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Recensione – Killers of the Flower Moon, il testamento di Martin Scorsese

Killers of the Flower Moon: la recensione del film di Martin Scorsese

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Killers of the Flower Moon
Genere: Drammatico
Anno: 2023
Durata: 206 minuti 
Regia: Martin Scorsese 
Sceneggiatura: Eric Roth, Martin Scorsese
Cast: Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Jesse Plemons, Tantoo Cardinal, Cara Jade Myers, Janae Collins, Jillian Dion, William Belleau, Lily Gladstone, Jason Isbell, Louis Cancelmi, Scott Shepherd, Sturgill Simpson, Gary Basaraba, Michael Abbott Jr., David Born
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Colonna Sonora: Robbie Robertson
Paese di produzione: Stati Uniti d’America

Killers of the Flower Moon è un film di Martin Scorsese, distributo nelle sale cinematografiche italiane il 19 ottobre 2023. Prodotto da Apple Studios, il film è tratto dal saggio Gli assassini della terra rossa di David Grann e incentrato su quanto accaduto in Oklahoma, in particolare all’interno della contea di Osage agli inizi degli anni Venti del Novecento.

La trama di Killers of the Flower Moon, di Martin Scorsese

Prima di indicare quale sia la recensione di Killers of the Flower Moon, è fondamentale sottolineare innanzitutto la trama del film di Martin Scorsese: “Durante gli anni Venti del Novecente, sono stati scoperti nella zona diversi giacimenti di petrolio, permettendo a diversi membri della tribù indiana di Osage di arricchirsi molto. Questo nuovo stato di benessere dei nativi americani catturò l’attenzione di moltissimi bianchi, che desiderosi di far soldi con il petrolio, iniziarono a manipolare, estorcere e sottrarre con l’inganno i beni degli Osage. Parallelamente al loro arrivo in zona si sono verificati una serie di omicidi, aventi come vittime proprio alcuni cittadini facoltosi della tribù. Essendo i morti tutti proprietari di territori in cui è stata rinvenuta la presenza del bramato ‘oro nero’, l’FBI decide di aprire un’indagine sui decessi sospetti. Il ranger Tom White (Jesse Plemons) viene incaricato di indagare sul caso e scovare il killer autore di tutti questi omicidi. Nelle indagini interviene anche Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), giovane reduce della Grande Guerra, sposato con l’indiana Mollie (Lily Gladstone).”

La recensione di Killers of the Flower Moon, con Leonardo DiCaprio, Robert De Niro e Lily Gladstone

Era difficile pensare ad un Martin Scorsese che avesse ancora qualcosa da dire, a seguito di The Irishman e al tramonto di una carriera annunciato dal regista stesso; in una recente intervista, Martin Scorsese spiegava di aver compreso delle cose troppo tardi per poter dare davvero loro vita e, a seguito della visione di Killers of the Flower Moon, più che mai questa parole sembrano riecheggiare con grande intensità. La scelta della materia non è banale: Martin Scorsese decide di adattare un’opera di saggistica, che ha conquistato grande credito negli Stati Uniti e che racconta un pezzo, ormai non più rinnegato, di storia americana: lo sterminio dei nativi e, in particolar modo, di una delle ultime comunità nei primi anni del Novecento. Il motore dell’azione umana è il petrolio, quell’oro nero che immediatamente riporta ad uno dei film più significativi del cinema contemporaneo: Il Petroliere di Paul Thomas Anderson. L’approccio di Martin Scorsese è senza dubbio differente, con un film che non intende indagare a fondo della violenta personalità dell’essere umano ma che, onnisciente, si limita ad offrirne la rappresentazione dall’alto. 

