Articolo pubblicato il 4 Settembre 2023 da Bruno Santini
Landrián è uno dei Classici presentati, a seguito di un lavoro documentaristico esemplare, nel contesto di Venezia80. Diretto da Ernesto Daranas Serrano e realizzato grazie alla collaborazione con Gretel Alfonso Fuentes, Livio Delgado, Ociel Romero Lavañino, il documentario riesce nel grande obiettivo di riportare alla luce la figura del regista cubano Nicolás Guillén Landrián. Di seguito, la trama e la recensione del documentario.
La trama di Landrián, documentario di Ernesto Daranas Serrano
Prima di proseguire con la recensione di Landrián, si indica innanzitutto la trama del documentario. Si tratta della seguente: “Il restauro dei documentari di Nicolás Guillén Landrián riporta alla luce l’opera perduta del primo regista nero di Cuba, e le oscure verità attorno alla censura che la Rivoluzione Cubana fece subire al suo lavoro.” A proposito del suo documentario, il regista Serrano ha spiegato: “Negli anni Sessanta, Nicolás Guillén Landrián (1938-2003) divenne il primo regista nero di Cuba. Lo stile e la personalità distintivi dell’artista finirono per scontrarsi con le autorità della Rivoluzione Cubana: i suoi documentari furono censurati e lui fu imprigionato e sottoposto a internamento psichiatrico. Andò in esilio a Miami, dove morì nel 2003.”

La recensione di Landrián, presentato a #Venezia80
Landrián nasce dal desiderio, da parte del regista Ernesto Daranas Serrano, di recuperare le pellicole del regista cubano Nicolás Guillén Landrián, che si trovavano in un pericolosissimo stato di conservazione e che rischiavano di essere perse per sempre. L’ambiguità di fondo su cui muove l’intero processo lavorativo, che ha portato il documentario a Venezia80, riguarda l’assoluto valore tecnico, narrativo e ideologico da parte del regista cubano, studiato a ragione all’interno dei manuali accademici ma totalmente dimenticato sia in patria che all’estero. Il motivo è stato determinato soprattutto da quella fortissima posizione politica che Landrián ha assunto in vita, fiero di essere annoverato tra i rivoluzionari (pur non avendo mai deciso di aderire ad una corrente specifica del proprio paese) e per questo bollato come antigovernativo o possibile traditore del governo castrista.
Attraverso una tecnica sicuramente molto valida, che poggia su un montaggio straordinario che sa presentare e lascia vivere l’opera di Landrián senza mai prevaricarla con sguardo extra-diegetico, lo spettatore è gradualmente immerso all’interno di una narrazione che decide di mettere in secondo piano ogni commento di esperti, analisi dell’opera o contestualizzazione storica, con il solo e unico obiettivo di dar voce all’opera da parte del regista cubano, offerta nella sua purezza e distorsione. Lo stile di Landrián può essere avvicinato a quello dei registi indipendenti della scuola americana, specie del secolo scorso, soprattutto per la concezione stilistica dell’opera, che si avvicina molto all’idea della lanterna magica: alla base dei lavori del regista cubano, infatti, non c’era alcun lavoro di sceneggiatura o di altro genere. Accanto ad una sola idea, che fungeva da script, si realizzava l’opera che coinvolgeva regista, direttore della fotografia (che aiutava anche per le riprese) e pubblico, rappresentato e vivo nell’azione, nonché coinvolto anche emotivamente nell’ambito del processo creativo: il soggetto del documentario è, allo stesso tempo, anche suo co-autore, impressionato e intrattenuto com’è dalla potenza del cinema dell’autore, in grado di offrire un saggio importante della cultura cubana.
Landrián è stato, però, anche tanto altro: un regista molto importante per la sua ideologia, resa concreta attraverso quelle provocazioni che offriva, per mezzo di didascalie, all’interno dei diversi documentari. Grazie ai contributi della vedova Gretel Alfonso Fuentes e del direttore della fotografia Livio Delgado, il documentario di Serrano offre infine anche una digressione importante su quella porzione di vita – ben 14 anni – che è stata tolta al regista cubano, sia incarcerato che condotto in ospedali psichiatrici, a causa di un lavoro che non ha mai voluto interrompere nonostante i limiti del suo governo e la sua patria. Particolarmente interessante, infine, le scene che mostrano il ritrovamento delle pellicole del regista cubano, nonché il momento fondamentale del documentario in cui si osserva il processo di restauro di un solo fotogramma. Un’altra firma importante che parla di libertà – dopo quella del film Orizzonti Tatami – giunge dunque grazie al contesto di Venezia80, attraverso la sezione Classici.