarità tecnica e visiva; inoltre è la pellicola che consacra John Wayne nello star system hollywoodiano.

L’uomo invisibile (James Whale)

Un uomo con un lungo cappotto e degli occhiali da sole entra in una locanda, ha bisogno di non essere ritrovato. Deve ritrovare se stesso, o meglio la sua immagine. Si perché Jack Griffin è diventato invisibile, e sta sprofondando nell’oblio più totale. Nel 1933 James Whale firma il più attuale dei mostri universal, nonché forse il più terrificante. La paura incarnata da Claude Rains è quella della minaccia invisibile, del potere occulto e della perdità del proprio io. Una scienza fuori controllo che da esperimento diventa vera e propria arma. Attuale anche nel montaggio, con sequenze che si distinguono dalla media dei prodotti dell’epoca. Non ci sono validi motivi per non riscoprire l’uomo invisibile, anche come culmine sublime della carriera di uno dei registi più sottovalutati della prima Hollywood. James Whale era un genio, folle forse, ma pur sempre un genio.

M – Il Mostro di Düsseldorf (Fritz Lang)

“M – Il Mostro di Düsseldorf” è un film tedesco diretto da Fritz Lang e co-scirtto dallo stesso cineasta austriaco naturalizzato statunitense con la sua compagna l’attrice e sceneggiatrice Thea von Harbou. Il lungometraggio del 1931 racconta del serial killer Hans Beckert (Peter Lorre) e della profonda caccia al mostro da parte della polizia e della malavita di una città tedesca terrorizzata da un uomo che ha adescato e ucciso otto bambine. Nonostante il film sia ambientato a Berlino per il titolo si è optato, invece, per Düsseldorf, per via del famoso fatto di cronaca avvenuto realmente nel 1925. “M – Il Mostro di Düsseldorf” è considerato uno dei capolavori dell’espressionismo tedesco, primo esempio del dramma procedurale, ma anche il prototipo del genere noir, presentando molte innovazioni narrative e tecniche: dall’utilizzo della componente musicale e di un leitmotiv che pervade l’intera storia alle lunghe carrellate che hanno ispirato i futuri registi ed autori. Tra il profondo simbolismo e l’interessante aspetto più documentaristico, Fritz Lang, dopo l’altrettanto meraviglioso “Metropolis” (1927), realizza un altro capolavoro ed uno dei più grandi film della storia, di cui è stato ottenuto anche un remake da parte di Joseph Losey nel 1951.

Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Stanley Kubrick)

Nel 1964 veniva distribuito al cinema uno dei film più importanti di sempre a proposito del tema della guerra, che viene qui ridotto ad una serie di atteggiamenti parodici e grotteschi, con cui si schernisce l’uomo dietro l’ordigno e si perpetua – per mezzo di numerosi riferimenti sessuali ed erotici – il fine di ridicolizzare l’intera storia dell’umanità che dà vita alle guerre per l’evidente passività rispetto agli impulsi. Tratto dal romanzo Il dottor Stranamore, il film di Stanley Kubrick è considerato a ragione uno dei film satirici più belli di tutti i tempi, con il quale si riesce a fornire uno sfondo particolarmente lucido del contesto della guerra fredda, della deterrenza tra i blocchi contrapposti e del bipolarismo globale, che potrebbe essere improvvisamente spezzato da un errore elementare, quasi infantile, dell’uomo.

Dalla scena iniziale dei velivoli che sembrano quasi accoppiarsi fino alla celebre rappresentazione del braccio teso trattenuto a fatica di Peter Sellers (che interpreta tre ruoli nel film), Il dottor Stranamore regala un saggio sulla repressione umana e su quei bisogni quasi intestini che avvicinano alla natura animale. Prima di capolavori come 2001: Odissea nello spazio, Arancia meccanica e Barry Lyndon, Stanley Kubrick ha regalato alla storia del cinema un film intramontabile con un bianco e nero perfetto, che costituisce quasi il marchio di fabbrica della storia socioculturale della guerra fredda.

Au Hasard Balthazar (Robert Bresson)

Quando si parla di film in bianco e nero, la rappresentazione delle emozioni e il processo di empatizzazione, non passando per il canale della scelta dei colori impiegati, ricadono su tutt’altro tipo di aspetti. Il caso lampante è il capolavoro del 1966 Au Hasard Balthazar del regista francese Robert Bresson, presentato alla 27esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del Gran Premio della Giuria. L’intramontabile e spaventosa attualità del film, confermata dal remake EO del regista polacco Jerzy Skolimowski dopo ben 56 anni, sta nel raccontare la storia dell’umanità vista dal punto di vista di un asino, Balthazar, più umano degli esseri umani, costretto da creatura di estrema innocenza a conoscere e a fare esperienza del male.

