Articolo pubblicato il 4 Gennaio 2024 da Bruno Santini
Aki Kaurismaki è sicuramente uno dei registi più interessanti dei nostri tempi e, indipendentemente dal suo affacciarsi all’Occidente con titoli come Ho affittato un killer e Foglie al vento, la sua carriera è ricca di titoli che dimostrano una grande attenzione nei confronti di determinati temi. Tra questi, indubbiamente, il proletariato, come dimostrato anche dalla trilogia di film ad esso dedicato: The Foundry è un piccolo esempio di quel cinema che appartiene al regista, in un corto dalla durata di meno 4 minuti che condensa perfettamente le idee del finlandese.
La trama di The Foundry, il cortometraggio di Aki Kaurismaki
C’è poco da dire a proposito della trama di The Foundry, soprattutto in virtù della breve durata del cortometraggio di Aki Kaurismaki. Il contesto è quello della fabbrica, che viene rappresentata attraverso l’attività di numerosi lavoratori che, al termine del proprio turno, possono finalmente svagarsi mangiando e guardando un film.

La recensione di The Foundry: un cortometraggio meta-referenziale
Il senso della carriera di Aki Kaurismaki è chiaro ed è volta a rappresentare gli ultimi, ovvero quegli individui che appartengono non solo ad una determinata categoria sociale, ma che sono anche umanamente predisposti a determinate tipologie di comportamento. Il proletario di gramsciana memoria non è soltanto il lavoratore di una fabbrica, ma anche quel soggetto che comprende perfettamente la sua dimensione nel mondo: una dimensione sì nucleica, ma anche destinata ad essere costantemente schiacciata dalla pressione del circostante, che richiede una costante standardizzazione e che impone ritmi, modelli comportamentali e persino passioni. Il cinema non è un arte per il proletario, allora, non perché quest’ultimo sia ignorante da non poter accedervi, ma perché fa parte di una frazione d’altro, che non è prevista dal senso cinico e spietato del capitalismo.
In quattro minuti di cortometraggio, allora, Aki Kaurismaki mette ancora in primo piano il lavoratore e lo fa per mezzo di quel meccanismo che solo apparentemente è di evasione, ma che si configura essere – comunque – parte di quel circolo vizioso che ingloba e sottomette. Il dettaglio dei volti e delle mani, mentre i biglietti vengono timbrati, sembra aderire a quei canoni estetici del modello produttivo smithiano, mentre le rughe in primo piano dei lavoratori rispondono a quell’esatta richiesta che il pensiero del cortometraggio prevede. The Foundry è, però, anche una piccolissima (ma efficace) lettera d’amore verso il cinema, che sa e può esprimersi nonostante tutto e che si presenta sotto forma di quella meta-referenzialità prevista dal suo regista; è impossibile non pensare che Kaurismaki abbia intuito la correlazione terminologica che c’è tra i registi Lumière, che omaggia in pochissimi secondi, e il film L’uscita dalle officine Lumière, mostrato agli operai: non soltanto un’associazione simpatica, ma anche il senso di quanto si specificava precedentemente; anche quando può guardare un film, allora, l’operaio osserva un prodotto che mostra la fabbrica, in un’idea di illusione collettiva dell’uscita che viene restituita dall’immagine e non dalla realtà stessa. Allo stesso modo, è da notare anche la contrapposizione tra gli attori scelti, in un ideale contraltare con l’Occidente – rappresentato dai due personaggi che timbrano e vendono biglietti, in una posizione più privilegiata rispetto al proletario – e la patria, con i secondi che sono tutti finlandesi a differenza dei primi. Uno stile, ancora una volta, asciutto e che cede al taglio documentaristico, in uno spaccato di vita che, in soli 4 minuti, dice molto più di quanto tanti proclami non sanno fare.