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La zona d’interesse : l’analisi del film di Glazer

Uscita nelle sale italiane la pellicola di Glazer ha destato sin da subito l’interesse di molti cinefili. Il film infatti potrebbe nascondere una riflessione molto più ampia di quella che si potrebbe rilevare ad una prima visione. In questa sede abbiamo deciso di proporvi un’analisi del film.
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Ho sempre misurato il valore di una pellicola sulla base degli stimoli e delle riflessioni che genera. Poco m’importa dei valori formali o del banale messaggio, quelli sono dei semplici pro. Terminata la visione della zona d’interesse ho sentito il bisogno di sedermi fuori dal cinema per meditare. Non mi era mai successo. Senza dire niente il film di Glazer era riuscito a sfidarmi come spettatore, suscitando in me riflessioni che si intersecano con la mia più grande passione: l’arte contemporanea e la museografia. Di fronte all’immensità di discorsi che si potrebbero iniziare su questa pellicola mi sento di condividere con voi il mio umile punto di vista. Voglio raccontare perché “la zona d’interesse” non è un semplice film sull’olocausto, ma un film che sfrutta questo pretesto per attaccare la contemporaneità e riflettere sulla potenza delle immagini. Per riflettere sul tema vi propongo “La zona d’interesse: l’analisi del film di Glazer”.

Lo zero assoluto del cinematografo

Inizia la pellicola e si spengono le luci, il film è cominciato. La musica inizia, ma lo schermo rimane nero. Non si tratta di un brano confortevole, al contrario è una colonna sonora alienante fatto di sonorità distorte che vengono bilanciate dal titolo che finalmente sbuca dallo schermo. Un titolo che lentamente poi scompare nell’oscurità. Il buio prosegue per 3 infiniti minuti. In sala si sente un brusio e in molti si chiedono cosa stia accadendo. Mi ricorda i 4′33″ di John Cage dove l’oggetto della performance sono i suoni ambientali. Rumori ambientali che, in parte, sono presenti proprio nella traccia introduttiva. Dopo aver constatato l’impossibilità di ottenere il silenzio assoluto, Cage si rende conto che il suono è l’elemento imprescindibile che domina la vita umana.

Con i suoi 273 secondi di vuoto Cage voleva ricreare lo zero assoluto (-273,15°C) del suono. Un evento ovviamente irragiungibile per la natura stessa del rumore che si auto-genera in continuazione. Che Glazer con questi oltre 180s di vuoto volesse ricreare lo zero assoluto del cinema o meglio ancora dello sguardo spettatoriale? Sicuramente è presto per dirlo, ma il proseguo della pellicola sembra dare man forte a questa teoria. Il muro che circonda la casa degli Höss non è molto diverso dai pannelli che Raushemberg usava come sfondo per le performance dello stesso Cage. Tele vuote, dove le infinite variazioni ne determinano l’unicità: dalle ombre degli attori ai singoli granelli di polvere. Fortunatamente le sterili mura si contrastano ad immagini più calorose di scene di vita familiare degne di un quadro impressionista o del pointillisme.

Il cinema che nasconde

Qui troviamo il primo punto fondamentale dell’analisi: il contrasto. Non tanto quello fra la il vanesio dramma della borghesia e le atrocità del campo che ci ridurrebbe a riproporre le riflessioni di Arendt sulla banalità del male. Il vero contrasto è la natura stessa della pellicola. Nell’arte della visione Glazer sceglie l’occlusione. Nega allo spettatore ogni forma di spettacolarizzazione con immagini tanto banali quanto ridontanti, una camera ferma e pochissimi vezzi registici. Mi ricorda un altro approccio registico sull’olocausto: Spielberg in Shindler’s List ripudia grandi mezzi tecnici. Quelli in fin dei conti sono “giocattoli”, superflui per raccontare la tragedia dell’olocausto e che porterebbero solo distrazione. Glazer ogni tanto si abbandona a qualche carrello, i suoi personaggi seguono i confini dei muri presenti nella pellicola, sempre fedeli alla loro zona d’interesse. Un uogo spesso ben definito dalle mura che prima abbiamo citato. Le barriere di Glazer, tuttavia, non sono poetiche come quelle di Agnès Varda in “Murs, murs“.

In questo caso sono degli ostacoli effettivi per lo spettatore che con lo sguardo cerca sempre di oltrepassarli, pur sapendo le atrocità che si trovano dall’altra parte. La famiglia Höss, muro o meno, sceglie di non vedere abbracciando la via dell’indifferenza. A prova di questo c’é il già citato sonoro: nonostante lo schermo sia nero i suoni si sentono benissimo. Possiamo quindi dire che lo schermo cinematografico sia una zona d’interesse come quella degli Höss nel film? Questo ci rende simili a Hedwig nonostante abbiamo appena definito quasi come voyeuristico lo sguardo dello spettatore? Beh Glazer nella pellicola in realtà decide di accontentare questo nostro desiderio di oltrepassare il muro, ma il COME questo avvenga è la chiave di svolta della zona d’interesse. Tutti i nodi apparentemente sparsi che abbiamo precedentemente citato verranno al pettine, ma ora dobbiamo cambiare zona d’interesse.

