Articolo pubblicato il 7 Giugno 2025 da Vittorio Pigini
Dopo il successo di Dancer in the Dark, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes e del Miglior Film agli EFA, Lars von Trier torna nel 2003 sulla Croisette con Dogville. Di natura prettamente sperimentale, l’opera rappresenta il 7° lungometraggio scritto e diretto dall’autore di Europa, che vede protagonista Nicola Kidman oltre ad un cast stellare. L’opera arriva a sancire ufficiosamente la fine del Dogma95, il ricercato Manifesto artistico firmato dai registi Lars von Trier e Thomas Vinterberg. Nonostante il “voto di castità” venga quasi completamente ribaltato dalla visione del film del regista danese, Dogville mantiene intatto lo spirito di quel punto di rottura venuto dal nord Europa. Ecco di seguito la recensione del settimo film scritto e diretto da Lars von Trier, che vede come protagonista la premio Oscar Nicole Kidman.
La trama di Dogville, il film di Lars von Trier con Nicole Kidman
Su sceneggiatura dello stesso regista Lars von Trier, il film vede come protagonista la giovane Grace che, in fuga dai gangster che le danno la caccia, si ritrova nel piccolo villaggio di Dogville, sperduto tra le montagne. La piccola comunità locale, tuttavia, si mostra particolarmente scettica nell’accogliere la misteriosa fuggitiva, chiedendole di superare un periodo di convivenza per valutare l’ipotesi di tenerla insieme a loro. Le prove richieste a Grace, al fine di ottenere la fiducia della comunità di Dogville, saranno tuttavia sempre più intense e frustranti.
La recensione di Dogville: morte al Dogma! Lunga vita al Dogma!
Dopo aver realizzato i suoi primi 5 lungometraggi, il regista danese Lars von Trier era ormai diventato un habitué del Festival di Cannes. Tre dei suoi film sono stati infatti premiati sulla Croisette, ma ecco arrivare anche la prestigiosa Palma d’Oro per Dancer in the Dark, con il “regista provocatore” che sembrerebbe essere sempre più lanciato verso il successo su larga scala. Un prestigio che, di conseguenza, riesce ad avvicinare l’autore ad un cast di altissimo profilo per il suo prossimo film. Protagonista di Dogville sarà infatti la neo premio Oscar Nicole Kidman, che andrà a comporre una squadra di comprimari del calibro di Lauren Bacall, Paul Bettany, James Caan, Stellan Skarsgård ed un narratore come John Hurt. Il successo e quel “grande salto” auspicato, tuttavia, resta solo un abbaglio, un’illusione, con Lars von Trier che non smarrisce quell’idea di continuare a distruggere il sistema e lasciare solo macerie.
Per l’analisi di Dogville, infatti, occorre fare diversi passi indietro, fino al 1995 per cominciare. Questo è l’anno in cui l’autore danese, assieme al suo collega connazionale Thomas Vinterberg, firma ufficialmente a Copenaghen il Manifesto del Dogma95, ovvero il “Voto di castità” del cinema moderno. Ispirandosi all’esperienza parigina degli anni ’50, i due registi credono fortemente che il nuovo cinema avesse smarrito la sua strada, accecata dalle tecnologie sempre più avanzate e dagli investimenti milionari/miliardari nell’industria. L’obiettivo diviene così quello di scardinare il sistema e creare finzione senza finzione, stilando una serie di regole volte ad abolire l’artificio cinematografico: il set deve essere “al naturale” (vietato inserire scenografie ed oggetti di scena); il film deve essere a colori, vietando luci speciali; la musica non può essere extradiegetica; la trama non può prevedere azioni che non possono essere riprodotte nella realtà (omicidi, questioni governative, elementi fantastici…).
Dal 1995 il Manifesto del Dogma ha certificato 35 lungometraggi, fino al suo scioglimento ufficiale avvenuto nel 2005, praticamente conseguente l’uscita di Dogville. Sì perché, il 7° film scritto e diretto da Lars von Trier, distrugge e ribalta completamente quello stesso Manifesto creato dal regista. Se il Dogma richiedeva un set “al naturale”, Dogville viene completamente girato all’interno di un teatro di posa, con luce inevitabilmente artificiale, inserimento di musica extradiegetica e dove è la finzione del teatro cinematografico a farla da padrone. Quasi nella sua totalità, infatti, il film si presenterebbe come l’esatto opposto dell’indirizzo artistico voluto da von Trier e Vinterberg. Il Dogma95 verrebbe così buttato nel trita carte, messo a rogo proprio come lo spietato finale di Dogville.
