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Recensione- Il club, il capolavoro di Pablo Larrain

foto di copertina di il club

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: Il club
Genere: Drammatico
Anno: 2015
Durata: 97 minuti
Regia: Pablo Larrain
Sceneggiatura: Guillermo CalderónDaniel Villalobos e Pablo Larraín
Cast: Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro e Alejandro Goic

Fotografia: Sergio Armstrong
Montaggio: Sebastián Sepúlveda
Colonna Sonora: Carlos Cabezas
Paese di produzione: Cile

Il Club è un film del 2015, diretto dal regista cileno Pablo Larrain. La pellicola fu presentata in concorso alla 68esima edizione del Festival del cinema di Berlino dove vinse il Gran premio della giuria, inoltre fu candidato dal Cile come film per rappresentare il Paese agli Academy Awards dello stesso anno.

 

Di seguito la trama e la recensione di Il Club.

La trama di Il club, diretto da Pablo Larrain

La trama ufficiale della pellicola è la seguente: “Un prete viene inviato dalla Chiesa cattolica in una piccola cittadina balneare cilena dove altri prelati e suore caduti in disgrazia, sospettati di crimini che vanno dall’abuso sui minori al rapimento di bambini da madri non sposate, vivono in isolamento dopo che si è verificato un incidente.

immagine di il club

La recensione di Il club, una sublime opera politica

Raramente capita di assistere a delle analisi sociali e antropologiche in forma filmica così precise e taglienti come quelle che effettua Pablo Larrain riguardo il Cile nelle opere più stratificate e complesse della sua carriera. La radice di tutti i mali viene rintracciata dal grande regista cileno nella dittatura di Pinochet, evento intorno al quale ruotano in modo più o meno diretto tutti gli eventi narrati nella pellicola. Film come Il club paiono quasi al di fuori del tempo e sicuramente poco si adattano al sentire comune contemporaneo e al modo di far cinema attuale. L’opera intraprende una strada estremamente pericolosa ma stimolante lungo la quale tuttavia capita spesso di vedere le pellicole soccombere sotto il peso di un onere troppo gravoso da sostenere, Larrain infatti decide scientemente di sospendere il giudizio morale nei confronti delle orribili personalità che sta descrivendo e lascia che sia la storia stessa a guidare lo spettatore. Nessuno dei personaggi è additato come soltanto cattivo e dietro le loro scelte vi è un infinito campionario di gradazioni di grigio nelle quali convergono la meschinità più bieca dell’animo umano, le fragilità derivanti da tragedie personali e le circostanze storiche in cui le proprie azioni vengono messe in atto.

 

La grandezza di Larrain sta nel mostrare e non nel sentenziare, il regista seguendo la lezione di Martin Scorsese “ama” i suoi personaggi a prescindere che ne condivida o meno le azioni e i pensieri perché questo è l’unico vero modo di narrarne la storia. Se poi molti film degli ultimi anni hanno sottolineato l’importanza simbolica e sociale dell’istanza del processo pubblico (vedasi Argentina 1985) per un Paese al fine di fare i conti con il proprio passato, qui ad essere messo in scena è un anti-processo da cui scaturisce una sentenza che non può che essere occulta. Il legame a doppia mandata con cui sono legate la storia del sud-america e la storia della Chiesa cattolica è per Larrain un imprescindibile punto di partenza della sua analisi. Al di là degli evidenti richiami del film nei confronti degli innumerevoli casi di insabbiamento della Chiesa per salvare la sua reputazione e quella dei suoi preti (Il caso Spotlight) ciò che preme sottolineare all’autore cileno è il modo in cui la cultura cattolica abbia permeato fin nel profondo quella del suo Paese frenandone la rincorsa verso la democrazia.

 

Lo stile scelto dal cineasta per intrecciare queste raggelanti vicende personali con la sanguinosa storia del Cile di Pinochet è sublime. Ogni taglio di luce, ogni piano scelto per inquadrare i personaggi non fa altro rendere più torbida la percezione delle immagini a schermo. Il pantano morale e la desolazione umana che fungono da sfondo alle vicende narrate non possono no mettere in crisi e inevitabilmente pongono scottanti spunti di riflessione. Come spesso accade nelle opere di Larrain infatti la scelleratezza umana volta a danneggiare la società intera  è più perniciosa  di comportamenti a prima vista più efferati ma attuati in un contesto più individualistico. Questa forte contrapposizione raggiunge qui il suo apice  in quanto spinge lo spettatore ad adottare le lenti della razionalità per investigare riguardo i lati più oscuri dell’animo umano. Il regista sembra continuamente intento a cercare di provocare reazioni umorali nello spettatore, a indurre in tentazione il suo senso di giudizio, a spingere verso una facile distinzione tra bene e male. Tuttavia la rielaborazione di eventi tragici come quello di una dittatura non prevede facili prese di posizione e decifrare ciò che è accaduto equivale a incunearsi nelle pieghe più abiette dell’animo umano, a considerare gli effetti a lungo termine e non pensare che chi compie certi atti sia altro da se stessi. Larrain riesce in modo sublime a convogliare tutte queste idee, arricchendole con suggestioni visive dalla rara grazia. Questo cineasta infatti traduce in virtù di una rara sensibilità artistica la realtà in arte, la prospettiva che fornisce è privilegiata, sembra quasi essere in grado di dare senso a eventi altrimenti avviluppati nel caos dell’esistenza.

 

Guardare Il club non è un atto catartico, non vi è alcuna liberazione, il processo non produce i colpevoli che ci si aspetterebbe di additare come tali, l’ambiguità morale e il senso di devastante desolazione che lascia nell’animo è rintracciabile forse solo nelle opere di un altro grande regista contemporaneo come Rodrigo Sorogoyen. Gli abissi morali scandagliati da Larrain in questa pellicola sono tuttavia per ogni spettatore un punto di non ritorno.

Voto:
5/5
Christian D'Avanzo
4.5/5
Bruno Santini
4/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
0,0
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0,0 su 5 stelle (basato su 0 recensioni)
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