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I migliori film d’autore del 2022: la classifica

Ecco la classifica dei migliori film d'autore del 2022: di seguito i 10 titoli

Il 2022 è in chiusura e sono tantissimi i titoli cinematografici − oltre 500 − rilasciati in Italia. Il cinema d’autore, dal punto di vista degli incassi, non è nel suo momento storico più fiorente; eppure la qualità quest’anno non è mancata, ed è giusto fare il punto della situazione. Si specifica che, chi stila questa classifica ha avuto l’opportunità di seguire da vicino Venezia 79, e dunque sono stati presi in considerazione i titoli presentati alla Mostra, sacrificando i film considerabili del 2021 come Licorice Pizza, The Tragedy of Macbeth e così via. Ecco allora la classifica dei 10 migliori film d’autore distribuiti in Italia nel 2022

10) EO, di Jerzy Skolimowski

Film che si aggiudicato il premio della giuria a Cannes 75 in ex aequo con Le otto montagne. Curiosa operazione dato che si tratta di un remake dello splendido Au Hasard Balthazar di Robert Bresson; ma l’importanza dell’opera di Skolimowski sta nell’antropomorfizzazione dell’asino protagonista, qui dotato di pensieri esposti con il linguaggio cinematografico. Tra lenti anamorfiche e fotografia naturale splendidamente catturata, in EO si risalta la soggettività dell’animale in rapporto con la natura e con l’uomo, triste deturpatore.

9) Un altro mondo, di Stéphane Brizé

Presentato in concorso a Venezia 78, distribuito solo quest’anno in Italia. Il film di Brizé è un meraviglioso ritratto personale di un capo d’azienda soffocato dal proprio lavoro, tanto da veder complicarsi anche la sua vita privata. La finalità dell’opera risiede nella possibilità di scoprire intimamente un individuo che potrebbe essere giudicato negativamente se visto esternamente; ma la potenza dell’occhio della macchina da presa è quella di scovare l’altro, quasi inosservabile. La delicatezza dello stile quasi documentaristico d’impronta reale, si mescola brillantemente alla finzione. Il tutto è senza retorica, senza ricatti morali, ma con grande tatto e sensibilità si instaura il percorso del protagonista alle prese con sé stesso e con la società presentata nel film.

8) Saint Omer, di Alice Diop

Film diretto da Alice Diop premiato a Venezia 79, dotato di una potenza fenomenologica che lo rende incredibilmente lucido. La presentazione di più registri, anche qui tra il documentario e la finzione meravigliosamente mescolati, rendono l’opera tra le più ammalianti dell’annata. Il processo è un luogo d’osservazione e di dibattito, dove Rama (la protagonista) è lo sguardo inizialmente imparziale che finisce per essere travolto (come lo spettatore) dalla storia di Laurance Coly. La donna ha commesso un infanticidio, annegando il suo bambino nell’acqua; l’arringa catartica nel finale di Saint Omer è da brividi, capace di ibridare la figura della regista a quella dell’attrice protagonista e alla giovane sotto processo.

7) Crimes of the Future, di David Cronenberg

L’ultimo film di Cronenberg dimostra ancora una volta la grandezza e l’abilità profetica del regista. Crimes of the Future è un ritorno a casa per Cronenberg, che rende i corpi contenitori delle trasformazioni sociali e politiche. Qui cambiano continuamente gli organi interni degli essere umani, cancellando il dolore dalla vita e innescando una serie di processi finalizzati all’introduzione di nuovi limiti, di nuove leggi che possano tenere a bada l’anarchia nella quale l’umanità si è rigettata. L’incipit è, in tal senso, un perno della pellicola: un bambino è in riva al mare mentre mangia un pezzo di plastica.

6) Tàr, di Todd Field

Anche questo titolo è stato presentato in concorso a Venezia 79, e Cate Blanchette è stata premiata con la Coppa Volpi. Tàr è un film complesso, stratifico sin dal montaggio del suono, imprescindibile per comprendere al meglio il personaggio protagonista tramite l’ascolto di rumori bianchi (auricolarizzazione interna). Con questo finto biopic, Todd Field sfoggia una sceneggiatura impavida, che non teme di dover fronteggiare il politicamente corretto. Lydia Tàr è una musicista, ed ammette di star bene solo sul podio; i suoi comportamenti sono egoistici, cinici e terribilmente ambigui: caratteristiche quasi sempre associato ad un uomo protagonista, piuttosto che una donna. Non c’è spazio per nessuna catarsi, nessuna redenzione, solo un’amara consapevolezza autodistruttiva.

