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L’ultimo dei mohicani: la recensione del film di Michael Mann

Ecco la recensione di L'ultimo dei mohicani, film di Michael Mann

SCHEDA DEL FILM

Titolo del film: L’ultimo dei mohicani
Genere: Avventura, Western, Sentimentale
Anno: 1992
Durata: 112 minuti
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: John L. Balderston, Paul Perez, Daniel Moore, Michael Mann, Christopher Crowe
Cast: Daniel Day-Lewis, Madeleine Stowe, Russell Means, Eric Schweig, Jodhi May, Steven Waddington, Wes Studi, Maurice Roëves, Patrice Chéreau, Edward Blatchford, Terry Kinney, Tracey Ellis, Justin M. Rice, Pete Postlethwaite, Colm Meaney, Mac Andrews, Malcolm Storry, Dennis J. Banks
Fotografia: Dante Spinotti, Douglas Milsome
Montaggio: Dov Hoenig, Arthur Schmidt
Colonna Sonora: Randy Edelman, Trevor Jones
Paese di produzione: USA

L’ultimo dei mohicani è un film del 1992 diretto da Michael Mann, il quale rinnova il sodalizio con Dante Spinotti come direttore della fotografia, cominciato con il precedente Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986). Uno degli attori più talentuosi di Hollywood, ovvero Daniel Day-Lewis, per immergersi nel ruolo di Occhio di falco ha vissuto diversi mesi a contatto con la natura selvaggia. Il film tratto dall’omonimo romanzo scritto da James Fenimore Cooper, vinse un Oscar nella categoria miglior suono, ma non ottenne altre candidature al di fuori di quest’unica nomination, tramutata poi in un premio concreto. Di seguito la trama e la recensione di L’ultimo dei mohicani, film diretto da Michael Mann. 

L’ultimo dei mohicani: la trama del film diretto da Michael Mann

Di seguito la trama del film diretto da Michael Mann, intitolato L’ultimo dei mohicani

 

“La vicenda è ambientata nel 1757 in America e segue le vicissitudini degli ultimi mohicani superstiti, nel corso della Guerra dei sette anni. Il conflitto tra Francia e Inghilterra ha portato una grande devastazione nel paese e le varie tribù di nativi americani sono state costrette a schierarsi dalla parte di uno dei due invasori. Di conseguenza, il clima di tensione è cresciuto a dismisura e le tribù hanno subito gravi perdite, che desiderano fortemente vendicare. I tre mohicani, l’ex capo tribù Chingachgook (Russell Means), suo figlio Uncas (Eric Schweig) e il figlio adottivo Nathan ‘Occhio di Falco’ (Daniel Day-Lewis), di origine inglese, si rifiutano di partecipare al massacro.

 

Quando la tribù Urone tende un’imboscata agli inglesi, tuttavia, i tre raminghi decidono di aiutarli. Le figlie del generale britannico Munro, Cora (Madeleine Stowe) e Alice (Jodhi May) sono molto riconoscenti per il loro fondamentale intervento e Nathan e Uncas finiscono con l’innamorarsi delle splendide fanciulle. Per questo motivo, accettano di scortarle in un luogo sicuro. Il viaggio attraverso le loro terre li costringerà a contemplare la rovina della loro casa e il crescente antagonismo tra le tribù native. Intanto, le truppe francesi assediano Munro e il generale è obbligato a chiedere una tregua, mentre Nathan e Uncas invitano i loro connazionali a cessare tutte le ostilità. L’esito delle trattative, tuttavia, non soddisfa i bellicosi Urone, comandati dall’implacabile Magua (Wes Studi). L’uomo, che ha subito un atroce lutto per colpa degli inglesi, non ha intenzione di perdonare il nemico ed è pronto a scontrarsi con gli ultimi mohicani.”

Ecco la recensione di L'ultimo dei mohicani, film di Michael Mann

L’ultimo dei mohicani: la recensione di un’avventura western firmata Michael Mann

