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The Whale: rinascere toccando il fondo

Darren Aronofsky riprende la competizione al festival di Venezia dopo 5 anni con “The Whale”, opera drammatica che vede il ritorno di Brendan Fraser come protagonista in un film. L’opera, basata sull’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter (che scrive anche la sceneggiatura), racconta di Charlie, un professore universitario gay che, a causa della sua obesità, è arrivato ad una situazione così grave che è probabile che muoia entro una settimana. Prima che tale giorno arrivi, Charlie farà di tutto per riconciliare il rapporto con Ellie, la sua unica figlia adolescente che non vede da 8 anni dopo aver lasciato la moglie.

In questo suo nuovo film, Darren Aronofsky decide di adottare il formato in 4:3. Tale scelta è facilmente intuibile: rendendo le inquadrature più strette, il gigantesco corpo del protagonista è al centro di ogni frame, facendoci percepire molto di più i suoi punti ingombranti e dando costantemente una sensazione di claustrofobia e soffocamento. Risulta molto efficace la fotografia di Matthew Libatique, la quale presenta tinte molto oscure che catturano l’atmosfera perennemente cupa (non a caso spesso piove), ma con l’aggiunta di piccoli tocchi di luce sparsi ogni tanto per cercare di cogliere la portata di alcuni momenti teneri, a prescindere che ci sia speranza o meno durante le scene.

Come abbiamo già anticipato, Brendan Fraser interpreta Charlie ed è incredibile come sia riuscito a rendere alla perfezione tutta la sofferenza del personaggio, senza però mai far perdere dagli occhi la sua dolcezza nemmeno nei momenti peggiori, tanto che le poche volte in cui lo vediamo arrabbiato riesce a risultare inquietante proprio perché siamo abituati spesso alla sua emissione di tranquillità solo con i movimenti del suo volto, senza parlare del suo straordinario lavoro di voce accompagnato da continui affanni perfettamente sentiti, creando quella che probabilmente è la più grande interpretazione della sua carriera. Da tenere d’occhio anche Sadie Sink che, nel ruolo della figlia Ellie assume costantemente espressioni rabbiose e scontrose ma stando molto attenta a fare percepire dei piccoli dettagli sul viso che, in pochi secondi, facciano avvertire la sua profonda sensibilità.

Il primo terzo del film si concentra soprattutto sui dettagli della vita di Charlie alle prese con il suo corpo: l’autore infatti non si risparmia nel mostrare qualsiasi caratteristica che ci faccia percepire la difficoltà di fare anche le cose più semplici, come raccogliere un oggetto, senza rischiare di sentirsi male. Viene messa a nudo senza peli sulla lingua cosa vuol dire avere così tanto peso sulle proprie ossa da non riuscire a muoversi, da non riuscire a camminare, da non riuscire a respirare. Nei momenti narrativi che siamo abituati a scorrere senza problemi in altre opere, come una semplice risata per una battuta non importante e detta giusto per un po’ di sarcasmo, diventano motivo di affanno e di soffocamento interrompendo una scena che, senza tutti qui chili, sarebbe semplicissima. Non c’è scappatoia fisica dall’obesità se essa continua a proseguire e l’autore ce lo dimostra. L’unica cosa che il protagonista riesca a fare in modo veloce, oltre che a parlare, è l’inghiottire grosse quantità di cibo in pochi secondi, mostrando quindi anche che nemmeno il cibo può apparire come un piacere momentaneo nonostante Charlie mangi in continuazione.

Ma il film non si limita solo a mostrare la distruzione dell’obesità, bensì ci immerge anche nella depressione che la provoca attraverso la mancanza di amore che Charlie prova da quando non ha più il suo compagno. Come da tradizione della filmografia di Aronofsky, da qui c’è anche un interrogativo sulla religione andando però spesso sulla critica alla chiesa cattolica o a qualunque movimento che veda l’omosessualità come una malattia: da qui l’indottrinamento del sentirsi appartenenti alla fede di Dio solo attraverso l’esclusione dell’omosessualità provoca continui disagi che distruggono i rapporti. La cattiveria causa sofferenza, la sofferenza causa disperazione e la disperazione causa depressione. E l’autore mostra il suo pessimismo anche con dei rimandi a Trump, rivelandoci che l’opera è ambientata durante il periodo dell’aumento dei voti durante le sue elezioni, come se ci venisse mostrato quante altre persone cattive a favore di estremismi vergognosi sono in circolazione tanto da poter salire al governo. Nessuna persona è esente da difetti nel lungometraggio e lo stesso protagonista Charlie è causa dei suoi mali come l’aver abbandonato sua figlia, ma Arofnosky è chiaro: l’estremismo religioso è causa delle sofferenze del mondo.

