Recensione – Sydney (Hard Eight), l’esordio di Paul Thomas Anderson

Recensione - Sydney (Hard Eight), l'esordio di Paul Thomas Anderson

Articolo pubblicato il 29 Novembre 2023 da Bruno Santini

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Sydney (Hard Eight)
Genere: Noir, Drammatico, Thriller
Anno: 1996
Durata: 102 minuti
Regia: Paul Thomas Anderson 
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson 
Cast: Philip Baker Hall, Gwyneth Paltrow, John C. Reilly, Samuel L. Jackson, Philip Seymour Hofman
Fotografia: Robert Elswit
Montaggio: Barbara Tulliver
Colonna Sonora: Jon Brion, Michael Penn
Paese di produzione: Stati Uniti d’America

Nel 1996 uno dei registi più apprezzati del cinema contemporaneo, Paul Thomas Anderson, faceva il suo esordio con Sydney, film conosciuto anche con il nome Hard Eight, che venne imposto dalla produzione ma che, da sempre, è stato ripudiato da parte dello stesso regista. Nonostante possa essere considerato il minore di una filmografia incredibile, Sydney è in grado di mostrare alcuni elementi topici del cinema di Paul Thomas Anderson, che spiccano in un cast ricco di grandi interpretazioni. Di seguito, la trama e la recensione di Sydney. 

La trama di Sydney (Hard Eight), il film d’esordio di Paul Thomas Anderson

Prima di indicare la recensione e l’analisi di Sydney (Hard Eight), il film d’esordio di Paul Thomas Anderson, vale la pena citare innanzitutto la sua trama, che segue. Sydney (Philip Baker Hall), un uomo dall’inizialmente non precisato passato, entra in un bar isolato nel Nevada ma, prima di consumare il suo abituale caffè, fa la conoscenza di Johnny (John C. Reily), un uomo che ha perso tutti i soldi e che è costretto a vivere in strada. Dopo averlo invitato a bere un caffè e fumare una sigaretta, Sydney scopre che l’uomo ha bisogno di 6000 dollari per seppellire sua madre e che, nonostante abbia provato a vincere soldi a Las Vegas, non è riuscito nel suo intento. Per questo motivo, Sydney si offre di aiutare il giovane rimettendolo a nuovo e prestandogli dei soldi, affinché la sua vita possa cambiare. Soltanto a distanza di anni si scopriranno le ragioni di una scelta apparentemente così generosa. 

La recensione di Sydney, un film travagliato dai problemi di produzione

Il cinema di Paul Thomas Anderson rappresenta una delle tracce più riconoscibili nell’ambito della contemporaneità, anche e soprattutto grazie a quella magistrale gestione delle interpretazioni che porta il regista statunitense ad associare, ad attori feticcio come Philip Baker Hall, Philip Seymour Hoffman, Daniel Day Lewis o Joaquin Phoenix, interpretazioni pregevoli che si ritrovano in altri attori, ultimo tra tutti Cooper Alexander Hoffman. È sulla base di questo elemento che può essere offerto il contesto della recensione di Sydney, l’esordio di Paul Thomas Anderson che mostra sì i tratti della poetica del regista ma che, allo stesso tempo, soffre di un essere acerbo che deriva solo in parte dalla crescita artistica e ideologica dell’autore, risentendo anche di una produzione incredibilmente travagliata. Interpretazioni, si diceva: chi conserva nell’immaginario frasi ed espressioni iconiche come “I’ve abandoned my child” difficilmente potrebbe immaginare, se non osservando tale film, quale sia la base di una così tanto concreta crescita da parte dell’autore, che lavora di sottrazione e di cura estrema dei volti, affidando a Philip Baker Hall, John C. Reilly, Gwyneth Paltrow e Samuel L. Jackson delle caratterizzazioni assolutamente singolari, che funzionano in virtù di una componente  unicamente recitativa e in assenza di qualsiasi tipo di smorfia. La scheggia impazzita, a ragione considerando la carriera dell’attore, è affidata al ruolo di Philip Seymour Hofrman, che nella sua scena lavora quasi totalmente di improvvisazione, impressionando per un’identità attoriale già incredibilmente forte, nonostante la giovane età. In generale, l’idea del regista è quella di associare ad ogni volto quel processo di costruzione della personalità di un individuo, quasi fosse scandito in più elementi della stessa personalità: da un lato l’uomo posato, dall’altro la donna che vive in preda alla sua oscurità, con gli intermezzi rappresentati dagli atteggiamenti di Johnny e Jim. 