Tuttavia, dopo una precisa analisi, ci si potrebbe accorgere di come il Manifesto non sia stato in realtà tradito, con quello “spirito” artistico che resterebbe non solo intatto ma anche fortificato. Basterebbe infatti pensare a come, tra i 35 film certificati Dogma95, soltanto 2 siano diretti da Vinterberg e von Trier (i capostipiti Festen ed Idioti), tra l’altro violando già in questi casi qualche norma del Manifesto. Per questi ed altri motivi, sarebbe dunque indecoroso pensare al Dogma95 quale tentativo fallito di movimento cinematografico, divenendo invece necessario uscire fuori dal testo per estrapolarne il vero significato.
Alla stregua di altri “interventi” significativi nella storia del cinema, dall’avvento del sonoro alla New Hollywood, passando per la Nouvelle Vague francese ed il Neorealismo italiano, anche il Dogma95 incarna un vero e proprio punto di rottura artistico. L’idea di von Trier e Vinterberg resta quello di contrastare, attraverso la più pura essenza del cinema, una deriva di “sfruttamento” del cinema stesso, fornendo un’alternativa a quell’eccesso di finzione e di manipolazioni (cinematografiche ed extra) volte ad inquinare il sistema. Come “punto di rottura”, probabilmente, Dogville rappresenta l’emblema del cinema di Lars von Trier. Distruggere il Dogma95 per consegnarlo alla Storia.

La commedia secondo Lars von Trier
C’è parecchio da fare qui a Dogville, considerando che nessuno ha bisogno di niente.
Ma perché Dogville rappresenterebbe l’esatto opposto del Manifesto firmato dallo stesso von Trier? Oltre all’elefante nella stanza (o meglio alla sua sagoma), con l’elemento prettamente legato alla messa in scena che verrà affrontato a breve, uno dei punti del Dogma95 vieterebbe i “film di genere”. Il divieto sarebbe solo coerente alla privazione della finzione, non accettando elementi fantastici e azioni che non possono essere replicabili nella realtà (fantastico, horror, thriller, musical e compagnia bella non ammessi). Tenendo a mente ciò, Dogville presenta al suo interno una grande variazione di generi, stili e toni che sarebbero a dir poco incompatibili con il Manifesto. Il film è infatti una storia di vendetta, un thriller, un noir, un ganster-movie, un sentimentale, arrivando con audacia anche ai toni biblici.
Più di tutti, forse, Dogville non rappresenterebbe altro se non una beffarda commedia, intrisa dell’umorismo cinico e nerissimo del suo formidabile autore. Non si deve ovviamente pensare al film come commedia nel senso più prettamente comico, le risate stanno infatti sotto lo zero, quanto piuttosto facendo riferimento al suo lato ironico, paradossale, satirico, assurdo e volto alla derisione dei costrutti sociali. La contraddizione nella trasformazione di Grace da vittima a carnefice, l’accoglienza della comunità che si trasforma immediatamente in sfruttamento, l’arroganza del perdono e l’etica della vendetta, il teatro dell’assurdo messo in scena, ed ecco che i confini di Dogville si conformano a quelli della commedia. Si tralascia un’intricata etimologia classicista sul termine, che vedrebbe anche l’ipotesi secondo cui la parola derivi da “canto del villaggio”, che qui andrebbe ad incarnare il suono della campana di una fallita cristianità.
Eccezion fatta per un singolo e determinante momento, infatti, gli animali vengono completamente eliminati dallo schermo, lasciando il posto a uomini e donne che sanno comportarsi anche peggio dei randagi. Un pensiero vola a quelle che, non a caso, vengono definite le Dogville Comedies, ovvero una serie di cortometraggi prodotti dalla Metro-Goldwyn-Mayer dal 1929 al 1931. La particolarità di queste opere, denominate “barkies” (da All Barkie Dogville Comedies), è quella che gli attori sono cani addestrati e vestiti in modo da parodiare gli artisti dei film contemporanei. In questo caso, oltre all’industria hollywoodiana (accennata nel precedente paragrafo e che tornerà a breve), la nichilista parodia di Dogville è quella che prende di mira le maschere invisibili del comun vivere.
Lars von Trier butta giù le pareti del falso mito della società cosiddetta civile, nata dall’egoistica illusione di celare i suoi istinti primordiali e l’intrinseca bestialità. Quello di Dogville diviene così un luogo antropologico scollegato dall’asse temporale (si torna ai toni biblici sopracitati), il quale presenta una totale assenza di barriere artificiali al fine di mettere a nudo fragilità e vizi dell’essere umano. In questa indagine antropologica sotto la lente d’ingrandimento, protagonisti divengono cani antropomorfi mossi dalla tendenza di rivaleggiare, competere e danneggiare gli altri per il proprio tornaconto, per curare il proprio “orticello” di uva spina. Homo homini lupus.
