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Recensione – Rushmore: Wes Anderson abbandona i salottini indie

Recensione - Rushmore: Wes Anderson abbandona i salottini indie

Rushmore è il secondo film di Wes Anderson che, a due anni di distanza dal suo primo lavoro, Un colpo da dilettanti, torna in cabina di regia mostrando alcuni degli elementi più evidenti del suo cinema; sceneggiato insieme all’amico Owen Wilson, il film vede – tra i suoi protagonisti – Jason Schwartzman, Bill Murray e Olivia Williams, in un’opera che permette a Wes Anderson di abbandonare i salottini indie che avevano caratterizzato l’inizio della sua carriera, per rapportarsi a quegli ambienti cinematografici che, per mezzo di grandi cast e storie affascinanti, l’hanno accolto da sempre con grande importanza. Di seguito, si indica la trama e la recensione di Rushmore. 

La trama di Rushmore, il secondo film di Wes Anderson scritto con Owen Wilson

Max Fisher (Jason Schwartzman) è uno studente della Rushmore, accademia piuttosto prestigiosa che l’ha ammesso con una borsa di studio a causa del suo eccezionale talento nella scrittura di spettacoli teatrali, nonostante la sua modesta condizione economica; tuttavia, il suo rendimento scolastico non è eccellente: Max è un ragazzo molto distratto, che non riesce a dedicarsi allo studio e che investe tutto il suo tempo nella realizzazione di club e progetti extracurricolari. 

 

Ben presto, fa la conoscenza di Herman Blume (Bill Murray), magnate dell’acciaio che riesce ad avere con lui il rapporto che non può maturare con i suoi figli, oltre che dell’insegnante Rosemary Cross (Olivia Williams), di cui si innamora. A causa della sua volontà di costruire un acquario nel campo di baseball, per conquistare l’insegnante, Max si fa espellere dalla scuola ed entra in un istituto pubblico, dove appare costantemente fuori luogo. Da questo momento in poi, però, inizia una gara tra il ragazzo e Blume, che cercano entrambi di conquistare l’insegnante: quest’ultima, dopo aver scelto inizialmente di vivere con il magnate dell’acciaio – che divorzia da sua moglie – si rende conto di quanta poca fantasia l’uomo abbia, rispetto al marito che ha perso. Alla fine, dopo aver inizialmente agito da rivali, Max Fisher ed Herman Blume collaborano affinché il secondo possa riconquistare Rosemary. 

La recensione di Rushmore: un sommario della filmografia del regista texano

Con limiti che possono essere identificati in una resa ancor troppo grezza del prodotto, lontano dalle perfezioni estetiche e stilistiche di due film come I Tenenbaum e Grand Budapest Hotel, Wes Anderson traccia un ideale sommario della sua (futura) carriera per mezzo di Rushmore, un film che non si direbbe appartenere ad un regista al suo secondo lavoro cinematografico ma che dimostra un’incredibile maturità. Il passo in avanti sostanziale che si osserva in questo film, rispetto ad Un colpo da dilettanti che era proprio della mano del 26enne Wes Anderson, risiede in una maggior consapevolezza del mezzo cinematografico, che viene qui gestito con incredibile sapienza da parte di un regista che, nella sua carriera, ha dimostrato di riuscire là dove tanti altri colleghi falliscono. 


È evidente, ad esempio, l’utilizzo di alcuni stilemi che saranno propri della tecnica wesandersoniana: innanzitutto il raccordo, che in un film come I Tenenbraum rappresenta il marchio di fabbrica stilistico del regista texano e che qui crea quell’apertura estetica di cui l’esordio di Wes Anderson difettava. E ancora la colorpalette, che qui inizia ad assumere (pur alla lontana rispetto a prodotti come Grand Budapest Hotel e Moonrise Kingdom) forma attraverso l’utilizzo ossessivo dei colori pastello; come non citare, naturalmente, anche la simmetria e la composizione geometrica di ogni inquadratura, simbolicamente resa attraverso l’attore che guarda in macchina. Nell’impianto narrativo e concettuale del film, però, si intravedono dei cenni di maturità importanti: così come in Un colpo da dilettanti, anche in Rushmore è importante il contrasto tra reale-ideale, che nel primo film interessava la figura del padre. Qui, il personaggio di Herman Blume si rende conto della pochezza dei suoi figli, identificando in Max Fisher un figlio ideale con cui può confrontarsi e che, soprattutto, può restituire interesse; a proposito di interesse, Rosemary confessa a Max che una sola unghia di suo marito manifesta più fantasia dell’intero corpo di Herman; l’idealizzazione di suo marito, però, cozza con la cruda realtà, con Max che esclama senza mezzi termini: “un’unghia morta”. 