Balthazar si ritrova dunque a subire ogni tipo di atrocità inflitta dall’uomo, condividendo il medesimo destino della sua prima padrona Marie, da cui è stato dolorosamente separato. Au Hasard Balthazar rappresenta senza filtri l’ostinata volontà di accettazione del dolore, inteso come il male che quotidianamente viene somministrato nel mondo dall’uomo, facendo del bianco e nero non solo gli unici “colori” della pellicola, ma anche i soli accettabili per la rappresentazione della tragicità vissuta dai suoi protagonisti.

A qualcuno piace caldo (Billy Wilder)

Uno dei migliori film in bianco e nero non può che essere un classico immortale diretto da Billy Willder: A qualcuno piace caldo. Gli elementi straordinari dell’opera sono davvero tantissimi, ma in particolar modo ci preme sottolineare come il noto cineasta fosse sempre avanti coi tempi, sia da un punto di vista cinematografico che nella trattazione delle tematiche. Il film comincia come un gangster movie, ma poi prende vita la commedia con la comicità dettata dagli equivoci, lasciando però spazio ad un velo di malinconia. 

Come suggerisce il titolo, A qualcuno piace caldo si riferisce ad un genere musicale in particolare, ossia il jazz, giocando con l’ambiguità etimologica e tratteggiandone i connotati anche in termini narrativi. Infatti, c’è una travolgente anarchia ad avvolgere la storia, ed è incredibile pensare che il film in un certo senso è già postmoderno: i generi vengono mescolati, ed il ritmo con cui vengono raccontati gli avvenimenti è forsennato, incalzante, proprio come il jazz. Ovviamente c’è spazio per il blues, e per la malinconia a cui si è accennato, veicolato attraverso l’iconico personaggio interpretato da Marilyn Monroe (la sua migliore performance in carriera), Sugar (Zucchero). Il finale, ma in particolar modo l’ultima battuta, è profetico per l’oggi e lascia intendere un’apertura mentale che per l’epoca sembrava impensabile. D’altronde, il duo formato dagli attori Jack Lemmon e Tony Curtis dimostra quanto potesse risultare duro essere donne, e le risate scaturite sono poi seguite da una riflessione profonda ed esistenziale, esaltando il concetto di umorismo pirandelliano proprio attraverso due mascheroni.

Otto e mezzo (Federico Fellini) 

In una lista dei migliori film in bianco e nero di sempre, nella storia del cinema, non si può fare a meno di inserire quello che è – probabilmente – uno dei capolavori più immortali e importanti della storia del cinema italiano. Il bianco e nero di Otto e mezzo restituisce quell’inquietudine, quella repressione e quel senso di costrizione che il film racconta attraverso alcune delle sue scene più memorabili: dal sogno alle immagini distorte, passando per quella straordinaria scena finale che ormai è diventata un segno distintivo del nostro cinema. A partire da quel clima di sospensione che lo stesso regista Federico Fellini prova, accontentandosi di un titolo provvisorio come Otto e mezzo per la sua pellicola, tutto nel film sembra funzionare anche e soprattutto dal punto di vista estetico: basti pensare, ad esempio, alle scene sovraesposte e con eccessiva illuminazione, ottenute direttamente lavorando sui positivi in fase di stampa; ciò restituisce quel segno abbacinante, quasi onirico, che Federico Fellini ha voluto comunicare tramite un perfetto bianco e nero.

Il settimo sigillo (Ingmar Bergman)

Il settimo sigillo di Ingmar Bergman è un film per il quale il bianco e nero risalta come elemento essenziale. Il regista svedese infatti esalta i contrasti dell’animo umano, le contraddittorie credenze religiose e le atrocità umane facendo ricorso a una ricca gamma di sfumature. Molto spesso un evento funesto è previsto da un nero pece, mentre la speranza irrompe sullo schermo accompagnata da un bianco poderoso. Certo è che per il tenore della storia e il tormento dei personaggi dei personaggi è il nero a risaltare più forte. Il bianco e nero è inoltre utilizzato in modo geniale in quanto profondamente connesso al personaggio più famoso di questa leggendaria pellicola: senza ricorrere a elaborati stratagemmi, Bergman offre una incredibile rappresentazione della morte come un uomo completamente ricoperto di nero, il cui unico bianco si manifesta attraverso i lugubri lineamenti del volto. Questa combinazione cromatica è intrinsecamente connessa, al gioco degli scacchi, nel quale la sfida è prima di tutto tra due diversi colori. Queste sono solo alcune delle ragioni per cui Il settimo sigillo è uno dei più grandi film in bianco e nero di sempre, nonché una delle più significative opere d’arte dello scorso secolo.