Un ciclo di inganni, prevaricazioni, tradimenti e violenze che, alla fine, colpisce chiunque. Il cane arriva a mordere la mano al suo padrone, la carità diviene ingratitudine, la grazia diventa vendetta. Si fa riferimento ovviamente alla beffarda conclusione del film, dove Grace da tenero e docile agnello sacrificale si traveste da lupo, vendicandosi di coloro che hanno abusato di lei fisicamente, psicologicamente ed umanamente. Un finale a dir poco pessimistico, con il mondo che non avrebbe bisogno di spazi e comunità come quelli di Dogville, il luogo antropologico della natura umana. Tutto brucia.
Homo homini lupus nel teatro dell’assurdo
In conclusione, dell’analisi sul film Dogville, si arriva al già citato “elefante nella stanza”, ovvero la sperimentale messa in scena adottata da Lars von Trier. L’intero film viene infatti girato all’interno di un teatro di posa, un capannone, o meglio in un allestimento simile a quelli che vengono definiti teatri black box. La tecnica produttiva-scenografica non è completamente nuova nella storia del cinema, ricordando esempi come Red Garters di George Marshall del 1954 o Vanya sulla 42esima strada di Louis Malle. Tuttavia, la sperimentazione messa in atto in Dogville, vero fulcro di quel “punto di rottura”, resta non solo unico nel suo genere ma anche e soprattutto determinante.
Gli oggetti di scena sono ridotti all’osso, le infrastrutture e le strade vengono indicate con scritte a terra ricreando la pianta della cittadina, ogni elemento della scenografia mette davanti agli occhi dello spettatore l’artificio del teatro filmato. Eppure, la perenne camera a mano permette di vivere più in intimità le dinamiche all’interno della piccola comunità, con lo spettatore che più passa il tempo più riesce a “stare al gioco” di von Trier. Da questo punto di vista il film diventa cinema puro, con la principale e necessaria caratteristica della Settima Arte di far immergere completamente nella finzione arrivando a dimenticarsi che sia finzione. Il finto realismo viene inoltre sollecitato anche e soprattutto dal lavoro svolto dal comparto sonoro, che sia il rintocco della campana o la bussata su una porta che non esiste, o la sagoma del cane Mosé che inizia ad abbaiare.
Ecco che il minimalismo e la messa in scena apparentemente scarna diviene totalizzante, permettendo di far immergere in una realtà completamente estranea, eppure sempre realtà. Il kammerspiel, che prende vita in Dogville, infonde ai suoi “oggetti mobili di scena” (il cast) carattere ed interpretazione, concedendogli una personale profondità. Il film presenta in tal senso un cast corale di lusso, dove ogni personaggio riesce ad incidere sullo schermo. Dalle molte maschere di questo teatro dei burattini, a spiccare è ovviamente l’agnello sacrificale della Grace di Nicole Kidman, probabilmente nel ruolo della sua carriera. Già all’apice del successo, con film come Eyes Wide Shut, Moulin Rouge! e The Others di Alejandro Amenábar, la star australiana ha infatti appena vinto il premio Oscar grazie a The Hours di Stephen Daldry.
Un periodo particolare, della sua luminosa carriera, in cui Nicole Kidman si presta ben volentieri a sperimentare nuovi tipi di cinema…almeno fino alla collaborazione proprio con Lars von Trier. Ecco che l’incarnazione stessa della luce di Hollywood, bellissima e di successo, arriva a collaborare con un regista anarchico e con lo spirito di voler ridimensionare quello stesso sistema. Sfruttare una stella di Hollywood per lasciare un marchio, quello del Dogma95, sulla Hall of Fame attraverso un film senza pareti. Le cose, tuttavia, potrebbero essere sfuggite di mano. L’attrice, infatti, avrebbe dovuto riprendere il ruolo di Grace nel successivo Manderlay, film del 2005 nonché secondo capitolo di quella che sarebbe dovuta essere una trilogia cinematografica, denominata “USA – Terra delle opportunità”.
Questo in quanto, il carico di lavoro ritrovato durante la realizzazione del film, ha particolarmente segnato la stessa Kidman, che non ha più lavorato insieme al regista danese. Il disagio e la pressione vissuti sul set sono particolarmente lampanti sullo schermo, con il cinismo e la spietatezza di Dogville che imprime una brutalità fisica e soprattutto psicologica nelle varie sevizie nei confronti del personaggio di Grace. La protagonista riesce ad incarnare la purezza di un angelo disceso tra gli uomini, con la fragile speranza di provare a salvare la razza umana dalla corruzione della sua natura, rassegnandosi al fatto che, forse, non può essere salvata.