SCHEDA DELLA SERIE
Titolo della serie: One Piece
Genere: Avventura, Action, Fantasy, Commedia, Drammatico
Anno: 2023
Durata: 49-64 minuti
Regia: Marc Jobst, Emma Sullivan, Tim Southam, Tim Southam
Sceneggiatura: Matt Owens, Steven Maeda, Ian Stokes, Damani Johnson, Tiffany Greshler, Tom Hyndman, Laura Jacqmin Diego Gutierrez, Allison Weintraub e Lindsay Gelfand
Cast: Iñaki Godoy, Emily Rudd, Mackenyu, Jacob Romero Gibson, Taz Skylar, Vincent Regan, Jeff Ward e Morgan Davies
Fotografia: Michael Swan, Michael Wood, Nicole Hirsch Whitaker, Trevor Michael Brown
Colonna Sonora: Sonya Belousiva e Giona Ostinelli
Scenografia: Nicole Hirsch Whitaker, Michael Wood
Effetti Speciali: Mickey Kirsten, Shane McCreadie, Tiziano Martella, Zaahir Cassiem
Paese di produzione: Stati Uniti d’America, Giappone
Con il suo debutto in piattaforma dal 31 agosto, il nuovo fenomeno di punta di Netflix “One Piece” ha fin da subito registrato un grande successo tra pubblico e critica, con la sceneggiatura per una seconda stagione che risulta essere già pronta. Ecco la recensione dei primi 8 episodi della serie live-action dell’omonimo manga creato da Eiichirō Oda.
La trama di One Piece, l’adattamento live-action del manga più venduto al mondo
Quando si parla di “One Piece” ci si riferisce infatti al manga che, in oltre 26 anni di attività, è diventato il più venduto al mondo, con oltre 500 milioni di copie in circolazione nello scorso anno. Le avventure dei Cappello di Paglia hanno di fatto contribuito ad accompagnare un’intera generazione ed è davvero difficile non aver visto o sentito almeno una volta qualcosa in merito ai personaggi di questa avventurosa saga piratesca. Andando con ordine, la prima stagione della nuova serie Netflix si apre con il celeberrimo discorso del Re dei pirati GolD Roger che, negli immediati istanti precedenti la sua esecuzione (dopo essere stato catturato dalla Marina), invita tutti i pirati a partire per mare per cercare il suo leggendario tesoro, il One Piece. Con preoccupazione del Governo Mondiale e del suo braccio armato, le sue parole hanno infatti dato il via alla nuova era della pirateria, spingendo molti a rincorrere i propri ideali.
Tra questi vi è Monkey D Luffy, un ragazzo che fin da bambino coltiva il sogno di diventare il nuovo Re dei pirati, il quale possiede anche delle particolari capacità fisiche. Sparsi per tutto il mondo ci sono infatti quelli che vengono chiamati Frutti del Diavolo che, se mangiati, permettono di far acquisire speciali abilità al prezzo di essere “rinnegati” dal mare. Qualora dovesse cadere in mare, per Luffy sarebbe infatti la fine poiché ha mangiato il Frutto Gom Gom che lo ha reso un ragazzo di gomma, con possibilità di allungarsi ed espandersi a suo piacimento. La prima stagione della serie seguirà infatti le avventure di Cappello di Paglia nel Mare Orientale, il processo di formazione della sua ciurma nell’acquisire nuovi membri e l’arrivo della Going Merry, la nave ufficiale della squadra. In questo viaggio, tuttavia, molti saranno i pericoli che Luffy e i suoi compagni dovranno affrontare e così anche il loro tormentato passato.
La recensione della prima stagione di One Piece: un nostalgico adattamento che funziona nello spirito di Oda
Coloro che già conoscono le avventure dell’opera creata dal mangaka Eiichirō Oda sapranno, di certo, come un adattamento live-action di One Piece fosse un’operazione al limite della possibilità concreta. Questo non solo per via di una narrazione particolarmente ampia, già trasposta su schermo per un anime di oltre 1070 episodi (ancora in corso) e di centinaia di personaggi dall’importante caratterizzazione, ma anche per la rappresentazione tecnico-pratica di un mondo fantasy come quello dove si svolgono le avventure dei Cappello di Paglia. Ovviamente non si potrà sapere, al momento, fin dove si spingerà la nuova serie di punta Netflix, ma il piede appoggiato a giuramento sul barile è quello giusto. Adattare i primi 46 episodi della serie anime in questa prima stagione del live-action è risultato un lavoro decisamente riuscito, nonostante la complessità narrativa e la spada di Damocle sulla fedeltà del manga.