L’ossessione fondamentale, nella carriera di Wes Anderson, è quella di rappresentare l’uomo inetto ed estraneo alle logiche standardizzanti della società in cui vive; un tema che sarà ripreso in qualsiasi tipologia di narrazione, a partire dalla storia familiare di I Tenenbaum fino a quella amorosa di Moonrise Kingdom, passando per il concetto di impresa che viene invece trattato in Le avventure acquatiche di Steve Zisou. In Rushmore, il connubio Max Fisher – Herman Blume funziona soprattutto per la rappresentazione costantemente grottesca delle due figure: come da tendenza di Wes Anderson, non c’è nessun artificio retorico o elemento stilistico che alteri l’intensità patetica dell’osservazione e della percezione sensoriale dello spettatore. 


La macchina da presa rimane ferma rispetto al volto impassibile di Bill Murray, che fuma contemporaneamente due sigarette, getta palline da golf in una piscina e stoppa un bambino che cerca di fare canestro. La realtà, così approfondita per mezzo dei suoi caratteri standardizzanti, si scontra con l’idealizzazione costante che alimenta la vita di Max, in un film che inizia con un sogno e termina con l’imponente rappresentazione teatrale di cui il ragazzo è protagonista ed eroe. È una realtà che, non a caso, si piega anche alla volontà dei fenomeni, come nel caso del segreto che Max rivela alla moglie di Blume, mascherato dal suono della sirena di una polizia, e che segue logiche apparentemente irregolari ma, tutto sommato, aderenti ad un proprio costrutto: la realtà di Wes Anderson, che crea mondi atipici e rappresentazioni cristallizzate in un non-tempo, dove le regole vengono costantemente capovolte. 

Wes Anderson abbandona i salottini indie

L’emergere di un Wes Anderson che, al suo secondo lungometraggio, decide di distaccarsi da quella tradizione che aveva interessato la prima parte della sua carriera è qui evidente; Rushmore vinse due premi agli Indipendent Spirit Awards del 1999, destinati al miglior regista e al miglior attore non protagonista, Bill Murray. Tuttavia, il film rappresenta una cesura importante rispetto a due tendenze della carriera di Wes Anderson che, a partire da questo prodotto, inizierà a servirsi sempre più di validi collaboratori e amici, rendendo i cast dei suoi film sempre più importanti sia per nomi che per peso specifico di attori, fino a giungere a quella tendenza che, in The French Dispatch, è apparsa incredibilmente rappresentativa di uno stile di gestione che può – a ragione – non convincere. 

 

Jason Schwatrzman e Bill Murray, due attori che qui mostrano una grande sinergia per i rispettivi ruoli, operano all’interno di un contesto che si allarga virtualmente rispetto alle chiusure, soprattutto stilistiche e concettuali, del primo film: il marchio di fabbrica di Wes Anderson, che costituisce ossessivamente scatole cinesi per includere ognuno dei suoi personaggi (e, conseguentemente, attori), inizia ad essere qui reso per mezzo delle didascalie extradiegetiche. Il segno successivo della carriera del regista texano, la storia nella storia, rappresenterà il segno più importante della maturazione definitiva di un Wes Anderson che, però, già in Rushmore si dimostra assolutamente pronto al grande salto. 

Voto:
4/5
Andrea Boggione
4.5/5
Gabriele Maccauro
4/5
Alessio Minorenti
5/5
Giovanni Urgnani
4.5/5
Sarah D'Amora
3.5/5
0,0
Rated 0,0 out of 5
0,0 su 5 stelle (basato su 0 recensioni)
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Genere:

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