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Pinocchio al Cinema: Matteo Garrone (2019)

E siamo giunti al termine di questa breve ma intensa rubrica sulle trasposizioni cinematografiche dedicate a Pinocchio! Sperando di avervi allietato in nostra compagnia, sicuramente non mancheranno in futuro altri appuntamenti analoghi.

L’ultima opera basata sul romanzo di Carlo Collodi, è diretta da Matteo Garrone, il regista italiano che più ha saputo affermarsi in campo internazionale, affiancato da Paolo Sorrentino. Il suo Pinocchio, uscito nelle sale cinematografiche italiane nel 2019 ed in quelle statunitensi nel 2020, è riuscito ad accaparrarsi ben due nomination alla 93ª edizione degli Oscar per i migliori costumi ed il miglior trucco, per poi essere battuto in tali categorie dal modesto Ma Rainey’s Black Bottom. In ambito nazionale, invece, è stato maggiormente fortunato con 15 candidature ai David di Donatello con 5 vittorie. Di seguito il cast formato da: Roberto Benigni che veste i panni di Geppetto, creatore e inaspettatamente padre di Pinocchio, interpretato da Federico Ielapi. Gigi Proietti è Mangiafuoco, mentre Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini (che ha lavorato anche alla sceneggiatura) interpretano rispettivamente il Gatto e la Volpe. Marine Vacth è Fata Turchina da adulta, interpretata in versione bambina da Alida Baldari Calabria.

Il ricco cast continua con Alessio Di Domenicantonio, nei panni di Lucignolo; Maria Pia Timo nel ruolo di Lumaca; Davide Marotta è il Grillo Parlante; Paolo Graziosi interpreta Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il direttore del circo; Gianfranco Gallo nel ruolo di Civetta; Marcello Fonte è Pappagallo; Nino Scardina interpreta Omino di burro; Maurizio Lombardi è Tonno.

Potremmo dire di star terminando con la più ambiziosa delle versioni per messa in scena e per attenzione rigorosa e filologica al testo originario. Cronologicamente arriva dopo Un Burattino di Nome Pinocchio (1972) e la trasposizione di Roberto Benigni (2002), Garrone da co-produttore decide di riprendere l’intento del primo ma con atmosfere più grigie e meno per bambini, e del secondo il valore attoriale che purtroppo all’epoca fu depotenziato per una scelta sbagliata di casting. Benigni, infatti, torna dopo 17 anni dal suo Pinocchio e si trova decisamente a suo agio nei panni di un Geppetto stanco e affamato, intento nel muoversi guidato solo da cecità e amore incondizionato tra le splendide scenografie della Toscana. Ma la potenza del film viene mossa dalla filmografia del regista in questione, poiché trattasi di un adattamento fedelissimo quello di Garrone alla fiaba. Ad attrarre è soprattutto la natura dichiaratamente artigianale, in un cinema dove si sente la materia evidenziata nella messa in scena da un formidabile trucco prostetico (solo quando necessario è stato corretto in digitale) e degli eleganti costumi curati da Massimo Cantini Parrini, pronti a dare vita sia a sogni che ad incubi, ricche di creature inquietanti e magiche. Il regista italiano ripropone il fantasy, dopo Il racconto dei racconti, con il cielo plumbeo che sembra arrivare da Dogman. I due film sono infatti accomunati dallo stesso direttore della fotografia, Nikolaj Brüel. Probabilmente elemento di discussione in quanto limite o pregio, l’eccessivo mondo grigiastro che inchioda a una dimensione di miseria e squallore anche quando dovrebbe prevalere la meraviglia, potrebbe essere visto da alcuni come intuizione geniale e da altri come un approccio melenso e iperrealista ad una fiaba (quasi horror, anche per il gioco di ombre, la trasformazione dei bambini in asinelli). Ad essere invece squisitamente equilibrata è la recitazione e l’umanizzazione degli attori, perché la cura minuziosa nel ricreare la fisionomia e le caratterizzazioni fiabesche vengono bilanciate dalla sobrietà dei volti, ed in tal senso sono ammirevoli sia Benigni che il duo Ceccherini-Papaleo per essersi (questa volta) contenuti in modo raffinato. Angelico il volto della Marine Vacht che però è anche figura seducente e manipolatrice, resa inquietante dal suo “doppio” formato con la giovane Alida Baldari Calabria. Un plauso va fatto anche al lavoro sotto l’abbondante trucco del volto di Pinocchio, interpretato da un bravissimo Federico Ielapi.

L’intento non è però così chiaro come potrebbe sembrare. I limiti del Pinocchio di Garrone risiedono al momento in cui bisogna guardare al romanzo da cui trae il soggetto, come un libro di formazione e trasformazione, e se per la seconda abbiamo evidenziato come la messa in quadro sia convincente, dobbiamo fare un passo indietro per la prima. Non bisogna dimenticare che l’obiettivo primario è quello pedagogico (centrato per lo più da Un Burattino di Nome Pinocchio). Satirica e a tratti crudele, la storia narra le vicissitudini, le fughe e le ripartenze di Pinocchio come i tentativi di ogni ragazzino di trovare la strada maestra verso l’età adulta. Garrone, comprimendo numerosi passaggi del romanzo, finisce per affievolire questo processo, difficile da cogliere nella sua complessità e anche nella sua tragicità. Nonostante il profondo rispetto per il romanzo, la sceneggiatura sacrifica per forza di cose il fluire del tempo: sulle pagine antiche, le avventure di Pinocchio durano anni e il ritrovarsi con Geppetto nella pancia del pescecane avviene dopo molto tempo, mentre qui è difficile cogliere il lungo peregrinare del burattino fra cadute e tentativi di risollevarsi. Le famose dis(avventure) di cui in questa sede abbiamo più volte parlato nel corso della rubrica. Forse il regista si perde troppo nella ricerca di una moralità di difficile impiego per un racconto di questo tipo, non riuscendo nel tentativo di “italianizzarlo” e di modernizzarlo allo stato puro, ossia nell’inserirlo in un contesto in cui semplicemente si potevano cogliere riferimenti alla politica nostrana odierna. Resta allora il tutto a metà strada. Ciò nonostante, stiamo parlando comunque di una gran bella trasposizione che rappresenta una gioia soprattutto per gli occhi.