<<I fan sono diventati alquanto tossici>> è una frase pronunciata espressamente nella serie da uno dei personaggi ad ora più riusciti (non poteva essere altrimenti), rappresentando come la produzione – ricordando la stretta collaborazione con Oda – sia ben a conoscenza del peso di portare su schermo una storia molto amata dai fan attenti ai minimi particolari. Dai continui ed innumerevoli easter-egg si può notare come la prima stagione di “One Piece” venga sviluppata, infatti, principalmente a favore del fan del manga/anime, riprendendo quasi alla lettera le pagine di Oda (anche ricopiando molte delle sue tavole) ed inserendo elementi narrativi che possono essere colti inizialmente solo da chi conosce il prosieguo di determinate vicende. Insomma, il fan da lunga data potrà divertirsi a ritrovare su schermo determinati personaggi, gag e sviluppi narrativi, nonostante il nostalgico fan-service non danneggi la visione inserendo elementi fuori dal contesto. Proprio per l’esigenza sopracitata di dover “asciugare” il materiale di partenza, la serie si prende inevitabilmente le sue libertà narrative ed espositive, per un compromesso funzionale che comunque permette al non-conoscitore di immergersi in una narrazione alquanto fedele al materiale di partenza almeno nella sua essenza.
Nonostante forse qualche “seriosità” di troppo, una nota particolarmente apprezzata nella sceneggiatura della prima stagione di “One Piece” sta proprio nel rispetto del materiale originale soprattutto della sua verve ironica, fumettistica e da fenomeno da baraccone. Infatti, una delle vere protagoniste dell’intera opera di Oda è proprio la “risata”, come necessario e fondamentale spirito di tutta la narrazione della serie (come valenza estetica ed espositiva e, forse, non solo). Pur nella sua apparenza da cosplay la serie non scade mai nel parodistico, in quanto la storia in sé costituirebbe di fatto una “parodia” delle avventure piratesche raccontate nei romanzi più famosi, non limitandosi infatti nel kitsch e nella valenza grottesca dei caratteri e della rappresentazione dei suoi personaggi, senza dimenticare la grande attenzione nella realizzazione degli oggetti di scena tra navi, lumacofoni e costumi. Evitando di voler quindi rendere realistico a tutti i costi un mondo surreale e fantastico, gag, dialoghi e personaggi assurdi regalano così un sano divertimento, con molte strizzate d’occhio anche metacinematografiche sparse in questi primi 8 episodi. Interessante infatti anche come i personaggi rompano spesso la quarta parete, reagendo in maniera ironica anche a determinate rappresentazioni sceniche, come ad esempio spostare o strappare fisicamente i manifesti aggiunti sullo schermo per presentare il ricercato di turno e la rispettiva taglia.
Una visione, tuttavia, non necessariamente ridicola ma in linea anche nella costruzione tematica, non solo dei singoli personaggi ma della serie stessa, e nel world-building. Ci sono infatti i primi accenni all’arrivo di una temuta “Generazione” che cambierà il corso degli eventi, per uno sviluppo del “nuovo che avanza” decisamente affascinante già nell’opera di Oda e che sembra stia trovando nella serie Netflix il giusto spazio. Immancabili i discorsi sull’importanza dell’unione, dell’amicizia e della solidarietà (privi forse di originalità, ma non per questo banali e comunque sempre necessari, soprattutto se il target di riferimento è uno in particolare), così come la strutturazione della libertà di sognare, qualunque sia il proprio desiderio e promessa da portare a termine. Insomma il live-action di One Piece si muoveva nelle sue premesse su un terreno particolarmente scivoloso e al tempo stesso spigoloso, con il peso del “fanatismo tossico” da dover affrontare nel rispetto del suo ampissimo e complesso materiale originale. Una missione al momento che sembrerebbe condurre sulla giusta rotta, attraverso un compromesso che mette inevitabilmente d’accordo i fan più accaniti e regala uno spensierato divertimento al resto degli spettatori.
La recensione della prima stagione di One Piece: gioie e dolori di una visione dalle grandi aspettative
Ma aver portato a termine con successo la “missione nostalgia” ed aver assimilato il materiale di partenza non è, e non potrà essere, l’unico elemento indispensabile per la buona riuscita – anche e soprattutto tecnica – di un prodotto audiovisivo, registrando da questo punto di vista gioie e dolori durante la visione. Partendo da questi ultimi, a rappresentare i punti più critici di questa prima stagione di “One Piece” sono sicuramente gli effetti speciali e soprattutto la regia dei vari episodi. I primi, dando evidente dimostrazione di come la produzione abbia goduto di un sostanzioso budget, spesso presentano una visione posticcia da vecchio videogame. “Fortunatamente”, quello di Luffy (più di quello di Buggy) è l’unico “potere” messo in mostra in questa prima stagione ed il risultato finale poteva essere decisamente peggiore rispetto alle premesse (specialmente dopo i primi trailer), sebbene non particolarmente bello a vedersi; sicuramente peggiore la gestione dei movimenti acrobatici degli attori soprattutto durante le sequenze di combattimento (i “fili” anche se non visibili sono pesantemente evidenti), alcune imbarazzanti realizzazioni di determinate creature fantastiche e l’esplosione/distruzione di alcune scenografie visivamente di cartone.
