“Fino all’ultimo respiro”: un doloroso confronto fra i sogni e la realtà

Articolo pubblicato il 6 Aprile 2022 da wp_13928789

Per #iclassici, oggi proponiamo “Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard, un capostipite della Nouvelle Vague (insieme a “I quattrocento colpi” di Truffaut e “I cugini” di Chabrol). Ma iniziamo con lo spiegare un pò cos’è questa nuova corrente europea e come si inserisce nella storia del cinema.

I giovani critici, oltre ai maestri europei, esaltano il cinema americano, che spesso diventa oggetto di adorazione. Sono due filoni opposti e incompatibili: da una parte i miti, dall’altra lo sguardo disilluso della modernità. Il nuovo cinema nascerà proprio da questa miscela esplosiva, ossia il mondo delle favole (la tradizione), riletto attraverso la consapevolezza del mondo moderno (innovazione). O viceversa, il mondo moderno visto attraverso i sogni dei suoi personaggi. Il rapporto complesso con il passato e con la tradizione narrativa del cinema classico sta al centro di tutta la nuova concezione del cinema proposta dalla Nouvelle Vague, che ama, adora il passato e la tradizione, ma deve staccarsi da essi per fare un cinema nuovo, più vicino alla vita reale. Sintetizzando la nuova estetica, Godard dirà che “dietro la realtà c’è la finzione, ma dietro la finzione c’è di nuovo la realtà”, il cinema è un gioco in cui esse si inseguono continuamente. “Non è un’immagine giusta, ma giusto un’immagine”, dirà ancora il regista, per significare che le immagini non possono sostituirsi alla realtà, ma ci parlano della realtà e dialogano con essa, e tuttavia la realtà ha bisogno delle immagini, per vedersi e per conoscersi. Il primo film di Godard, “Fino all’ultimo respiro”, ricavato da un soggetto di Truffaut, è un doloroso confronto fra i sogni e la realtà, la storia di un piccolo delinquente parigino che sogna di essere come i grandi gangster del cinema americano.

“Dopo tutto, sono un fesso.”

Queste sono le prime parole che sentiamo pronunciare dal protagonista, nascosto dietro un giornale, con la sigaretta che penzola dalla bocca, alla maniera di Bogart, mentre sta spiando un’automobile da rubare (modo nuovo di presentare il protagonista, con il viso nascosto dal cappello). Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo) è un ladruncolo che vive di sotterfugi. Con la complicità di una ragazza ruba una macchina a Marsiglia e corre verso Parigi. Durante il viaggio commenta il fisico delle ragazze che fanno l’autostop, fa la parodia di alcuni slogan pubblicitari, guarda in macchina verso lo spettatore e, dopo un sorpasso pericoloso, uccide un poliziotto: ma l’omicidio non viene mostrato chiaramente, ne vediamo solo alcuni frammenti montati in jump cut, dei veri e propri salti messi in sequenza, inquadrature tagliate, dove non ci si preoccupa di usare raccordi classici, ma neppure falsi raccordi (questa tecnica si sviluppa proprio con la Nouvelle Vague). A Parigi Michel deruba una ragazza nel corso di una lunga conversazione, in camera da letto, mentre lei si veste, e scappa. Sugli Champs Elysèes incontra Patricia (Jean Seberg), una giovane americana di cui è innamorato, e cerca di riallacciare la storia avuta con lei e finita da un certo tempo. Nel corso di un lungo piano-sequenza dal vero, con la cinepresa nascosta in un furgoncino, la coppia si mescola con la folla dei passanti casuali, distratti. Michel le offre di scappare con lui in Italia, ma Patricia ha altre cose per la testa, vuole scrivere, vuole una vita seria e fare carriera (emblematica l’intervista con lo scrittore). Michel invece vuole vivere all’avventura, come ai vecchi tempi, il suo ideali di vita è Bogart e, quando lo vede su un manifesto del film “Il colosso d’argilla”, si ferma per ammirarlo, o quasi per salutarlo come un vecchio amico. In uno strano gioco di falsi campi-controcampi, sembra che i due, Michel della strada e Bogart, delle locandine del cinema, si guardino negli occhi: metalinguaggio. Michel ripete il gesto classico dell’eroe americano: striscia l’unghia del pollice sulla bocca. Poi ricomincia la fuga senza pace. Michel è ricercato, la sua foto appare sui giornali e un passante (lo stesso Jean-Luc Godard) lo segnala agli agenti. Patricia, alla fine di un’ultima notte passata con lui, lo denuncia alla polizia. Ci sarebbe ancora il tempo di scappare, ma Michel vuole ancora imitare Bogart, si lascia sparare dai poliziotti e cade al termine di una lunga corsa. Seguito dalla macchina da presa in un carrello altrettanto lungo, barcollante, per tutta la corsa, va ad abbattersi sull’incrocio di un grande viale, mentre pronuncia le ultime parole:

“C’est dèguelas” (“è uno schifo”)

e mentre sta morendo trova ancora il tempo di scherzare e fare le boccacce alla donna che ama e che lo ha tradito.

Come ha detto lo stesso Godard, “Fino all’ultimo respiro” è un viaggio nel cinema gangster americano ma anche un viaggio alla maniera di “Alice nel paese delle meraviglie”, è una corsa dentro i giochi e gli inganni del linguaggio, in cui siamo sempre dentro e fuori dalle immagini. Una storia classica, ma anche una riflessione sul cinema, sui miti, sui sogni che il cinema stesso genera, nel suo incrocio con la vita reale. Le continue trasgressioni del linguaggio narrativo (jump cut, piano-sequenza, carrelli, voce fuori campo, iride, raccordi sbagliati, sguardi in macchina e altri errori voluti per sovvertire le regole del cinema classico) fanno di questo gioco un caleidoscopio indispensabile per svelare le illusioni del cinema, smascherarle e nello stesso tempo ravvivarle e riproporle ancora una volta, più affascinanti che mai. Ma “Fino all’ultimo respiro”, oltre ad essere un’antologia sugli effetti filmici (e citiamo ad esempio, oltre quanto già scritto fino ad ora, quando ad inizio film Michel guarda diritto nella MDP, parlando direttamente con lo spettatore, il voice over durante il percorso in auto della coppia, in cui i volti per dei momenti restano immobili ma la voce continua ad andare), è disseminato di discussioni sulla vita, sull’amore, sui viaggi (splendidi i dialoghi della coppia ogni volta che entrano in contatto, soprattutto nella scena a letto in camera di Patricia). Con Godard, dunque, abbiamo lo sconvolgimento della narrazione: si tratta di mostrare non più le azioni, come faceva il cinema classico, ma di mostrare ciò che sta fra le azioni: i silenzi, le attese, le tensioni fra persone, le cose non fatte e dette, dare agli spettatori ciò che l’occhio non vede, entrare nelle pieghe nascoste delle relazioni umane.

Christian D’Avanzo