 

Killers of the Flower Moon è un delicatissimo non-western che, arricchendosi degli elementi tipici del genere (la minaccia indiana, i campi lunghi, il lavoro sulla scenografia e la concezione del film secondo lo schema deleuziano), si allontana dal topos per proporre qualcosa di altro: ibridandolo, nei fatti, con lo stile di Martin Scorsese. Il regista statunitense, da sempre abilissimo nel destrutturare il sogno americano all’interno delle sue pellicole, compie qui un lavoro ancor più ardito, ragionando attraverso attraverso riferimenti temporali differenti e anticipando quella dissoluzione tipica del suo cinema; nei fatti, Killers of the Flower Moon non può distruggere il sogno americano perché questo stesso sogno è, in effetti, una menzogna, un’illusione che si genera dalla scia di sangue e di violenza di cui l’americano stesso si macchia. Lontano dall’essere un regista fazioso – pur essendo un abilissimo interprete del senso della politica e dell’arte – Martin Scorsese cambia la prospettiva a cui si è abituati nel pensare al popolo di nativi americani; così, la comunità Osage rappresentata sceglie la propria fine, pur consapevole della bramosia di potere del bianco. È di grande impatto osservare quel rovesciamento dei ruoli che viene mostrato con estrema moderazione sullo schermo: i bianchi che sono ossequiosi lacchè degli Osage, che guidano le loro auto, che li supplicano di acquistare un bene per sfamare la propria famiglia e i nativi americani, dall’alto dei possedimenti e delle estreme ricchezze, che permettono una loro lenta – ma progressiva – introduzione all’interno della loro comunità.

 

 

Martin Scorsese, che aveva dichiarato di essersi ispirato a Midsommar per il ritmo della sua narrazione, in effetti compie una scelta anticonvenzionale per il cinema contemporaneo ma che – data la materia – ripaga totalmente: procedere in senso anticlimatico, appiattendo quel senso di tensione crescente e concependo un’opera che prosegua attraverso caratteri di linearità, in ognuno dei suoi elementi contenutistici e tecnici. Non è un caso, bensì una scelta voluta, che il film si serva di una colonna sonora che resta soltanto sullo sfondo, che non dà corpo alla narrazione e che, per certi versi, può dirsi inesistente. Non è un caso, ancora, che, nonostante l’estremo lavoro di post-produzione del film, Killers of the Flower Moon venga definito da un montaggio complesso, per certi versi addirittura assente. Il Martin Scorsese di questo film è un regista che non ha più bisogno del compromesso e che non ne accetta la possibilità: se, da un lato, è la realtà dello streaming a battersi per ottenere la possibilità di lavorare con un maestro del cinema, dall’altro Scorsese comprende perfettamente il senso della fruizione del suo cinema, rinviando la percezione globale dell’opera a data da destinarsi. Il suo Killers of the Flower Moon è un film che non sente il bisogno di venire incontro ad alcuna esigenza, poiché è esso stesso il frutto di un’esigenza di sovrabbondanza strutturale: un film che lavora di addizione nell’epoca in cui si sottrae e si ibrida, in cui non risparmia alcun elemento e in cui porta, davanti alla macchina da presa, qualsiasi  possibile contenuto, non lasciando alla singola interpretazione metaforica la capacità di esprimersi. In un certo senso, Martin Scorsese sembra quasi guidarci con mano verso l’estrema complessità del suo cinema, restando sì ancorato al suo set ma permettendo anche a quest’ultimo – a differenza di quanto si contestava, in passato, per The Aviator o Gangs of New York – di assumere vita al di là dello schermo. 

 

 

Del resto, i caratteri che assumono i personaggi scorsesiani ritornano, pur se in potenza estremamente maggiore: De Niro incarna quel senso della malvagità che sovrasta, fino ad annientare totalmente, l’uomo, mentre DiCaprio torna a vestire i panni di quello stralunato straniero che si integra in una comunità, fino a diventarne vittima. In Lily Gladstone, invece, Martin Scorsese trova il personaggio più puro e riuscito della sua creatura, non solo grazie ad un’interpretazione memorabile, ma anche in virtù di una concentrazione e un occhio differente, che viene dedicato all’attrice e al suo personaggio. La Molly portata sullo schermo non è la donna che accetta la lusinga dell’uomo bianco, pur comprendendone i motivi, per la sua volontà di essere parte del sociale, ma è la persona che si fida e che scompone, per la prima volta, quel perfetto meccanismo che permette agli Osage di sopravvivere. Una donna che si lascia avvelenare giorno per giorno, che comprende di essere la vittima finale di un progetto più grande, ma che guarda alla sua esistenza con lo sguardo cieco di quell’illusione che soltanto al termine di Killers of the Flower Moon riesce – con un abbassamento di palpebre che si contrappone all’ingrossamento della mascella di DiCaprio – a scontrarsi con la realtà. 

