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Recensione – Desiderio, co-diretto da Roberto Rossellini e Marcello Pagliero

La recensione di Desiderio, con Elli Parvo

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Desiderio
Genere: drammatico
Anno: 1946
Durata: 75 minuti
Regia: Roberto Rossellini, Marcello Pagliero
Sceneggiatura: Roberto Rossellini, Marcello Pagliero, Guglielmo Santangelo, Rosario Leone, Giuseppe De Santis, Diego Calcagno
Cast: Elli Parvo, Massimo Girotti, Roswita Schmidt, Carlo Ninchi, Francesco Grandjacquet, Astorre Pederzoli, Tito Rinaldi, Jucci Kellermann, Spartaco Conversi, Lia Corelli, Giovanna Scotto
Fotografia: Rodolfo Lombardi, Ugo Lombardi
Montaggio: Marcello Pagliero
Colonna Sonora: Renzo Rossellini
Paese di produzione: Italia

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 5 maggio 1946 mentre in quelle francesi il 2 marzo 1951. Nato da un soggetto originale di Anna Benvenuti, diretto da Roberto Rossellini e Marcello Pagliero, con Elli Parvo e Massimo Girotti: di seguito la trama e la recensione di Desiderio.

La trama di Desiderio, diretto da Roberto Rossellini e Marcello Pagliero

Di seguito la trama ufficiale di Desiderio, diretto da Roberto Rossellini e Marcello Pagliero:

 

Una ragazza, che la città ha spinto sulla via del vizio, torna al proprio paese, dopo che un amore sincero sembra finalmente illuminare la sua vita. Accolta dalla sorella e dalla madre, ma non dal padre, scatena, senza volerlo, il desiderio di suo cognato Nando. Successivamente Riccardo, un uomo che Paola ben conosce, per possederla arriva al ricatto minacciandola di rivelare il suo passato al fidanzato che sta per giungere. L’intervento del cognato e una scenata con la sorella aggravano la situazione e la ragazza, per non essere disprezzata dall’uomo che ama, si toglie la vita.

 

 

La recensione di Desiderio, con Carlo Ninchi

 

 

La recensione di Desiderio, con Elli Parvo e Massimo Girotti

Dopo la disgregazione del regime fascista e la liberazione totale del territorio, l’Italia può dirsi emancipata politicamente ed artisticamente(?). I tempi del “cinema dei telefoni bianchi” è definitivamente concluso, la società italiana può essere dunque rappresentata senza alcuna patina propagandistica, mettendo a nudo le varie ipocrisie e contraddizioni. Seguendo esplicitamente il solco tracciato da Ossessione (1943), l’esordio, capolavoro, alla regia in un lungometraggio di Luchino Visconti, si piazza sotto la lente d’ingrandimento i numerosi problemi sociopolitici del tempo, scegliendo precisamente da quale punto di vista svilupparli: dalla prospettiva femminile. Per prima cosa, la struttura della pellicola si dimostra circolare, poiché nella sequenza iniziale la protagonista si avvicina al luogo in cui una giovane ragazza si è appena tolta la vita gettandosi dalla finestra, passando all’apparenza come un semplice espediente narrativo per farla incontrare con il suo futuro innamorato, ma che invece fa da preludio all’atroce destino a cui Paola andrà incontro, nelle stesse modalità, ponendo fine alle sue sofferenze e alle sue speranze. La tematica del suicidio non era affatto semplice da mettere in scena, fino ad allora praticamente inesistente nei prodotti cinematografici, in particolare all’interno di una nazione fortemente radicata nell’educazione cattolica, intransigente nel condannare l’azione in sé e allo stesso tempo colui/colei che l’ha commessa, spesso senza avere la sensibilità o l’intenzione di capirne le cause. Un senso di vuoto mischiato a quello di smarrimento alimenta la sfiducia, qualsiasi tentativo di ricominciare una nuova vita o di intraprendere una nuova strada, per un motivo o per un altro, finisce per essere troncato sul nascere.

 

 

 

 

Le tematiche di Desiderio, con Roswita Schmidt e Carlo Ninchi

Una trappola mortale che non conosce vie di fuga né in campagna né in città; due realtà apparentemente agli antipodi, ma accomunate dalla stessa pericolosità, seppur di natura differente. Il grande centro urbano attira per le sue promesse di opportunità, facendo sognare ad occhi aperti chiunque provenga da situazioni precarie, alimentando la fame di agiatezza e benessere economico. Le illusioni si consumano presto, la mentalità materialista porta alla mercificazione dell’essere umano e di conseguenza alla sua alienazione, finendo per diventare uno dei tanti oggetti ad uso e consumo della classe più abbiente. Il contesto rurale, tipico per la sua semplicità, è soffocato da un modo di pensare rigido, retrogrado ed intransigente: un ambiente ristretto geograficamente, in cui tutti si conoscono, dove i pettegolezzi e le maldicenze sanciscono la condanna definitiva senza appello per chi tenta di uscire dai confini, territoriali e mentali. Si rimane arroccati entro determinati principi, spesso frutto dell’ignoranza, senza lasciare la possibilità al cambiamento e all’evoluzione di entrare nelle coscienze, lasciando le cose come stanno, stagnanti e stantie.

 

La decostruzione del nucleo familiare, un microcosmo definitivamente imploso

 

La famiglia “tradizionale” è sempre stato un punto cardine su cui ha ruotato la società italiana fin dalla sua unità. Pubblicizzato come unico sistema possibile da una certa politica e da una certa religione, un principio venduto come infallibile, un’isola felice in cui accasarsi per la vita, protetto dal sacro vincolo del matrimonio. Una gerarchia piramidale macchiata dal maschio centrismo e dal patriarcato, in cui il cosiddetto “uomo di casa” impone il proprio volere, soddisfa i suoi vizi, non rispondendo a nessuno delle azioni egoiste che compie. Tirannia utilizzata per giustificare i vari soprusi e violenze, colpevolizzando la vittima, rea di essere per natura avvenente e piacente, mettendola sul banco degli imputati, evitando così di guardarsi allo specchio per fare i conti con la sporcizia accumulata nell’animo. Potentissima è la sequenza con cui la pellicola decide di chiudersi: seguendo le indicazioni chieste, Giovanni si dirige verso il paese per incontrare Paola, ignaro che sia lei a giacere per terra senza vita sotto il ponte, dovendo passare in una galleria; Il personaggio quasi scompare nella profondità di campo, per essere inghiottito in un tunnel senza uscita, in cui non si scorge il minimo bagliore di luce, condizione a cui l’umanità è irreversibilmente condannata.

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