L’ultimo dei mohicani è il frutto di un regista che con le immagine fa un po’ quello che vuole. Michael Mann si dimostra sin dall’esordio con Strade Violente, e soprattutto con il successivo Manhunter – Frammenti di un omicidio, un creatore di mondi nonché una penna sopraffina perciò che concerne l’elaborazione identitaria e psicologica dei suoi personaggi. Il film in questione, cronologicamente il quarto in carriera di Mann, è l’esempio calzante della potenza sensoriale insita nella macchina cinematografica. D’altronde, il cinema classico viene qui mescolato a due dei generi classici per eccellenza, ovvero il noir e il western, creando una storia d’avventura epica e stracolma di pathos. E non è nemmeno un caso che il regista abbia scelto il cinemascope come formato, tanto caro ai campi lunghi western e ai kolossal del passato: l’effetto è quello delle immagini come un fiume in piena, pronte a strabordare e ad avvolgere in sé (emotivamente) gli spettatori. In L’ultimo dei mohicani la natura rappresentata dai tomahawk e proprio dai mohicani viene messa in pericolo dai conflitti politici, economici e sociali esterni. La Guerra dei sette anni viene mostrata all’interno del racconto con la feroce opposizione tra l’Inghilterra e la Francia, due nazioni storicamente intente a voler dominare in lungo e in largo, fosse anche solo per autocompiacersi. Tale fattore però si lega indissolubilmente alle due civiltà selvagge, facendo sì che anche queste popolazioni si macchino di sangue, di vendetta e di ambizioni illusorie.

 

Se il western è presente nell’ambientazione, nei personaggi, nella brama di ricchezza e nella convulsa difesa del proprio confine territoriale, il noir intinge i personaggi di diverse sfaccettature, e lo fa con l’introduzione e il costante accompagnamento della fotografia antinaturalistica realizzata da Dante Spinotti. Quest’ultimo riesce perfettamente a costruire le ombre in contrasto con la scenografia naturale dove è stato girato il film, avvalendosi di espedienti artigianali quanto funzionali, e mette così in risalto l’affanno dei protagonisti, la loro forza espressiva e i relativi sentimenti. Il primo piano per Michael Mann assume un senso profondamente spirituale, anche perché l’alternanza tra le inquadrature in cinemascope e quelle per l’appunto strette, rappresenta un’intuizione stilistica impressionante, colma di significato. Il territorio, quindi, è ampissimo, ma sono la vicenda storica violenta e la mentalità diffusa tra i popoli ad essere chiuse e ottuse. Al di fuori dei protagonisti e dei loro nobili valori, palesati tramite i continui sacrifici proposti prima da uno e poi dall’altro (ricalcando concettualmente il noir), il personaggio di Magua, il generale francese Montcalm e il generale britannico Munro sono vittime della loro stessa politica, la quale è egocentrica, patriottica e al contempo individualista. Ebbene sì, perché la tensione individuale si estende ad un’intera nazione, la quale si pone in bilico di fronte l’altra, ansimante per l’ottenimento di una pace forzata e assolutamente non sentita. Non importa quali sono le ragioni di un esercito e quali sono quelle dell’altro, dato che la profondità di campo da cui Magua esce in penombra, nella sua prima apparizione, è figlia di un conflitto penetrante che, come anticipato, ha travolto negativamente anche le civiltà selvagge e la natura. Tant’è che alla fine del film Nathan intende donare la sua vita per salvare Cora, pur avendo sottolineato in precedenza una distanza siderale per cultura e modi di vivere.

 

E infatti proprio questa distanza non dovrebbe avere la meglio sull’umanità, altrimenti le vittime innocenti non si potrebbero più contare, e si finirebbe con il darsi addosso l’un l’altro senza nemmeno ricordare per quale motivo lo si sta facendo. Mann nelle sequenze d’azione si avvale di una colonna sonora epica e intensa, la quale è capace di accrescere ancor di più un’accesissima tensione, e il tema principale viene sapientemente modificato in molteplici occasioni per corredare al meglio le immagini. Inoltre, il suono amplifica il respiro di Nathan, così come lo scorrere dell’acqua della cascata, le esplosioni dei colpi da fuoco e i danni inflitti dai guerrieri tomahawk. La combinazione dei reparti e dei rispettivi elementi rende l’esperienza visiva finemente percettiva, e ciò vale anche quando su schermo prendono vita gli scambi di sguardi, talvolta sensuali, tra Nathan e Cora. La scena del loro primo bacio, anche qui fotografata con la luce delle candele a squarciare il buio della natura, è semplicemente memorabile. L’ultimo dei mohicani si erge così a puro cinema classico, un’avventura western tanto lontana quanto spaventosamente attuale. Gli spettatori di questo vengono avvisati, e la genuinità delle emozioni trasposte riesce a far comprendere loro quanto l’orrore (buio) può essere contrastato dall’indulgenza e dalla comprensione umana (luce). 

Voto:
4.5/5
Andrea Barone
4.5/5
Andrea Boggione
4/5
Gabriele Maccauro
4/5
Alessio Minorenti
4/5
Matteo Pelli
4.5/5
Vittorio Pigini
4/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
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Data di rilascio:
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