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I migliori film sui samurai

Nel corso della storia del cinema sono stati numerosi i contributi alla realizzazione del genere di film sui samurai, con alcuni grandi lavori orientali e non solo: ma quali sono i migliori film sui samurai di sempre?
I migliori film sui samurai: i capolavori del genere

Quando si parla di film di samurai si può attingere ad una vasta filmografia di titoli che hanno fatto la storia e che vedono alcuni grandi registi – tra cui Akira Kurosawa e non solo – essersi cimentati con una materia culturalmente molto complessa, in grado di chiamare in causa temi relativi all’etica, alla piena libertà di se stessi e alla lotta. Chiaramente, tale approccio è stato spesso oggetto anche di rielaborazione in salsa occidentale, con alcuni titoli che sono diventati particolarmente celebri e che meritano attenzione. Ma quali sono i migliori film sui samurai?

I sette samurai (1954)

I sette samurai di Akira Kurosawa è a ragion veduta considerato universalmente come uno dei capolavori della settima arte, uno dei film che ha più impattato l’immaginario collettivo mondiale, portando definitivamente alla ribalta il nome del suo leggendario regista. In quest’opera il cineasta nipponico compie l’arduo compito di gestire impeccabilmente e con sopraffina classe una narrazione stratificata, che forgia a fuoco nella mente dello spettatore. È dunque complesso indicare una sola ragione per la quale quest’opera sia così universalmente amata, eppure alla mente viene quasi subito da sottolineare la sua versatilità.

I sette samurai infatti funziona su più livelli e riesce a trattare in modo pressoché perfetto un gran numero di tematiche ortogonali tra di loro. Il film riesce al contempo a essere un’epica elegia dello spirito del samurai, una vivida critica sociale alla società giapponese, rea di abbandonare gli ultimi al loro tragico destino, un fantastico racconto corale, all’interno del quale ogni protagonista definisce il suo punto di vista e la sua bussola morale. A rendere ulteriormente questa pellicola una pietra miliare della storia del cinema è l’interpretazione magistrale di Toshiro Mifune, infatti la capacità dell’attore giapponese di spaziare tra il registro comico a quello drammatico, marcando ogni singola sfumatura di questo ampio spettro, è impareggiabile.

Il trono di sangue (1957)

Capolavoro di Akira Kurosawa, Il trono di sangue è un film del 1957 dove viene rielaborato il Macbeth di Shakespeare trasportando la storia nel Giappone feudale. L’atmosfera generata tramite l’uso della fotografia in bianco e nero, nonché attraverso una scenografia arricchita da nebbia e altri elementi naturali dall’assetto mistico, rende il racconto davvero immersivo.

Si tratta di una delle migliori trasposizioni in assoluto del materiale di base, poiché il famoso cineasta giapponese riesce a preservare l’intensità e la tragicità degli eventi originali contestualizzandone perfettamente gli sviluppi nella nuova ambientazione, in cui muove le fila il protagonista samurai. I continui simbolismi visivi enfatizzano i temi ricorrenti e rendono la cupezza delle foreste oscure ambiguamente suggestive, quasi come se si trattasse di una ghost story orientale intrisa – per l’appunto – di mistero. In aggiunta, la corruzione del potere e la discesa negli inferi della moralità appaiono come un ritratto sociale ancora spaventosamente contemporaneo. 

Harakiri (1962)

Premio speciale della giuria al 16° Festival di Cannes, la sontuosa opera di Masaki Kobayashi prende in parte le distanze dalla classica figura del samurai e modernizza i tempi legati alla lotta di classe e al militarismo, al fallimento dei simboli d’onore e alla codardia del potere ipocrita che raggira i propri compiti, variando dal thriller al western crepuscolare in un cupo e magnetico dramma anche famigliare. Harakiri è ambientato nella prima metà del ‘600, quando la riappacificazione del Giappone ha fatto nascere un gran numero di ronin caduti ormai in disgrazia, costretti a vagare senza meta o mettere fine alla propria vita.

Uno si questi si reca alle porte di casa Iyi per chiedere di compiere onorevolmente seppuku, sebbene le sue intenzioni siano ben altre. Sceneggiatore anche di Rashomon, Shinobu Hashimoto intreccia un racconto in flashback ricco di tensione, colpi di scena e dialoghi solenni, per restituire un’indagine psicologica dei personaggi e delle circostanze socio-politiche di alto spessore. Mentre spicca la struggente prova da protagonista di Tatsuya Nakadai, il regista regala una ricostruzione scenica stupefacente: attraverso un sensazionale ed elegante bianco e nero, è a dir poco magistrale come Kobayashi sfrutti lo spazio in un rituale gioco geometrico nei movimenti di macchina, regalando anche immagini di una potenza evocativa davvero unica.