5) Parigi, 13Arr., di Jacques Audiard

Il respiro parigino ed un’architettura particolare, data la composizione ad anelli concentrici della realtà urbana, introducono le storie correlate di quattro protagonisti, tre donne ed un uomo. Il film è dotato di una densità e di una sensibilità affascinanti, data la cura di scrittura dei dialoghi (toccati anche da Céline Sciamma) e delle relazioni instaurate tra i personaggi, tutti alla ricerca dell’identità personale e del proprio posto nel mondo. La spigolosità autentica dei sentimenti è il motore d’azione di questa pellicola che parte dalla metafora architettonica sopracitata, volta a far comprendere come la compattezza fisica delle persone tramite strade e quartieri, equivalga in realtà ad un elemento disgregatore

4) The Fabelmans, di Steven Spielberg

The Fabelmans è l’ultima opera di Steven Spielberg, la sua più personale. L’autenticità della pellicola viene fuori da sé gradualmente, siccome a differenza di altri suoi colleghi, il maestro attinge dalla sua vita per fare un discorso sulla potenza del cinema. Tutta la passione e il dramma familiare vissuto in adolescenza è estrapolato per dimostrare come la macchina da presa può essere fonte di verità, fine osservatrice della realtà talvolta distorta, talvolta anche evidente ma inconsapevolmente non lo si nota. I rapporti umani e l’amore per la settima arte sono il fulcro di questo splendido film, nel quale Spielberg in modo del tutto genuino sviluppa la dicotomia scienza-arte declinandola nei genitori magistralmente interpretati da Paul Dano e Michelle Williams.

3) L’isola degli spiriti, di Martin McDonagh

L’isola degli spiriti di Martin McDonagh è stato presentato in concorso a Venezia 79 e premiato per attore e sceneggiatura. Il regista utilizza la quotidianità vissuta sulla costa irlandese, con lo sfondo della guerra civile, per mostrare con humour cinico e dramma pungente i pensieri degli abitanti protagonisti. L’amicizia tra Padraic e Colm è una metafora legata alla guerra, risultando un sottotesto delicato, preciso, capace di donare liricità ad un’opera squisitamente mostrativa e per niente didascalica, a partire dall’establishing shot nell’incipit. Colin Farrell sembra essere qui alla sua miglior performance in carriera, nel pieno della maturazione; ma tutto il cast è sontuoso, con un’espressività tale da oscillare con convinzione tra i due registri.

2) Gli orsi non esistono, di Jafar Panahi

Gli orsi non esistono, ultima fatica del regista dissidente iraniano Jafar Panahi, è una di quelle opere che sembra avere su di sé le stigmate del capolavoro. Il film infatti si inserisce nella contemporaneità politica del Paese in cui è prodotto con un’efficacia e una precisione che lasciano sbalorditi. La trama di questa superba pellicola ruota intorno a uno scatto (avvenuto fuori campo) effettuato dallo stesso Jafar Panahi (che nel film interpreta sé stesso) che smaschererebbe una relazione clandestina tra due giovani che vivono nel villaggio sperduto tra le montagne iraniane in cui il regista ha stabilito il suo rifugio.

1) Nope, di Jordan Peele

Jordan Peele al suo terzo film firma il suo capolavoro. Nope è un film pienamente postmoderno, tra western (difesa della fattoria come propri confini), fantascienza e horror. La tensione è costruita magistralmente per offrire un fine intrattenimento al grande pubblico che va in sala con un’ottica diversa dal critico o dal cinefilo, ma l’occhio più attento non può non notare la grandissima metafora insita nella pellicola. Il regista, attraverso questo geniale mix di generi, presenta un discorso metacinematografico sulle immagini, tra il digitale e l’analogico, presente e passato, contemporaneo e tradizionale; il tutto per denunciare l’assuefazione dei consumatori per l’immagine stessa. Il sottotesto proprio del cinema di Peele, legato alla rappresentazione della comunità afroamericana, è inserita con maestria: sono i due gesti differenti dei fratelli protagonisti a dire tanto, poiché uno china il capo e l’altra funge in tutti i modi da intrattenimento per i capitalisti bianchi.

 

 

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