Articolo pubblicato il 19 Maggio 2025 da Bruno Santini
La seconda stagione di The Last Of Us, realizzata ancora una volta con la collaborazione tra Neil Druckmann e Craig Mazin, giunge ad uno dei nodi fondamentali, soprattutto in vista del futuro: il sesto episodio, dal titolo Il prezzo, che riporta sullo schermo Pedro Pascal a seguito degli eventi del secondo episodio della seconda stagione e che costituisce sicuramente una presenza gradita per tutti gli spettatori, soprattutto se non precedentemente videogiocatori del titolo. Ma qual è il risultato della puntata in questione? Per comprenderlo, procediamo di seguito con la recensione della puntata 2×06 di The Last Of Us, Il prezzo.
La trama di The Last Of Us 2×06: Il prezzo
Prima di procedere con la recensione del sesto episodio della seconda stagione di The Last Of Us, vale la pena dare uno sguardo innanzitutto alla puntata in questione, soprattutto considerando tutti i cambiamenti e le licenze artistiche della serie, che genera delle profonde differenze rispetto al contenuto del videogioco. Nella puntata Il prezzo, la 2×06 di The Last Of Us, si racconta del rapporto padre-figlia tra Joel ed Ellie che si sviluppa nel corso degli anni; dopo aver inquadrato brevemente il passato di Joel, soprattutto per le difficoltà nel rapporto con un padre violento, la rappresentazione si sviluppa con la dinamica di un’interrelazione molto complicata, che porta – in un primo momento – i due a vivere delle esperienze felici (con la celebre sequenza dell’astronave e del museo), successivamente all’incrinarsi del rapporto che avviene soprattutto con la crescita di Ellie e con i suoi dubbi relativi al mancato sacrificio. Si giunge, poi, fino al momento della morte di Eugene – il cui personaggio era stato già raccontato al termine della prima puntata di The Last Of Us 2 – e allo scontro tra Ellie e Joel, che unisce più parti del videogioco in una sola puntata.

La recensione del sesto episodio di The Last Of Us 2: il ritorno di Neil Druckmann, che non basta a risollevare la serie
L’arrivo della serie di The Last Of Us, unito al contemporaneo esordio – almeno in termini promozionali – della nuova opera di Neil Druckmann con Tati Gabrielle protagonista (Intergalactic), aveva portato il celebre regista ad allontanarsi dal mondo di The Last Of Us. Se il suo contributo nell’ambito della serie era stato comunque rilevante in termini di consulenza, non si poteva dire certamente lo stesso di un approccio maggiormente pratico, e in effetti gran parte delle lacune della seconda stagione di The Last Of Us si possono far risalire ad un’assenza del suo grande creatore, che sembra quasi essersi disinteressato rispetto ad un contenuto che (ormai) sembra sfuggirgli mediaticamente dalle mani. Il ritorno di Neil Druckmann nella sesta puntata della seconda stagione di The Last Of Us, Il prezzo, coincide in effetti con il miglior episodio di questa serie, pur con un approccio completamente differente rispetto a quella medesima materia che viene raccontata all’interno del videogioco.
La volontà di raccontare un rapporto che si sviluppa nel corso degli anni – accompagnato da didascalie extra-diegetiche che mostrano il passare del tempo -, pur nella rappresentazione di un solo giorno (quello del compleanno di Ellie), è un approccio molto intelligente per mostrare l’incrinarsi costante e cadenzato di quel rapporto che appartiene a ragioni tanto endogene quanto esogene per i due personaggi. Passiamo, allora, dall’idillio di quella meravigliosa scena che è quella dell’astronave e del museo – con delle scenografie fantastiche, delle interpretazioni perfettamente riuscite e un comparto sonoro assolutamente coinvolgente – fino all’insinuarsi del dubbio di Ellie nel corso degli anni, che si interfaccia anche al tema della crescita della ragazza e dell’insorgere di quelle naturali forme di astio nei confronti della figura paterna. È interessante notare come il tema del conflitto, che nel videogioco assume un valore prettamente legato al segreto di Joel, sia qui accompagnato anche dalla dinamica adolescenziale: l’accento è spesso posto sulla componente musicale, sui poster di Nirvana, Radiohead e Pearl Jam, sulla rappresentazione di Kurt Cobain come idolo giovanile e su quella forma di ribellione spesso incompresa da parte del genitore.
Le difficoltà del rapporto padre-figlia si acuiscono necessariamente per ragioni di storia dei due personaggi, ed ecco che la sequenza che porta alla morte di Eugene (un’altra aggiunta che la serie prevede nel suo racconto) è emblematica della regia di Neil Druckmann: ancora una volta scenografie perfettamente curate, la volontà di allontanare la crudeltà del suono dello sparo optando piuttosto per una scelta differente dal punto di vista emotivo, l’aspetto del “giurare” di Joel che ritorna come un tarlo nella mente di Ellie. E ancora l’emotività che regala la scena successiva, con le lacrime della Gail di Catherine O’Hara che lasciano spazio all’impetuosa rabbia della Ellie di Bella Ramsay; insomma, che Neil Druckmann sia dietro la macchina da presa si vede non solo per un banale discorso di appartenenza, ma anche per una gestione emotiva che appare finalmente riuscita e convincente. Esistono, del resto, alcune scene celebri di backstage delle cutscenes di The Last Of Us in cui il regista è particolarmente impegnato proprio sull’aspetto emotivo dei singoli personaggi, e il risultato è piuttosto noto non solo nella storia di The Last Of Us, ma anche in quella dell’ottava arte stessa. E, infine, c’è la scena-madre di The Last Of Us, che qui cambia totalmente di significato non solo perché viene anticipata (nel videogioco c’è alla fine di tutta la storia), ma anche perché coniuga momenti che cronologicamente sono molto distanti in un unico grande dialogo padre-figlia.
Nel complesso, le differenze di cui qui parliamo richiamano esattamente quel tema che abbiamo citato nel corso dei recenti episodi di The Last Of Us: seppur nella forma di cambi di paradigma, sono scelte che hanno un senso narrativo ed emotivo, che mettono in campo una volontà di racconto finalizzata non all’originalità a tutti i costi, bensì, alla rappresentazione di nuovi e singolari aspetti narrativamente rilevanti: è ovvio che possa comunque non piacere, ma è una strada che The Last Of Us ha scelto – troppo spesso e deliberatamente – di non assumere per accontentarsi di fan-service e cambiamenti allo stesso modo inefficaci. Una puntata di questo genere, che riflette sull’arte e sul museo alla fine dell’umanità, sulla difficoltà di essere genitori e figli, sul dubbio che si insinua fino a diventare dilagante e radicato proprio come il virus del Cordyceps, può dirsi allora riuscita ma troppo tardiva: in un certo senso, per un racconto per larga parte impegnato ad allontanarsi dalla trama principale, e considerando la regia di Druckmann, era considerabile anche come un compito semplice.