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Recensione – Tony Manero: il delirio ossessivo di Pablo Larraín

Recensione - Tony Manero: il delirio ossessivo di Pablo Larraín

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Tony Manero
Genere: Drammatico
Anno: 2008
Durata: 98 minuti
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Pablo Larraín, Mateo Iribarren e Alfredo Castro
Cast: Alfredo Castro, Amparo Noguera, Héctor Morales, Elsa Poblete
Fotografia: Sergio Armstrong González
Montaggio: Andrea Chignoli
Colonna Sonora: Juan Cristóbal Meza
Paese di produzione: Cile, Brasile

Secondo film di Pablo Larraín, a seguito dell’esordio di Fuga, oltre che vincitore del premio come miglior film e come miglior attore al Torino Film Festival, Tony Manero è un’opera che riesce ad esprimere perfettamente la filosofia e il pensiero dell’autore cileno, qui impegnato in un lavoro delicatissimo che permette di rendere palpabile non soltanto l’ossessione, ma anche la prospettiva storica che resta sullo sfondo. Di seguito, la trama e la recensione di Tony Manero, con Alfredo Castro nei panni del protagonista. 

La trama di Tony Manero, diretto da Pablo Larraín

Prima di proseguire con la recensione di Tony Manero di Pablo Larraín, vale la pena indicare innanzitutto la trama del film in questione. Di seguito, la sinossi dell’opera: “Santiago del Cile, 1979. Raúl Peralta è un uomo ossessionato dal personaggio interpretato da John Travolta nel famoso film La febbre del sabato sera. Egli passa gran tempo delle sue giornate ad imparare passi di danza da proporre poi ogni sabato sera in una discoteca di periferia. Lo stato di alienazione nel quale si trova a vivere il protagonista, deciso a tutto pur di poter vivere come il suo mito, lo porta a compiere crimini sempre più efferati e senza senso, che passano però inosservati. La lenta e progressiva follia di Raúl finirà per coinvolgere anche le persone che gli stanno vicine.”

La recensione di Tony Manero: l’ossessione di Pablo Larraín 

La recensione di Tony Manero di Pablo Larraín non può che partire dall’elemento che il regista decide di lasciare abilmente sullo sfondo, evocandolo attraverso espedienti che inquadrano perfettamente una situazione sociale disastrata e una realtà nazionale colma di inquietudine. In effetti, se il trattamento dell’ossessione del protagonista appare centrale nell’ambito della narrazione, il film riesce a parlare anche di altro, rispetto a quel tema che il regista vuole offrire scena per scena, inquadrandosi in una cornice lontana dalla cultura occidentale e dal suo senso prettamente storico e politico, ma resa necessaria per immagini: Larraín non descrive mai didascalicamente il Cile rappresentato, ma si limita a offrirne una prospettiva immaginifica esemplare, attraverso lunghe strade vuote e disabitate, in cui governa la polizia governativa pronta a catturare e punire ogni possibile dissidente. Nel contesto generale di questa nazione, la criminalità appare il mezzo più necessario per la sopravvivenza, venendo immediatamente trasformata in qualcosa d’altro: il Raúl Peralta della pellicola vive, infatti, in un complesso di delicate scelte, che declinano la sua vita in un turbine ossessivo che porta verso la risoluzione finale. Nel contrasto tra stili esistenziali, dunque, il personaggio interpretato da Alfredo Castro è un privilegiato, nonostante la sua condizione precaria: è colui che può scegliere la condotta criminale, che ha la possibilità di dettare il corso della sua esistenza, dunque è per questo motivo il carnefice, opposto invece a quei corpi pronti ad essere assassinati e seviziati dal suo processo ossessivo. 

 

A proposito di ossessione: il fondamento da cui prende le mosse il film di Pablo Larraín è il delirio da parte del protagonista, che ha visto decine e decine di volte al cinema La febbre del sabato sera, diventando ossessionato dal personaggio di Tony Manero che decide di riprendere, tanto nell’immagine quanto negli elementi più simbolici (come, ad esempio, il numero di bottoni); è un’ossessione così viscerale da superare il confine dell’immagine e trasformando l’esistenza stessa del protagonista, che risponde – a chi gli chiede che cosa faccia di lavoro – “Questo”, in riferimento al suo nuovo stile di vita. Pablo Larraín si prende del tempo per mostrare, a poco a poco, il percorso infernale da parte di Raúl Peralta, abituando anche lo spettatore alle sue scelte: se il primo omicidio appare improvviso e brutale, l’intero percorso successivo del protagonista riesce ad essere inquadrato perfettamente grazie allo sguardo mai giudicante del regista, che ne indica gli stadi in maniera cadenzata. Raúl è un uomo fortemente egoista, che vive totalmente alienato rispetto ad una società che non lo rappresenta e che, seppur riconoscesse il suo valore (è il senso della gara di ballo finale), non potrebbe comunque offrirgli il riconoscimento sperato. In fondo, la consapevolezza di vivere in un ambiente da cui è lontano nell’ideologia genera il suo totale dissenso, rispetto ad un mondo con cui non condivide alcuna base: ogni desiderio, pulsione o azione che possa essere realizzata porta il protagonista del film ad un solo e unico obiettivo, l’immagine di Tony Manero, tanto che l’assenza del film al cinema (sostituito da un altro film con John Travolta) provoca in lui una mania omicida. 

 

La rappresentazione del delirio ossessivo riesce perfettamente a Pablo Larraín, che sa svuotare di senso la vita di una persona, riqualificandola in qualcosa di altro e mostrando tutti gli effetti disastrosi di quel Cile di Pinochet, che viene evocato sullo sfondo e che distrugge psicologicamente la vita di ogni persona. Al termine di ogni processo destabilizzante c’è però quel contentino, offerto forzatamente ad ogni cittadino: è quell’immagine promozionale, quella porzione di altro mondo di cui si è privati, quella réclame che echeggia sullo sfondo e che si osserva in televisione, nell’incapacità di conciliare quel sogno americano rappresentato con una vita che scorre, invece, in senso totalmente opposto. Brutale fino alla fine così come il suo protagonista, Tony Manero mostra la sconfitta di una vita che è stata rincorsa a tutti i costi, dequalificando il senso (qualora ce ne sia davvero uno) di ogni scelta di Raúl Peralta in quel secondo posto finale, che vede l’attore essere sconfitto da un suo giovane rivale. Ed è in quel momento che il regista cileno, che mostra il protagonista in un autobus che osserva il vincitore della gara, lascia soltanto immaginare lo spettatore a proposito della scelta che sarà compiuta: un lavoro di estrema perfezione in termini di scrittura, che si accompagna ad un’interpretazione pregevole e alla capacità di sporcare la pellicola il più possibile, sapendo restituire quella prospettiva altra rispetto all’esistenza di chi guarda e condensando, in un Cile ancora perfettamente rappresentato, tutto il male di una politica contro la quale si schiera. 

Voto:
4.5/5
Christian D'Avanzo
4.5/5
Gabriele Maccauro
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