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Hugo Cabret e la magia del cinema

Vi ricordate il 3D? Nei primi anni 2010 sembrava che fosse il futuro del cinema, il successivo passaggio fondamentale dopo il sonoro e il colore. Poi, più niente. Assunta quasi subito la sola funzione di ornamento extra (ma assolutamente evitabile) alla fruizione in sala è presto passato di moda e oggi sopravvive in poche, sparute, sale. Probabilmente l’industria cinematografica non si rese conto che il 3D non poteva essere una patch da applicare in post a ogni film per alzare il prezzo del biglietto: il 3D era, o sarebbe dovuto essere, un mezzo in più da usare con cognizione di causa e solo se dietro vi era un ragionato intento comunicativo. Una freccia in più nell’arco degli autori, da usare solo se necessaria. Pochi sono i film che hanno fatto del 3D un vero punto di forza e guarda caso sempre quando dietro alla macchina non vi erano certo dei signor nessuno: James Cameron con “Avatar”, Alfonso Cuaron con “Gravity”… Martin Scorsese con Hugo Cabret.

Fu proprio il regista di capolavori come Toro Scatenato, Taxi Driver e Quei bravi ragazzi, sulla soglia dei 70 anni a regalarci uno dei migliori utilizzi di quell’innovativo 3D che ad oggi possiamo ricordare portandosi a casa ben 5 Oscar e sfiorando la seconda statuetta per della sua carriera per la regia (che a mio avviso avrebbe ampiamente meritato). Scorsese decide di raccontare una storia molto lontana dai suoi canoni, un film per ragazzi dai forti toni fiabeschi, quasi come se arrivato ad una certa età, avesse sentito il bisogno di lasciare qualcosa alle generazioni future, come se avesse deciso di fare un film per i proprio nipoti. Proprio come nelle fiabe, nate per educare i giovani attraverso storie allegoriche, il suo lavoro sembra quasi avere un evidente intento pedagogico, un trattato sulla nascita del cinema, sui suoi pionieri, su ciò che ha reso il cinema quello che è oggi, per far scoprire ai ragazzi (e non solo) la magia che c’era dietro quelle pellicole di oltre un secolo fa.

Tratto da un romanzo di Brian Selznik, “Hugo Cabret” racconta la storia del piccolo Hugo (Asa Butterfiled), che, rimasto orfano in tenera età, vive da solo all’interno nella stazione di Parigi dove si occupa di nascosto della manutenzione degli orologi, incarico che prima era dello zio adottivo, anch’esso scomparso. Il giovane, grande appassionato di cinema, perennemente braccato dalla guardia Gustav (Sasha Baron Cohen) che vorrebbe spedirlo in orfanotrofio, si troverà, assieme ad una ragazza conosciuta da poco (Chloe Moretz) a cercare di svelare un mistero riguardante un enigmatico automa lasciatogli da suo padre che lo porterà a conoscere un vecchio George Melies (Ben Kingsley), uno dei padri fondatori dell’arte cinematografica, che ad esso sembra profondamente legato.

Veramente eccellenti le scelte di cast a partire dai due giovani protagonisti, tra i migliori giovani del panorama hollywoodiano, ad affiancare due giganti come Sasha Baron Coen e Ben Kingsley. La sceneggiatura è semplice, a portata di bambino, ed efficace, che non lesina però a regalare tante piccoli citazioni per gli appassionati del cinema degli albori. Il vero mattatore della pellicola è però il buon Martin alla regia. Scorsese, attraverso i suoi ben noti piani sequenza, fa volare la macchina da presa tra le bellissime scenografie dei nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, impreziosite da una fotografia calda ed evocativa e da un sapiente uso della computer grafica, sulle note di una colonna sonora ammaliante. Gioca con gli spazi, li sfrutta in ogni loro declinazione in quello che diventa un grande viaggio di avventura tra il vapore e gli ingranaggi. Importantissimo l’utilizzo del già citato 3D, impiegato, come mai prima di allora , come vero mezzo espressivo. Emblematica è la scena in cui il temibile Gustav ci squadra dall’alto con quel suo sguardo inquisitorio che esce dallo schermo e ci fa immedesimare con il terrorizzato e piccolo Hugo. Ed emblematico come Scorsese deciderà, ad un certo punto, di sfruttare al massimo la più moderna magia del cinema moderno per riportare in vita le più antiche magie della sua storia. I trucchi, i marchingegni, le intuizioni che vi erano dietro le pellicole di quel genio di George Melies che nei primi del novecento girò più di 500 opere immaginifiche tra cui il celebre “viaggio nella luna”.

Nelle sequenze finali di Hugo Cabret c’è tutto l’amore di Scorsese per la settima arte, amore che il regista vuole trasmettere alle generazioni future con quella che, pur essendo così distante dai suoi canoni, finisce per essere la sua opera più intima e personale. Tutto l’amore per quella magia che è sempre esistita nel cinema, sin dai suoi albori, si è evoluta, ha scoperto nuovi trucchi e abbandonato i vecchi, ma non ha mai mutato il suo potere di impressionare ed ammaliare gli spettatori. E così, se nelle prime immagini proiettate dai fratelli Lumiere quel treno che improvvisamente si muoveva arrivando in stazione fece fuggire il pubblico di allora in preda al terrore che fosse vero, in Hugo Cabret, quel treno, con la magia del 3D esce dallo schermo e si schianta sugli spettatori a sancire quel legame indissolubile che si tramanda di generazione in generazione tra chi è sempre pronto ad innamorarsi sotto la luce del proiettore.

– Carlo Iarossi