Cerca
Close this search box.

“La parola ai giurati” e il potere della parola

La parola ai giurati è il racconto di 12 uomini arrabbiati, 12 angry men (come il titolo originale della pellicola). 12 uomini arrabbiati che si riuniscono per decidere la sorte di un imputato. 12 uomini mossi dalla rabbia, dalla rabbia sociale che porta a sfogarci contro il diverso, dalla rabbia personale che ci porta a bramare immotivate vendette, dalla rabbia che scaturisce dal doversi confrontare con il prossimo, dal doversi mettere a nudo, dal dover mettere in dubbio le proprie certezze. 

L’opera di riferimento è la sceneggiatura firmata da Reginald Rose scritta nel 1954 per la tv e subito riadattata dallo stesso per il cinema, alla produzione Henry Fonda (che ne sarà anche il protagonista), dietro la macchina da presa l’esordiente Sydney Lumet, agli inizi di una grande carriera. Fondamentale e ben evidente la sua esperienza come direttore della fotografia che grazie ad una sapiente scelta delle ottiche gli permette di valorizzare e dare significato e dinamismo ad una regia che altrimenti, per evidenti esigenze di sceneggiatura, sarebbe risultata piuttosto statica. 

Setting dell’intera vicenda (eccezion fatta per due brevi momenti) è infatti la piccola stanza i cui i nostri 12 giurati sono chiamati a decidere della colpevolezza o meno di un giovane di colore accusato dell’omicidio del padre. Nessuno sguardo nell’aula di tribunale, nessuno sguardo tramite flashback sui fatti riguardanti l’omicidio, nessuno sguardo rivolto all’imputato (se non per un brevissimo momento fuori fuoco), le vittime o i suoi accusatori che mai ci verranno mostrati. Non ci è permesso empatizzare con loro, non ci è permesso tifare per l’assoluzione o la condanna. Il focus non è lì, ma sul senso più profondo di giustizia.

Perché la vera domanda che ci pone la pellicola non è se questo giovane sia realmente colpevole o innocente ma un’altra, ben più insidiosa e paradossalmente impegnativa da affrontare. Si può condannare a morte una persona se vi fosse anche solo un minimo dubbio sulla sua colpevolezza? Se anche tutte le prove testimoniassero a suo sfavore, se apparentemente vi fosse il 99% di colpevolezza, si potrebbe rischiare quell’1%? Vale la pena rischiare di uccidere un innocente, per non rischiare di lasciare a piede libero un assassino? E poi, queste prove, saranno veramente così schiaccianti, o possono essere inconsciamente distorte dal pregiudizio, dal razzismo, dalla rabbia?

Lo spettatore è posto dinanzi a questi fondamentali quesiti come lo sono gli 11 giurati incalzati dal Giurato n. 8 (magistralmente interpretato da Henry Fonda), l’unico a dubitare, l’unico che, forse, sente realmente il peso della tremenda sentenza che è chiamato a dare. Un eroe sui generis, che non ha bisogno di pistole e momenti d’azione per combattere in nome della giustizia. La parola ai giurati è infatti un film sul potere (appunto) della parola, sul potere della logica, su ciò che un uomo può fare grazie alla dialettica e alle argomentazioni.

E’ un film sul coraggio di sapersi battere per ciò che riteniamo giusto anche se questo vuol dire essere soli contro tutti, un film sull’importanza di non lasciar trascinare il proprio arbitrio dalle accomodanti precostruzioni della società, un film sul sapersi mettere in discussione quando le proprie tesi vacillano. Il film per eccellenza da far vedere nelle scuole, per formare lo spirito critico e per combattere i pregiudizi. Un film capace proprio con la forza della sola parola di tener incollato lo spettatore allo schermo nel seguire i dialoghi di 12 uomini chiusi un ora e mezza in una stanza. Un film proprio per questo non invecchiato neanche di un giorno, perché scevro da qualsiasi altro artificio cinematografico con data di scadenza, sempre attuale e capace di parlare a qualsiasi generazione.

Un film che ovviamente trova la sua forza anche nelle interpretazioni di un cast magistralmente diretto dove oltre al già citato Henry Fonda, spiccano attori del calibro di Lee J. Cobb e Martin Balsam

Non è un caso se a questo capolavoro seguirono tante altre trasposizioni teatrali, televisive e ancora cinematografiche, nessuna però all’altezza del predecessore. Nessuna con un tale allineamento di cast, sceneggiatura e regia. 

E allora, ditemi voi: “Vale la pena rischiare di uccidere un innocente per non rischiare di liberare un assassino?”

Aspettate! Correte a recuperare La parola ai giurati e rispondete.

di Carlo Iarossi