Following (Christopher Nolan)

Nel 1998 il cineasta britannico Christopher Nolan, dopo alcuni cortometraggi, realizza il suo film d’esordio dietro la macchina da presa: “Following”, un thriller con sfumature noir che racconta di un aspirante giovane scrittore in difficoltà economiche, interpretato da Jeremy Theobald, che si imbatte in uomo misterioso, Cobb (Alex Haw), il quale gli rivela di essere un ladro e tenta di trascinarlo nel mondo criminale. Questo primo lungometraggio firmato da Christopher Nolan presenta un’insolita e bizzarra struttura, tutto scorre in maniera non lineare ponendo le basi del futuro linguaggio utilizzato dal regista lungo tutta la sua filmografia. Una pellicola realizzata a tutto tondo dall’autore inglese, infatti, oltre alla regia, Nolan ha scritto, prodotto, co-montato e si è occupato pure della direzione della fotografia, prediligendo luce naturale per via del basso budget. Grazie ai successivi grandi successi ottenuti con la trilogia de “Il Cavaliere Oscuro”, le prime nomination e le vittorie tra festival e premiazioni cinematografiche, “Following” ha debuttato nel 2023, dopo diversi anni rispetto all’uscita ufficiale oltreoceano, anche nelle sale italiane.

The Lighthouse (Robert Eggers)

Secondo film scritto e diretto dal regista, che vede in The Witch il suo eccezionale esordio cinematografico, The Lighthouse resta una delle perle più abbaglianti degli ultimi anni. La trama del film sarebbe ridotta all’osso, ambientata alla fine dell’800 e che vede due guardiani del faro costretti a rimanere bloccati su un’isola del New England. L’isolamento, l’alcol e le leggende popolari inizieranno a distorcere corpo e mente dei due protagonisti, interpretati in modo a dir poco sublime da Willem Dafoe e Robert Pattinson. Attingendo da un grande bagaglio letterario, specialmente per quanto riguarda i miti classici, Robert Eggers continua a scandagliare gli effetti del leggendario folklore e della superstizione nella mente dei suoi protagonisti, inscenando un vortice di follia dai confini mai delimitati.

Oltre al simbolismo, alla profondità tematica e alle strabilianti prove dei suoi protagonisti, The Lighthouse gode di un’impostazione visiva – racchiusa nel claustrofobico formato – potentissima e sensazionale. Richiamando esplicitamente il grande cinema espressionista soprattutto degli anni ’20 ed omaggiando grandi esempi di arte pittorica, la fotografia in bianco e nero di Jarin Blaschke (The Witch, The Northman) è forse la vera arma vincente del film, tanto da essere anche candidata al premio Oscar.

Ed Wood (Tim Burton)

Il biopic su quello che è stato considerato, per lungo tempo, il peggior regista di sempre, è un inno all’importanza di avere creare anche nelle peggiori condizioni. Tim Burton, rivoluzionando il modo di vedere i cineasti, pone parallelismi tra Ed Wood e Orson Welles, dimostrando che qualsiasi regista, anche con mezzi e intenti completamente diversi, pone lo stesso identico amore per le opere che cerca di realizzare, a prescindere dal risultato finale. Infatti le lotte di Ed Wood per produrre i suoi film si affiancano alla ricerca della diversità, con persone transgender ed omosessuali che provano a vivere in una società che li ripudia, come Ed Wood lotta per realizzare del cinema che ormai è dimenticato. La fotografia in bianco e nero non è solo un omaggio ai film che lo stesso Ed Wood girava, ma serve a realizzare un’atmosfera cupa e grottesca nella quale, tuttavia, i personaggi riescono maggiormente a distinguersi nella loro luce in mezzo ad un’oscurità inquietante. In assoluto uno dei più grandi capolavori che Tim Burton abbia mai realizzato.

The Addiction (Abel Ferrara)

Nel 1995, al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, Abel Ferrara presenta in concorso il suo nuovo film. Il regista nato a New York da genitori immigrati italiani si era già messo in mostra a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 con opere originali e sconvolgenti come The Driller Killer e L’angelo della Vendetta ma, con l’avvento degli anni ’90, si era definitivamente consacrato come uno dei maggiori autori del cinema statunitense con due capolavori del calibro di King of New York e, soprattutto, Il Cattivo Tenente. Alla 45esima Berlinale trionferà L’esca di Bertrand Tavernier e, grazie a Prima dell’Alba, nascerà la stella di Richard Linklater, ma uno dei titoli più importanti dell’edizione e che ruberà la scena, sarà proprio quello di Ferrara, ovvero The Addiction.

Attraverso la metafora del vampirismo, The Addiction tratta il tema della dipendenza da eroina e lo fa con uno stile a dir poco unico, con un Christopher Walken da antologia – qui alla seconda collaborazione con il regista – e con una clamorosa Lili Taylor in quello che è, senza troppi dubbi, il miglior ruolo della carriera. The Addiction è un film originale nel più puro senso della parola, un film che racconta uno dei più grandi mali degli Stati Uniti e di una città, New York, che Abel Ferrara ha vissuto da vicino e conosce benissimo. Il suo bianco e nero poi, così acceso e marcato, così sporco e respingente, non è altro se non la ciliegina sulla torta di quello che è senz’altro uno dei più grandi capolavori del suo decennio.