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Il museo e lo sguardo dello spettatore

Museo statale di Auschwitz-Birkenau. Delle addette si apprestano a pulire quello che, sulla carta, sarebbe il luogo che incarna il male più grande della storia. La stessa mansione l’abbiamo vista all’interno della casa degli Höss, ma qui la situazione è ben diversa. Perché Glazer sceglie proprio di inquadrare questo momento prima dell’apertura? Perché sceglie di sconvolgere il nostro desiderio voyeuristico? Indifferenza, questa è la risposta. Quello che per uno spettatore è lo spettacolo più terrificante del mondo per queste lavoratrici è la normalità. L’essere costantemente sottoposte a quelle immagini forse le ha temprate e le ha rese immuni alle stesse. L’analogia fra gli Höss e le addette alle pulizie (spettatori inclusi) sta nella scelta. Entrambi scelgono di non vedere, ma per motivi estremamente diversi. Un fenomeno che si manifesta in un museo, il luogo voyeuristico per eccellenza.

Tanto si è scritto sull’aspetto voyeuristico della museografia, riportare anche minimamente quelle riflessioni sarebbe impossibile. Credo, tuttavia, sia quantomai audace la scelta di Glazer: scegliere in un film sul non vedere il luogo della visione per eccelleza. Il museo è zona d’interesse e allo stesso tempo strumento di evasione dalla stessa, è il luogo dove ci rechiamo per soddisfare la nostra fame di immagini (esattamente come la sala). Lo spettatore finisce col dare a ciò che vede in qualunque caso un peso relativo, vittima dell’assuefazione che hanno causato le stesse immagini. Nulla ci stupisce, nulla ci sconvolge, tutto nella norma. Ci sconvolge ciò che scegliamo possa sconvolgerci, e questo porta inevitabilmente alla creazione di una nuova zona d’interesse. Non possiamo uscire da questo gioco maligno delle immagini, è insito nella nostra natura.

Andy Warhol e lo zero assoluto dell’immagine

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Blue Electric Chair, Andy Warhol, 1963.

Ne parlava proprio Andy Warhol, e questo mi ha portato alla mente un’immagine emersa durante un incontro al FIPILI. La ripetizione delle immagini ci ha reso immuni alla loro potenza, è un dato di fatto. Inizia a rifletterci con Die in Jet, poi prosegue fino al Green Disaster e terminando con l’immagine che, secondo me, spiega al meglio la pellicola. Warhol mette al centro la controversia umana per eccellenza: la morte che diventa spettacolo. Ripete l’immagine finché ad un certo punto… colore. Alcuni direbbero che è semplicemente la morte, altri direbbero che a furia di vedere la sedia questa finisca con lo scomparire. Io preferisco dire che Warhol abbia individuato lo zero assoluto dell’immagine con quella campitura blu, nonché involontariamente il senso della zona d’interesse. Cage si sbagliava: è possibile raggiungere lo zero assoluto del suono. Non è un’utopia, basta SCEGLIERE di non sentire.

Sta a noi scegliere che peso attribuire all’esperienza di visione. Bisogna infatti prestare attenzione: sottoporsi passivamente alle immagini ci renderebbe, come già abbiamo detto, immuni ad esse nel gioco della spettacolarizzazione. Sta a noi scegliere se vogliamo sentire, se vogliamo vedere e come vogliamo farlo. Quella tela blu può diventare una base sulla quale dipingere qualcosa di nuovo, basta scegliere di non rimanere indifferenti. Proprio per questo per me la zona d’interesse è un capolavoro, perché senza dire niente racconta tutto. Involontariamente interseca anni ed anni di riflessioni, nonché il male più grande che affligge l’epoca contemporanea e la mia generazione. Uno spunto di riflessione che ci porteremo a casa anche alla fine della pellicola, che raggiungiamo quando Rudolf scompare nell’oscurità.

Il film è finito, è tornato lo schermo nero così come in Warhol trovavamo quello Blu. In sottofondo si sentono suoni simili a quelli dell’inizio, ma stavolta non si sente il brusio di sottofondo del pubblico. In sala c’é assoluto silenzio, lo stesso che trovavamo nel museo. A parlare sono solamente questi suoni striduli emessi dagli altoparlanti. Titoli di coda, ancora nessuna voce: abbiamo raggiunto lo zero assoluto del cinema ed il silenzio assoluto.