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Recensione – In Memoria di Me, di Saverio Costanzo con Fausto Russo Alesi

Recensione - In Memoria di Me, di Saverio Costanzo con Fausto Russo Alesi

In Memoria di Me è il secondo film di Saverio Costanzo, presentato in concorso al Festival di Berlino e vincitore di miglior montaggio e miglior sonoro in presa diretta ai Nastri d’argento del 2007. Adattamento del romanzo Lacrime impure (conosciuto anche con il titolo di Il gesuita perfetto) di Furio Monicelli, il film si avvale soprattutto delle pregevoli interpretazioni di Fausto Russo Alesi e Filippo Timi, in un prodotto che estremizza le qualità di Saverio Costanzo. Di seguito, la trama e a recensione di In Memoria di Me. 

La trama di In Memoria di Me di Saverio Costanzo

Per quanto il film punti tutto sulla sua concezione strutturale, in un percorso che è tipico della carriera di Saverio Costanzo, è importante indicare innanzitutto la trama di In Memoria di Me: Andrea è un giovane che decide di entrare nel noviziato a seguito di una vita che non gli ha mai permesso di trovare la felicità. Il suo confronto con un mondo chiuso, silenzioso e difficile da sopportare – soprattutto nei primi giorni – non è semplice, considerando anche la dura prova con la quale si confronta: il giudizio del monastero, che incombe quotidianamente sulla sua figura, oggetto di una valutazione costante. La riflessione e la preghiera di Andrea si accompagna all’osservazione dei suoi compagni di noviziato, tra cui Fausto, che vive una condizione di emarginazione: dimostra di non riuscire a credere, mal sopportando la routine a cui è sottoposto e, dopo essersi autoinflitto delle pene fisiche, decide di abbandonare il noviziato. 

 

La scelta mette in crisi Andrea, che inizia a diffidare dello ambiente che lo circonda e che, a causa della sua volontà di conoscere la verità da parte della Chiesa, interroga il padre superiore, che non ha rivelato agli altri novizi il perché dell’abbandono di Fausto. La sua insistenza, unita ad un esercizio di ragione che viene osteggiato dal luogo in cui si trova, che richiede il reiterato ricorso al silenzio e alla fede, sono i motivi di una crisi spirituale sempre più forte, che si acuisce con l’arrivo di Zanna, un nuovo novizio che cerca, nel monastero, un motivo di sopravvivenza: quest’ultimo, deciso ad abbandonare il noviziato, scuote definitivamente Andrea, che decide di fare lo stesso. Prima di abbandonare il monastero di notte, però, Andrea ascolta il discorso che il padre superiore fa a Zanna per tentare di convincerlo a rimanere, nel quale si ricrede a proposito di quel desiderio di libertà che matura; per questo motivo, credendo che la sua permanenza sia parte del progetto di Dio, decide di rimanere e dedicarsi definitivamente alla sua vocazione.  

La recensione di In Memoria di Me, con Fausto Russo Alesi

Non c’è film che sappia meglio rappresentare l’ideologia italiana del prodotto religioso; nel nostro paese sovente si fa ricorso ad una tematica che ha numerosi punti di contatto con l’arte in generale e che, soprattutto, permette tipologie di rappresentazioni differenti. Saverio Costanzo predilige, in piena aderenza a quello stile che aveva già caratterizzato il suo esordio con Private, il discorso di fede, affidando al Monastero di San Giorgio Maggiore nell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia il silenzio e l’architettura rigida che sono tipici della sua carriera. Partendo da un soggetto che tratta il tema dell’impurità, il regista di Hungry Hearts riesce a portare avanti il costante tema dell’imperfezione repressa, per mezzo di un film che riesce ad essere costantemente asciutto, solido e simmetrico nelle sue forme, accompagnando – alla narrazione pregna di silenzi e sofferenze – un posizionamento strategico della macchina da presa. 

 

Se in Private, così come nel suo quarto film Hungry Hearts, infatti, il regista fa suo l’utilizzo del grandangolo e della distorsione dei corpi (spesso ripresi di spalle), nel film In Memoria di Me tutto avviene frontalmente, in una concezione stabilmente simmetrica della scena, posizionando il soggetto al centro dell’inquadratura e tenendo la macchina da presa a debita distanza. Non è mai la camera ad avvicinarsi al soggetto, che piuttosto procede cadenzato attraverso uno sguardo che raccoglie ogni passo, concedendosi minuti e minuti per mostrare quel percorso (tanto letterale quanto metaforico) di “passione” del protagonista. Allo stesso tempo, il pregio degli interni offre al regista il destro per ragionare sulle forme geometriche (archi e rombi su tutte), restituendo quell’idea costante di ambiguità che la Chiesa offre: la pulizia è il primo obiettivo, così come mostrato dal ricorso degli spazzoloni che vengono utilizzati giorno per giorno da parte dei novizi; le macchie del peccato, di cui i padri superiori sembrano non voler fornire un rendiconto, vengono così cancellate, in un’operazione che cancella ogni goccia di sangue, ogni elemento “alieno” rispetto a quella perfezione schematica, oltre che morale, che la Chiesa richiede. 

 

Fausto Russo Alesi prima e Filippo Timi poi incarnano le due figure a cui è affidato il compito di distorcere il meccanismo: grazie a due personaggi perfettamente scritti e, soprattutto, in virtù di interpretazioni che si poggiano proprio su quell’asciuttezza di cui si faceva precedentemente menzione, la pellicola mostra l’evoluzione della sofferenza del protagonista, interpretato da Hristo Jivkov, in un percorso in tondo che si risolve nella claustrofobia del monastero. Il secondo lavoro di Saverio Costanzo è già un saggio importante delle sue grandi abilità: dopo Private, che aveva saputo mostrare in maniera sapiente la crudeltà – anche domestica – dell’occupazione israeliana, In Memoria di Me cambia completamente tema e ambientazione, ma non i principi estetici e strutturali che sono propri della carriera del regista. In un film che, per sua concezione, avrebbe potuto ambire anche a qualcosa di più, stecca la volontà di Costanzo di non spogliare definitivamente la pellicola, forse nel tentativo di rappresentare la Chiesa in maniera maggiormente tridimensionale (idealizzando un’ipotetica ambiguità sensoriale), forse in virtù dell’idea di non lasciare che il silenzio dei personaggi sia lo stesso silenzio avvertito dallo spettatore. 

 

La scelta musicale è qui completamente sbagliata, tanto per la costanza con cui ogni traccia viene riproposta, quanto per l’intensità che limita quel perfetto audio in presa diretta che, nelle scene migliori del film, imperversa in virtù di rimbombi e suoni acuti. Manca, cioè, quel “silenzio vuoto” di cui parla Zanna, costantemente riempito da qualcos’altro, in un film che dimostra – nonostante alcuni limiti, tra cui un finale troppo frettoloso e confusionario – la grande bravura del regista qui ad un banco di prova importante e abilmente superato. 

Voto:
3.5/5
Christian D'Avanzo
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