Mentre quello degli effetti speciali risulta comunque un elemento di “facile” miglioramento – senza contare come una particolare visione possa essere anche paradossalmente coerente con lo spirito sopracitato – altrettanto non si può purtroppo dire per quanto riguarda la regia degli episodi, suddivisi in 4 direzioni diverse ma accomunate da una certa sciattezza soprattutto nello stile di ripresa. Nonostante le sequenze action siano davvero ben curate anche dal punto di vista coreografico, si registrano numerose ed insufficienti capacità nella gestione dello spazio, dei primi piani, della consequenzialità di campo e controcampo, restituendo così spesso una visione anche sgradevole (unicamente riferito a tale aspetto) di ritorno dai programmi televisivi di basso livello dei primi anni ‘2000, oppure dai peggiori fan-made su Youtube senza scomodare la satira di “Boris”. A bilanciare, quello che sarebbe potuto essere un elemento fatale per la visibilità della serie, è la bella fotografia capace di mantenersi su di un notevole livello – riuscendo anche a risaltare in positivo le sbavature in chiave di CGI – e regalando un’adeguata luminosità e profonde tenebre, tanto sotto il sole cocente quanto al chiaro di luna.
Per quanto riguarda il ritmo narrativo, questo scorre inevitabilmente molto veloce, mancando di soffermarsi adeguatamente sulla psicologia di determinati personaggi e su certe situazioni socio-politiche che hanno contribuito a rendere grande il manga di Oda. Tuttavia questo è dovuto, come precedentemente detto, a dover adattare oltre 40 episodi dell’anime in appena 8 capitoli e la realizzazione finale riesce comunque abilmente a portare acqua al proprio mulino. I più difficili da superare sono proprio i primi 2 episodi di “Romance Dawn, l’alba di una grande avventura” e “Il ragazzo dal cappello di paglia”, per via dell’onere di dover presentare un peculiare impatto visivo e sviluppo narrativo nella costruzione del world-building, tutto nel risicato tempo a disposizione. Dopo la partenza “diesel”, infatti, la storia inizia ad acquisire particolare profondità anche e soprattutto attraverso il background dei personaggi principali, con piccoli ed essenziali flashback che si inseriscono perfettamente nella narrazione. La sottotrama più convincente risulta essere quella degli episodi 3-4 che, oltre a raccontare il passato di Zoro, si sofferma su uno sviluppo thriller teso e dal buon livello d’intrattenimento, avendo funzionalmente Kuro come antagonista principale (in questo livello di “pacatezza” nel gioco forza delle potenze in campo, l’astuzia vince per intelligenza); tuttavia, anche il climax del “boss finale” non è da meno per interesse e fascino con il personaggio dell’Arlong-Magneto. Spingendo maggiormente sulla scelta del mafioso condottiero che agisce per i propri ideali, la gestione di Arlong e della messa in scena soprattutto dell’ultima parte (ma in generale della prima stagione) risulta sicuramente carente di una maggior cattiveria psicologica e brutalità fisica, di ferite per i colpi inferti (l’anime ad esempio presenta decisamente molti più schizzi di sangue) e di una “necessaria sporcizia” addosso ai personaggi per togliere un’evidente patina d’orata e d brillantezza che accompagna gli 8 episodi.
Più si continua nella visione della prima stagione di “One Piece” e più viene anche buttata gustosa carne sul fuoco (per il Capitano non poteva essere altrimenti), per una bella ambiguità nel senso di giustizia della storia che evita un’insipida dicotomia troppo scandita tra bene e male, tra marines e pirati (<<perché i pirati devono fare paura?>>), arrivando anche a tematiche quali la giusta rivoluzione, il razzismo radicato, la libertà in tutte le sue forme e la corruzione istituzionale. La colonna sonora riesce tanto a scandire il giusto ritmo d’intrattenimento – specialmente nelle sequenze action – quanto a dare profondità all’emotività dei soggetti sullo schermo (le note che concludono la stagione fanno poi alzare l’apprezzamento emotivo). Come anche pregustato dai trailer e dai dietro le quinte, la produzione ha rispettato lo spirito dell’opera di Oda indovinando la carta vincente dell‘intero cast, che infatti rappresenta forse l’elemento più convincente della serie Netflix. Supportati dalla “fedeltà” sopracitata nei costumi, trucco ed acconciatura, tutti gli interpreti riescono a conferire al proprio personaggio la giusta e funzionale caratterizzazione, tanto nelle movenze quanto nelle proprie emozioni. Un’operazione questa che funge da collante necessario per l’alchimia tra i vari personaggi, potendo gustare i battibecchi tra il burbero Zoro di Mackenyu e il donnaiolo Sanji di Taz Skylar, la determinazione bambinesca ed irriducibile del capitano Luffy di Iñaki Godoy, la forza di volontà negli occhi della Nami di Emily Rudd (la sequenza del cappello riuscita, era vietato fallire) e la mascotte divertente – in attesa di quella vera – del Usop di Jacob Romero Gibson. Ma, oltre al cast principale, tutti gli interpreti anche secondari risultano funzionali alla missione, specialmente nel quasi inaspettato grande spazio concesso al Cobi di Morgan Davies. Attendendo l’ufficialità della seconda stagione – praticamente imminente – si registra quindi il buon lavoro di adattamento dell’opera di One Piece, con una stagione divertente ed avvincente nel suo lato d’avventura piratesca, fedele e rispettoso del materiale originale, sebbene pesanti elementi critici che devono assolutamente essere risolti.