Tali sofferenze tuttavia non giustificano per forza l’abbandono alla disperazione, dal momento che l’obesità di Charlie è una sua scelta. Da qui, l’opera ci mostra varie tipi di sofferenze e vari tipi di reazioni, dimostrandoci che c’è un Charlie in ognuno di noi, perché è nostro compito cercare una scappatoia dalla distruzione, qualsiasi sia il nostro obiettivo. La risposta Charlie vorrebbe averla attraverso la figlia, con cui cerca di stabilire un rapporto. La cosa straordinaria è che il personaggio di Fraser, nonostante sia una persona che ha subito tanto nella vita, è costantemente ottimista tanto da sopportare senza problemi tutte le cattiverie di Ellie. Sua figlia infatti è rappresentata come un’adolescente non solo ribelle, ma sempre dispettosa ed apparentemente cattiva (anche se a volte tale espediente è eccessivo), come se non avesse speranza di accettare il mondo e di essere accettato da esso. E qui che Charlie, abituato ad essere discriminato sia per il peso che per l’omosessualità, non si vuole arrendere.

Nella nostra sofferenza, noi non dobbiamo mai dimenticare una cosa: fiducia e sincerità. La cosa ancora più intelligente del film è che tali gesti non sono sempre espliciti, ma possono apparire difficili da comprendere perché le azioni apparenti sembrano risultare tutto il contrario. Ci vuole apertura, ci vuole comprensione per dare fiducia al prossimo in modo che quest’ultimo si mostri. Al diavolo i pregiudizi dettati dalle dottrine, perché tutto ciò che abbiamo da dare, se lo riveliamo, potrebbe salvarci. Arofnosky non si limita a mostrare il soffocamento del grasso di Charlie, ma ci chiede di non creare un soffocamento anche alla nostra anima, cercando la luce nei momenti più bui, nonostante la depressione sia una malattia che arriva e basta e che a volte non si può abbandonare. L’autore ci mostra la caduta di un uomo, ma allo stesso tempo entra nella sua anima dando un pezzo di sé a qualsiasi tipologia di spettatore che deve trovare la sua strada guidato dall’amore e dalla sofferenza di Charlie.

“The Whale” non è esente da difetti, poiché le sue difficoltà maggiori sono dovute al fatto che l’unione tra sofferenza familiare e religione non sempre è ben equilibrato, rischiando di creare alcune scene che risultano separate o forzate rispetto al contesto, così come sarebbe stato opportuno rimuovere alcune sequenze in cui la figlia Ellie si incattivisce dando un po’ di difficoltà alla comprensione dello spettatore. Tuttavia l’immersione nella depressione, le denunce politiche e la ricerca della luce di un’umanità intrappolata nella sua distruzione interiore, la grande interpretazione di Fraser che regge tutto il film sulle sue spalle e tutti gli elementi che abbiamo appena descritto rendono l’ultima opera di Arofnosky una vera e propria analisi terapeutica dell’essere umano che potrebbe risultare per molti uno specchio di loro stessi, un dolore emotivo che vi ammazzerà ma che vi potrà anche scaldare il cuore, mentre l’ultimo abbraccio di Charlie cercherà di raggiungervi per chiedere di aprirvi al mondo e ad intrecciare le vostre anime.

Voto:
4/5
Christian D'Avanzo
2.5/5
Sarah D'Amora
4.5/5
Alessio Minorenti
2.5/5
Matteo Pelli
4/5
Paola Perri
2.5/5
Bruno Santini
2.5/5
Vittorio Pigini
4.5/5
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Voto del redattore:
Data di rilascio:
Regia:
Cast:
Genere:

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