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Recensione: Lost in Translation – L’amore tradotto, film diretto da Sofia Coppola

Ecco la recensione di Lost in Translation - L'amore tradotto, del 2003

Lost in Translation – L’amore tradotto, è un film del 2003 scritto e diretto da Sofia Coppola, qui alla sua seconda opera dopo l’esordio con Il giardino delle vergini suicide. Si tratta di un film dalla durata di circa 105 minuti, improntato sia sul dramma che sulla commedia. Nel cast figurano Bill Murray e Scarlett Johansson, ma ci sono anche Akiko Takeshita, Giovanni Ribisi, Anna Faris, Catherine Lambert, Ryuichiro Baba, Francois Du Bois, Shigekazu Aida, Richard Allen, Gregory Pekar, Hiroko Kawasaki, Akira Yamaguchi, Kazuo Yamada, Tim Leffman, Yutaka Tadokoro, Jun Maki, Tetsuro Naka, Kanaka Nakazato, Asuka Shimuzu, Kazuyoshi Minamimagoe, Fumihiro Hayashi, Kazuko Shibata Take, Ikuko Takahashi, Koichi Tanaka, Hugo Codaro, Akiko Monou, Akimitsu Naruyama, Hiroshi Kawashima, Hiromix, Daikon, Nobuhiko Kitamura, Nao Kitman, Akira, Kunichi Nomura, Yasuhiko Hattori, Osamu Shigematu, Mathew Minami, Kei Takyo, Ryo Kondo, Mark Willms, Lisle Wilkerson. Il secondo film della Coppola le è valso anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2004. Di seguito la trama e la recensione di Lost in Translation – L’amore tradotto, scritto e diretto da Sofia Coppola

La trama di Lost in Translation – L’amore tradotto, film scritto e diretto da Sofia Coppola

Di seguito la trama di Lost in Translation – L’amore tradotto, film scritto e diretto da Sofia Coppola, qui al suo secondo lungometraggio:

 

“La star del cinema ormai in declino Bob Harris (Bill Murray) si dirige in albergo a bordo di un taxi dopo essere arrivato a Tokyo. Con occhi sgranati e curiosi guarda dal finestrino dell’auto la metropoli giapponese. L’attore è a Tokyo per girare uno spot pubblicitario di una marca di whisky. Arrivato in un hotel di lusso, una delegazione appartenente all’agenzia pubblicitaria lo accoglie portandogli dei piccoli regali e dandosi appuntamento all’indomani. Una volta sistemate le sue cose in camera e fatta una doccia, Bob rimane seduto un momento, con aria spaesata si guarda intorno, domandandosi probabilmente che cosa ci stia a fare lì. Sceso al bar, si ferma al banco per concedersi un drink. Lì due giovani in viaggio d’affari lo notano e lo riconoscono, ma Bob saluta infastidito e si allontana.

 

In un’altra camera dell’albergo alloggia la giovane Charlotte (Scarlett Johansson), che accompagna in viaggio il marito John (Giovanni Ribisi), fotografo in ascesa. Di notte, insonne, seduta sul letto, fissa il panorama fuori dalla sua finestra e lo sguardo si perde dietro le mille luci della città. Il mattino seguente, John saluta frettolosamente Charlotte: un nuovo servizio fotografico lo aspetta. Rimasta sola e con la consapevolezza di essere poco compresa, la giovane s’interroga sul rapporto col marito, poiché la sua fame di successo l’ha messa in secondo piano. Bob intanto arriva sul set allestito per lo spot del whisky, ma non si sente molto a suo agio: tutti parlano giapponese e le traduzioni dell’interprete lo lasciano un po’ perplesso. Una sera, Bob e Charlotte si trovano per caso al bar dell’albergo e iniziano a parlare. Entrambi insonni, finiscono per passare molto tempo insieme. L’incontro di due solitudini interiori farà nascere un rapporto speciale.”

Ecco la recensione di Lost in Translation - L'amore tradotto, del 2003

La recensione di Lost in Translation – L’amore tradotto: il secondo film della Coppola è incentrato sulla comunicazione e la solitudine interiore

Al suo secondo film Sofia Coppola prolunga quanto di buono aveva già mostrato nel precedente Il giardino delle vergini suicide, tratteggiando con maturità la difficoltà che le persone hanno nel comunicare tra loro, diventando frequentemente vittime della solitudine interiore. In Lost in Translation – L’amore tradotto i due protagonisti vengono presentati tramite sequenze parallele scisse dal montaggio alternato, ma accomunati dalla sensazione di vivere come in una bolla nella quale vige la privatizzazione sensoriale. Sia la Charlotte interpretata da una giovane e talentuosa Scarlett Johansson, che il Bob interpretato da un mai così intenso Bill Murray, sono persone a cui mancano dei veri e propri stimoli nella vita di tutti i giorni, e nella grande metropoli di Tokyo sembrano sopravvivere per inerzia. Bill Murray che, tra l’altro, dimostra qui di essere come una maschera invecchiata, gravosa da indossare ma pur sempre specchio del vissuto. Bob è un uomo che accetta il suo fallimento, ma fa fatica a rapportarsi con gli altri essere umani, i quali dal suo punto di vista appaiono come superficiali e stupidi. Tale visione è condivisa da Charlotte, giovane studentessa di filosofia intenta a superare la noia del recente matrimonio con un fin troppo entusiasta fotografo.