L’idea di Sydney deriva da un cortometraggio, Cigarettes & Coffee, che aveva già portato Paul Thomas Anderson a confrontarsi con il dialogo che si osserva all’inizio del film: sulla base di quel contrasto di primi piani e gestione freddissima dei volti e della gestualità, si struttura un film che vive della sua costante evoluzione, barcamenandosi tra il gangster movie e il noir, lasciando al contesto del casinò e della sua spietatezza il motore principale delle azioni dell’individuo. Grazie a ricorrenti whip-pan transition, che saranno poi caratteristiche di un altro regista-simbolo della contemporaneità (Damien Chazelle), Paul Thomas Anderson dichiara i suoi intenti a partire da un prodotto che riprende molto dalla trattazione della città distrutta e dell’urbano disgregato di matrice scorseniana, ma che tenta di andare oltre per mezzo di un approccio che, successivamente, sarà meglio approfondito attraverso i temi esistenzialisti umani, il vero cavallo di battaglia della carriera del regista. Purtroppo, il film è conosciuto più per i suoi problemi che per il suo effettivo risultato: ultimato quando Paul Thomas Anderson era soltanto un 26enne, il lungometraggio venne rimaneggiato dalla produzione che impose di cambiare il nome (da Sydney a Hard Eight, l’otto reale spesso citato nel film), in virtù di una scelta che avrebbe portato in sala un gruppo più nutrito di spettatori. Nonostante il tentativo di presentare a Cannes una versione con montaggio differente del film, Paul Thomas Anderson non ebbe mai la possibilità di ritrovare la “sua” creatura in sala, perdendo la causa contro la produzione. 

Sydney e la poetica (ancora acerba) di Paul Thomas Anderson

Definire, a posteriori, il film d’esordio di un regista – specie se iconico nell’ambito di un certo tipo di cinema – rappresenta sempre un’impresa ardua, dovendo sì considerare il confronto con i prodotti successivi ma tentando anche di immaginare quale potesse essere il senso di una poetica nel momento stesso in cui questa nasce e viene sviluppata, non assumendo ancora quella forma che (nel caso del regista) diventerà perfetta nel corso della carriera. Con Sydney si è in presenza di un prodotto assolutamente acerbo e lontano dall’essere esordio folgorante, ma che allo stesso tempo mostra con grande concretezza quella dichiarazione di intenti che Paul Thomas Anderson realizza, a proposito di un cinema che – come si è detto – nasce derivativo e si evolve fino a diventare esso stesso imitato. Il rapporto con il passato, che viene svelato a poco a poco attraverso il film con grande dovizia, rappresenta un primo elemento topico del cinema del regista, che qui, per la prima volta, si serve di quella figura che sarà costante nella sua carriera: il padre putativo, incarnato da una figura che diventa importante, se non addirittura autoritaria, in un senso di gerarchia morale, nella visione di un personaggio. Philip Baker Hall, del resto, non è che il primo approccio a futuri personaggi come il Daniel Plainview di Daniel Day-Lewis o, ancor meglio, il Lancaster Dodd di Philip Seymour Hoffman. In numerosi punti della pellicola, soprattutto nell’idea di voler riportare tutto a quelle condizioni di equilibrio posato nella rappresentazione della città cadente, il film pecca di arguzia, risultando a tratti sovradimensionato rispetto alle sue reali ambizioni: eppure, è nella scena finale e in quella macchia di sangue, la rappresentazione più concreta dell’impossibilità di divincolarsi dall’errore, che Paul Thomas Anderson comunica al mondo, per la prima volta, chi è. 

Voto:
3.5/5
Andrea Boggione
4/5
Vittorio Pigini
4/5
Christian D'Avanzo
3.5/5
0,0
0,0 out of 5 stars (based on 0 reviews)
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