Il testamento di Martin Scorsese

Ovunque vada il cinema, non possiamo permetterci di perdere di vista le sue origini.”, diceva Martin Scorsese in una delle sue dichiarazioni più celebri, in cui osannava la settima arte; Killers of the Flower Moon è un film che giunge, nella carriera del regista statunitense, all’età di 81 anni e, soprattutto, a seguito di un lungometraggio che prende il nome di The Irishman. Lo si specifica per un’ovvia ragione: parlare di testamento di Martin Scorsese, con questo film, sembrerebbe essere quasi sovrabbondante, sia rispetto alla sua carriera che relativamente a quel prodotto che aveva conosciuto la sala per pochi giorni, prima di sbarcare nella piattaforma di streaming di Netflix, ma che aveva riassunto la poetica, il senso della dissoluzione dell’epica e i tratti distintivi della carriera di Martin Scorsese. 

 

 

A suo modo, il Martin Scorsese di Killers of the Flower Moon non è più un regista che racconta, che si introduce al suo pubblico e che condivide gli aspetti più intimi della propria personalità. Dall’altro lato della cattedra, allora, Scorsese decide di insegnare, di farlo con un tono che sembra essere – in gran parte del film – quasi estremamente didattico, ma che racchiude in sé il senso delle origini di cui parlava all’interno delle sue dichiarazioni. Il mondo raccontato dal regista è, nei fatti, un pezzo di storia americana e, per questo motivo, occidentale. Una storia che non ha più motivo di celare il suo essere profondamente legata a quegli ideali di totalitarismo territoriale di cui gli Stati Uniti incarnano la più profonda, e intima, non-virtù razzista, ma di cui Martin Scorsese sente il bisogno di ribadire gli aspetti. La narrazione del regista è allora res publica, non nella sua accezione politica, quanto più nell’idea di “fatto noto”, elemento portato all’interesse di un pubblico che già ne conosce gli aspetti. È, però, anche un film in cui Martin Scorsese effettua un saggio del suo cinema, un fine resoconto tecnico e contenutistico della sua arte, mostrando al pubblico non più la summa poetica come in The Irishman, quanto più la chiave di accesso a quei meccanismi strutturali e realizzativi che, da sempre, costituiscono e definiscono la sua carriera. Non è un mistero che, tra citazioni ed elementi che richiamano anche soltanto visivamente la sua arte, sia possibile ottenere un collegamento con ogni film del regista che, non a caso, si concede l’ultima apparizione in cameo all’interno della sua creatura. 

 

 

Nell’epoca del postmoderno, che Scorsese non ha mai rigettato ma che, anzi, gli ha sempre permesso di trovarsi in bilico tra la concezione classica e quella contemporanea del cinema, quello di Scorsese è un incredibile atto politico, non solo per la scelta della materia storica di cui trattare, ma anche per il meccanismo di fruizione imposto allo spettatore, quasi a voler ribadire quale sia (e dove si trovi) l’essenza più pura del cinema stesso. Ed è, così, emblematico il cinema che si destruttura e decompone riducendosi a piccoli elementi artistici (la voce del narratore, gli effetti sonori, la didascalia e i giochi di luci e suoni con l’orchestra), non ancora concepiti nella loro unità. È un cinema delle origini, dunque: un’arte nucleica, che vive del senso dell’attrazione della lanterna magica o della spettacolarità del kynetoscopio; che è sì arte per vendere ma anche incarnazione di un ideale narrativo, rivolto ad un pubblico pagante: un cinema che non ancora si è fatto cinema, che vive ancora delle sue unità strutturali e che Martin Scorsese offre al suo pubblico, in dote, al termine di una carriera straordinaria. 

Voto:
4.5/5
Andrea Barone
5/5
Andrea Boggione
4/5
Arianna Casaburi
4/5
Christian D'Avanzo
4/5
Emanuela Di Pinto
5/5
Matteo Farina
3/5
Gabriele Maccauro
4/5
Alessio Minorenti
3.5/5
Matteo Pelli
4.5/5
Vittorio Pigini
4/5
Giovanni Urgnani
5/5
0,0
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