 

Se in Il giardino delle vergini suicide il tono drammatico veniva alleggerito da quello volto al grottesco, in Lost in Translation – L’amore tradotto vi è invece un brillante mix tra la commedia sofisticata degli anni Trenta e quel vagare senza meta che ricorda vagamente i personaggi di Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, tanto che di La Dolce Vita (1960) viene osservata una scena in televisione dai due protagonisti. L’atmosfera che genera la Coppola, tramite il suo delicato modo di inquadrare, permea l’opera nell’intimità, processando Tokyo con dei tocchi iperrealisti, e di conseguenza accentuando il contrasto tra una metropoli densamente popolata e due anime attente e sole nel loro gironzolare. La scenografia è moderna, minimale, elegante, restituendo così l’idea dello stile di vita di un uomo come Bob, strapagato per un breve spot pubblicitario. Sono invece le location fuori dall’hotel a trasporre brillantemente la maggior leggerezza appartenente a Charlotte, poiché le luci e i gesti compiuti nel mentre − come cantare al karaoke − diventano liberatori. Infatti, i colori scuri e neutri in grado di esteriorizzare l’interiorità dei protagonisti, in alcune occasioni vengono contrastati da quelli più sgargianti vicini alla cultura nipponica, che sa essere anche ironica e teatrale.

 

E a proposito di ironia, sono i momenti più leggeri a lasciar trasparire tutta la bravura di Bill Murray, probabilmente qui nel suo miglior ruolo in carriera; quando è sul set resta curiosamente perplesso per le interminabili traduzioni, nonché per il perenne scambio tra la lettera “R” e la “L”. Persino in altre circostanze Murray è plastico nel volto, imitando sguardi ed espressioni durante il servizio fotografico, lasciando trapelare dei residui di vitalità. Memorabile la scena in cui rifiuta cordialmente le avances di una prostituta inviatagli dalla produzione come svago, poiché Bob pare non aver voglia nemmeno di scadere nei soliti cliché legati agli uomini e al sesso. Al contrario, Charlotte è in preda ad una vera e propria crisi esistenziale, si sente vuota e circoscritta in una relazione per la quale progressivamente si è spento l’interesse. Più volte chiederà a Bob com’è e come sarà il matrimonio, vedendo grossomodo sé stessa riflessa nell’attore in decadenza, ma la monotonia è così tanto invasiva che lei e suo marito John non hanno nemmeno voglia di discutere, come quando si trovano a conversare sullo pseudonimo dell’amica di John. D’altronde, per riaccendere in Charlotte e in Bob una qualsivoglia sensazione di benessere, entrambi sentono la magnetica necessità di dover comunicare tra loro.

Ecco la recensione di Lost in Translation - L'amore tradotto, del 2003

Lost in Translation – L’amore tradotto: il delicato rapporto tra Bob e Charlotte

Lost in Translation – L’amore tradotto è un film semplice quanto essenziale, e aspira a rappresentare in maniera coesa l’irrazionale quanto delicato rapporto che si viene a creare tra Bob e Charlotte. I due protagonisti vivono il loro breve e casuale incontro sottolineando sin da subito una certa vulnerabilità, ma la relazione che vivranno è incredibilmente anomala. Tra camminate improvvisate di giorno e altre notturne finalizzate all’intrattenimento, emergono dei dialoghi anarchici, senza troppa preoccupazione di dover forzatamente perseguire le convenzioni sociali; ma d’altro canto, ciò è chiaro dal primo incontro tra i due. Bob aiuta Charlotte a crescere, mentre lei aiuta lui a scoprire quanto può essere divertente tuffarsi tra le strade e i localini di Tokyo, ridendo insieme svariate volte anche a causa degli amici stravaganti di Charlotte (Charlie Brown, in primo luogo).

 

Così facendo, entrambi scoprono di poter comunicare in un modo che appartiene soltanto a loro, imprescindibile ma allo stesso tempo inutile, poiché senza un vero e proprio fine se non quello di passare qualche giorno in compagnia. Nonostante ciò, Charlotte e Bob riescono a dar vita ad una relazione inebriante, una luce fioca che squarcia la malinconia derivata dalla solitudine, e la regista riesce tramite gesti e immagini a far echeggiare questi sentimenti elusivi. Ciò lo si percepisce anche dal mancato contatto fisico, o comunque sensibilmente ridotto alle mani di Bob che sfiorano i piedi di Charlotte quando i due sono a letto nella speranza di addormentarsi dopo giorni insonni. Del resto Charlotte la prima volta che si dirige al monastero non prova emozioni, mentre in un secondo momento, al medesimo monastero, si lascia travolgere dalla finezza con cui un uomo prende ad incastro la mano di sua moglie. Lost in Translation – L’amore tradotto ha un finale suggestivo e commovente, poiché Bob scende dal taxi diretto verso l’aeroporto per perdersi un’ultima volta in un abbraccio con Charlotte, sussurrandole qualcosa nell’orecchio. Tuttavia, lo spettatore non saprà mai le parole pronunciate dall’uomo, e ciò è il fulcro del film: la Coppola tiene fuori tutti da questo fugace e tenero attimo, permettendo ai due protagonisti di prendersi la scena in totale intimità

Voto:
4.5/5
Andrea Boggione
3.5/5
Gabriele Maccauro
5/5
Riccardo Marchese
4.5/5
Matteo Pelli
4.5/5
Paola Perri
3.5/5
0,0
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