L’Ultimo Samurai (2003)

L’opera di Edward Zwick è un bellissimo trattato che mostra come l’occidente possa aprirsi al mondo orientale e come, allo stesso tempo, sia ancora così restio ad accettare qualcosa di diverso dalle proprie tradizioni. La critica al colonialismo americano è infatti molto potente, mentre una piccola speranza mostra che anche gli uomini più stolti possono imparare l’importanza dei punti di vista. Oltre alla sua filosofia, L’Ultimo Samurai presenta delle battaglie bellissime accompagnate da imponenti scenografie ed un utilizzo di migliaia di comparse imponenti, mentre le straordinarie performance di Tom Cruise e Ken Watanabe fanno da padrone a tutto.

Zatoichi (2003)

Sono stati dedicati 28 film al ronin cieco creato da Kan Shimozawa, ma nessuno è importante quanto quello di Takeshi Kitano. L’unione di numerosi fili tematici si intreccia nello sfondo del Giappone dell’800. Ci sono le atmosfere Hard Boiled che hanno reso Kitano un vero e proprio maestro riconosciuto al livelllo globale, ma non solo. Pulp, action, jidai-geki e tanti altri sottogeneri vivono in uno dei film più sottovalutati del maestro nipponico. Kitano rende lo spettatore parte attiva del mondo da lui creato anche grazie al sonoro. Zatoichi usa principalmente l’udito per comprendere ciò che lo circonda, così deve fare anche lo spettatore. I rumori diventano colonna sonora, fino all’esplosivo finale dove emerge il musical. Quale modo migliore per il cineasta nipponico di ricordarci le sue origini nel quartiere di Asakusa? Un regista che era diventato famoso globalmente, qui riscopre le origini del suo cinema e del suo io artistico.

Sword of the Stranger (2007)

In un genere tanto affascinante non va dimenticato il grande potenziale dell’animazione, tecnica sfruttata meravigliosamente nell’anime di Masahiro Andō con combattimenti spettacolari, nei quali si può percepire il tocco della carne colpita da ogni lama e da ogni pugno. Si tratta di anche di una grande riflessione sull’esistenza del dolore, il quale non deve essere cancellato e deve invece diventare un punto di forza per arricchire l’animo e crescere, a patto che poi possa essere usato per proteggere gli altri e non per conquistare. Con le sue straordinarie tecniche registiche, il film richiama anche a momenti che ricordano il cinema di Sergio Leone (regista che si ispirò a sua volta a Kurosawa).

13 assassini (2010)

Il suo nome non sarà noto come quello del connazionale Akira Kurosawa eppure, tra i registi che hanno trattato il mondo dei Samurai, uno che non poteva assolutamente mancare all’interno di questa classifica è Takashi Miike che – un po’ come tutti – deve molto a Kurosawa e lo ha omaggiato più volte nel corso della sua prolifica carriera. Tra i vari titoli disponibili, quello impossibile da non citare è 13 Assassini. Presentato in anteprima alla 67esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film riprende la stessa struttura narrativa di I 7 Samurai senza però sembrarne una copia sbiadita, ma è molto interessante notare come, ancor prima del noto Akira Kurosawa, ad essere citato sia Eiichi Kudo ed il suo 13 Assassins del 1963, una delle tante opere che dal capolavoro con Toshirō Mifune fu totalmente oscurato. Prima ancora del film in sé, 13 Assassini è dunque un tributo al miglior cinema sui Samurai che il Giappone abbia mai avuto ed uno dei più grandi Jidaigeki – film storici che si concentrano principalmente sull’Era Tokugawa – di sempre. Recuperarlo significa fare un tuffo nella storia del paese del Sol Levante e Takashi Miike rappresenta un perfetto punto di partenza, dato il suo stile eclettico, comico sì ma anche estremamente splatter.

Kubo e la spada magica (2016)

Uno degli studi d’animazione più conosciuti, dopo le varie Disney, Pixar e Dreamworks, che nel corso del tempo ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel mercato cinematografico è la Laika, nonostante ad oggi abbia all’attivo solamente cinque titoli. Tra questi, uno dei più recenti e sorprendenti è senz’altro “Kubo e la Spada Magica”, una favola su un piccolo cantastorie samurai che mescola mitologia e leggende del folklore giapponese. Il regista statunitense Travis Knight realizza un piccolo gioiello dell’animazione mediante l’utilizzo della stop-motion, il racconto di un viaggio che il giovane protagonista è costretto ad intraprendere per via di un mistero legato alla sua famiglia.

Kubo (Art Parkinson) è un sognatore che, prima di intraprendere la sua avventura, passa le sue giornate a raccontare storie sul proprio padre defunto, Hanzo, un famoso samurai, sfruttando la sua incredibile abilità di animare origami mentre suona lo shamisen. Un film che si muove tra fantastico e reale senza perdere mai la bussola e quella consapevolezza di rivolgersi ad un pubblico di grandi e piccini attraverso una serie di simbolismi, sensazioni ed emozioni.