Vortex: il grande ritorno di Gaspar Noé

Articolo pubblicato il 28 Aprile 2022 da Paolo Innocenti

Dopo “Climax”, il maestro argentino Gaspar Noé è tornato dietro la macchina da presa per dirigere “Vortex”: un’opera vera, spietata, cruda e forte, che raccontasse la storia di una coppia di sposi, ormai anziani, alle prese con il morbo di Alzheimer della donna. Il film, presentato nella sezione “Cannes Première”, alla 74°edizione del Festival stesso, vede come protagonisti la bravissima Françoise Lebrun, ma anche un Dario Argento, attore per l’occasione, realmente credibile, ben diretto, e capace di creare una forte chimica con la sua compagna di scena. Risulta confermato che, nel corso della lavorazione, il regista non facesse seguire agli attori dei copioni precisi con dialoghi da seguire perennemente, bensì che si basasse su un canovaccio, richiedendo sul set molta improvvisazione, per rendere il tutto meno preparato possibile, cercando di far vivere la pura realtà, tirando fuori dai personaggi tutta la loro gamma emotiva. Dario e  Françoise sono riusciti a creare delle dinamiche perfette tra moglie e marito, con la donna vittima di una malattia inguaribile e inesorabile, e suo marito con seri problemi di cuore, che tenti di fare il possibile per starle dietro, sempre accanto, mettendo da parte il suo lavoro di scrittore, subendo egli stesso la malattia della donna che, come sappiamo, non colpisce solo i diretti interessati, ma anche chi sta loro vicino.

Chi conosce la filmografia del regista, ben saprà che ogni opera dell’autore, spesso improntata sulla provocazione, non lasci indifferenti, ma che sappia scavare nell’animo e nelle viscere dello spettatore, facendogli provare disagio, emozioni forti, e stimolando attente e interessanti riflessioni. 

Vedendo “Vortex”, girato quasi totalmente in una casa, durante il periodo in lockdown, ci troviamo di fronte ad una pellicola, dalla durata circa di due ore e venti, subito capace di colpire e sorprendere. Bastano i primi minuti per rendersi conto di quale sarà l’artifizio scenico utilizzato dal regista per raccontare, passo dopo passo, la vita dell’anziana coppia, senza mai perderla di vista. Ciò consiste nel dividere lo schermo in due parti uguali e, dal momento in cui i due si svegliano, seguirli contemporaneamente, perennemente, senza sosta, mostrando il loro vivere quotidiano, la perdizione della donna che fatica a ricordarsi chi sia, o perché stia uscendo di casa, così come la difficoltà del marito, critico cinematografico, nello scrivere il suo nuovo saggio, dal titolo “Psiche”, dovendo star dietro alla moglie.

Lo “split screen” ti immerge subito nel vissuto dei due protagonisti, chiedendoti di prestare attenzione alle vicende che si alternano e interscambiano sullo schermo, con la consapevolezza che sia un film da vedere e rivedere, in quanto può essere facile concentrarsi più su un dettaglio, piuttosto che un altro, perdendosi momenti di vita, pronti a delineare meglio i personaggi.

Il film, oltre alla malattia, tratta senz’altro temi importanti, facendoci riflettere su quanto, su questa Terra, si sia solo di passaggio, sulla concretezza che si sfalda, sulle tracce che restino di noi in futuro, così come sull’importanza del luogo, come una casa : pronta ad accoglierci, a far da sfondo alla nostra esistenza, per poi smantellarsi, restare freddamente deserta, svuotata, priva di contenuto, ma solamente un involucro in disuso, senza più niente all’interno, in contrasto con ciò che in vita avessimo creato.

La regia di Gaspar Noé si alterna intelligentemente fra movimenti di macchina a mano, pronti a seguire i personaggi che si muovono nello spazio, con tanto di zoom soffocanti, e situazioni in cui l’inquadratura risulti stabile, con andamento pacato ad accompagnare piani sequenza e “long take”. Molto interessante anche il rapporto che i due genitori hanno con il figlio, interpretato da Alex Lutz, con seri problemi di droga, incapace di uscire dal tunnel del vizio.

Interessante il contrasto tra chi, volendo, potrebbe vincere la malattia ma non lo faccia (il figlio e la droga), e chi, vedi i genitori, siano costretti per forza a subirli perché in tal caso non si potrebbe fare niente.

Il regista argentino sa colpire e regalarci la crudezza della realtà, con un finale cinico, spietato, che lasci sbigottiti, e che porti lo spettatore a riflettere sul senso della vita. Non si ricercano per forza provocazioni, ma anzi, stavolta potremmo considerare questo nuovo tassello del cineasta la sua prova della maturità artistica. Citando Antoine-Laurent Lavoisier, chimico e fisico francese «Nulla si creanulla si distrugge, tutto si trasforma». Questo è il tarlo che continua a infestare l’animo dello spettatore, ritrovandosi di fronte ad un finale a tinte horror, quasi spettrale, in cui si mostra ciò che resti della nostra esistenza giunta al limite, o forse alla fine. 

Cinema che parla di vita, vita che parla di cinema, in un connubio perfetto, attendendo che la morte ci porti con sé.

Voto:
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Christian D'Avanzo
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Andrea Barone
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Paola Perri
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Giovanni Urgnani
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Andrea Boggione
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Alessio Minorenti
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