Articolo pubblicato il 29 Dicembre 2023 da Andrea Boggione
SCHEDA DEL FILM
Titolo del film: Marianne
Genere: Drammatico
Anno: 2023
Durata: 93′
Regia: Michael Rozek
Sceneggiatura: Michael Rozek
Cast: Isabelle Huppert
Fotografia: Céline Bozon
Montaggio: Virginie Seguin
Paese di produzione: Regno Unito
All’interno della 41° edizione del Torino Film Festival, tra i titoli della sezione Fuori Concorso, c’è l’esordio alla regia di Michael Rozek, ex-giornalista e creatore della popolare newsletter Rozek’s, “Marianne”, film che mescola sperimentazione e metacinema con protagonista la sola Isabelle Huppert, la quale si districa in un profondo monologo rivolgendosi direttamente al pubblico. Di seguito la trama e la recensione del film presentato al TFF.
La trama di “Marianne” di Michael Rozek
Marianne, interpretata da Isabelle Huppert, comodamente seduta sul divano di casa sua riflette e legge il copione di un nuovo film a cui dovrebbe lavorare. La sceneggiatura la porta a riflettere sul cinema, la società, l’arte, l’amore, la contemporaneità, la vita e la morte. La donna, rivolgendosi direttamente allo sguardo degli spettatori, legge e racconta una storia, o meglio un’analisi, con un lungo monologo che riflette anche sulla verità e la realtà della stessa operazione cinematografica.

La recensione dell’esordio alla regia di Michael Rozek
Tra citazioni, speculazioni, riflessioni e pensieri si sviluppa un grande ed infinito monologo della protagonista, interpretata dalla meravigliosa attrice francese, confezionato dall’esordiente Michael Rozek. Dopo una carriera intera dedita al mondo del giornalismo, passata a scrivere articoli per testate del calibro di Esquire, Sport Illustrated e Rolling Stone, l’ex-giornalista statunitense ha deciso di realizzare nel 2023 il suo primo lungometraggio e la sua prima prova dietro la macchina da presa in veste di regista e sceneggiatore. Non è mai facile fare un salto del genere e cadere subito in piedi, molti attori, scrittori e sceneggiatori nel corso degli anni hanno tentato di ricoprire un ruolo diverso ed intraprendere una nuova carriera a volte totalmente diversa dalla precedente. Aaron Sorkin, Ben Affleck, Clint Eastwood, Mel Gibson, Ron Howard, sono solo alcuni dei primi nomi che vengono in mente quando si parla di attori, sceneggiatori, drammaturghi che dopo aver raggiunto il successo nel loro campo hanno preso la decisione di realizzare un film come registi, un ruolo tutto fuorché semplice da rivestire, soprattutto in un cinema che non è più figlio di un forte star system e dove l’originalità è sempre più difficile da raggiungere e trasporre sul grande schermo.
Rozek tenta, quindi, di rendere speciale questo suo primo progetto cinematografico: partendo dall’iconico viso della Huppert, il regista realizza un’opera dai tratti sperimentali che si sviluppa lungo tre sole scene, riprese fisse che solamente un paio di volte si avvicinano al volto della protagonista attraverso uno zoom altamente percepibile. L’attrice interpreta un ruolo particolare, si appresta a leggere o ripetere frase per frase, intervallate spesso da pause imbarazzanti e ragionamenti, quanto scritto sulla sceneggiatura, ma tutto quello che la circonda è un luogo asettico, dalla sua casa al supermercato, una serie di scenografie irrilevanti che portano il pubblico a porre l’attenzione solo ed unicamente sul volto e sulle parole di Marianne. Nonostante la performance della nota attrice, questa particolare operazione risulta tutto fuorché originale, profonda o quantomeno interessante. Novante minuti che, sfortunatamente, non fanno altro che raccontare l’ovvio ed una serie di banalità da cui non traspare chissà quale messaggio, portando la povera protagonista a doversi rivolgere forzatamente al pubblico con un monologo a tratti soporifero e senza un grande senso logico. Se l’obiettivo della pellicola è quello di intrattenere, questa volta il risultato non è assolutamente dei migliori, il film, infatti, finisce per essere prolisso, ossessivo ed estremamente ripetitivo.
La grande consapevolezza di fondo di “Marianne” è, probabilmente, il difetto più grande di un film che non ha una direzione e non vuole averla. Una scelta che non fa altro che rendere sterile tutta la profondità che in realtà il regista vorrebbe e desidererebbe far percepire o quanto meno trasmettere agli spettatori. Ogni pausa, ogni attimo è scandito dalla voce di un personaggio che tenta in tutti i modi di attirare a sé l’attenzione e lo sguardo di un pubblico che, però, non può che fare a meno di sentirsi fuori luogo di fronte ad uno spettacolo completamente vuoto e privo di qualsivoglia significato. Se il traguardo che l’autore voleva e vuole raggiungere era rappresentare la realtà, l’esatto momento in cui lo spettatore sta guardando e osservando, non è di certo così che si può intraprendere un percorso che mostra semplicemente una grande mancanza di idee nella realizzazione di un prodotto audiovisivo che abbia almeno un senso.

Un grande esperimento fallito
“Marianne” è una sorta di esperimento fallito, un’egocentrica operazione cinematografica che nemmeno la grande intererete Isabelle Huppert riesce, attraverso il suo incredibile talento, a portare sulle sue spalle. Tutto quello che viene raccontato non fa altro che sottolineare i difetti di un progetto che tenta di omaggiare il cinema e, forse, l’arte in generale, ma senza riuscirci. La scelta di utilizzare uno stratagemma narrativo poco originale, la creazione di un monologo che pare infinito e l’imbarazzo che traspare dagli occhi dell’attrice e si riflette nello sguardo del pubblico attonito finisce, infatti, per portare la protagonista a rivolgersi al pubblico e gridare: “Sveglia!”. Se è vero che tutto può essere considerato arte o dal valore artistico, non è questo il caso, nonostante tutte le buone intenzioni, l’uso del metacinema e dello sfondamento della quarta parete. Quel che è certo è che non serve scomodare istituzioni della settima arte come i fratelli Lumiere, Tarkovskij, Bergman o qualsivoglia altro grande maestro o artista per raccontare il cinema, le emozioni o la vita. A volte, seppur banalmente, giocare con il cinema, tutte le sue caratteristiche e sfumature non porta per forza al risultato sperato. Alla fine, anche se ha un certo tipo di valore la classica frase ad effetto, quello che rimane di un film spesso sono le immagini, quelle che, però, mancano in questo lungo e sfortunato vaniloquio che non fa altro che girare inequivocabilmente su sé stesso.