Articolo pubblicato il 22 Maggio 2025 da Bruno Santini
Presentato in anteprima tra le proiezioni speciali del 78esimo Festival di Cannes, Qui brille au combat (The Wonderers) è il nuovo film di Joséphine Japy, in gara per la Camera d’Or che verrà assegnata quest’anno dalla nostra Alice Rohrwacher. Con protagonista Mélanie Laurent, si tratta di un dramma da non perdere, dove il cuore viene mandato oltre l’ostacolo e che parla ad un pubblico internazionale. A seguire, trama e recensione di Qui Brille au Combat (The Wonderers).
La trama di Qui Brille au Combat (The Wonderers), diretto da Joséphine Japy
In corsa per la Camera d’Or, Qui Brille au Combat (The Wonderers) è un film diretto da Josephine Japy. Prima di passare alla sua recensione, è però bene spendere due parole sulla sua trama. Madeleine e Gilles hanno due figlie adolescenti: Marion e Bertille. Quest’ultima è gravemente disabile e l’intera famiglia compie grandi sforzi per assecondare le sue esigenze, sacrificando chi più e chi meno la propria vita al di fuori delle mura domestiche. Bertille è estremamente fragile ed energica allo stesso tempo e i gli incidenti sono sempre dietro l’angolo. Marion cerca con difficoltà di stabilire rapporti significativi e sani all’infuori della famiglia, mentre Madeleine necessita di un sostegno maggiore dal marito, il quale non ha ancora accettato l’onore del proprio ruolo ed è una figura ben poco presente.

Sarah Pachoud e Angelina Woreth in una scena di Qui Brille au Combat (The Wonderers), diretto da Joséphine Japy
La recensione di Qui Brille au Combat (The wonderers), presentato in anteprima a Cannes78
Ci sono delle varie altre sezioni rispetto alle due più importanti al Festival di Cannes – che sarebbero il Concorso principale e Un certain regard -, tra le quali spesso non risultano ben chiari i parametri per rientrare all’interno dell’una o dell’altra. Non cambia molto avere la label “fuori concorso”, “Cannes premiere” o “Special screenings”, poiché nessun film in queste categorie compete per i premi, ad esclusione delle opere prime, le quali vengono valutate da una giuria apposita, presieduta quest’anno da Alice Rohrwacher. Questo per dire che i film esterni alle competizioni principali sono poi quelli meno attenzionati dal pubblico, i quali rischiano di essere ignorati quasi totalmente, pur non meritandolo, e risultando in qualche caso migliori di altri che addirittura gareggiano per la palma d’oro. Qui Brille au Combat (The Wonderers) è proprio uno di quei film.
Il film parte in medias res: Madeleine sta cercando di dare da mangiare a Bertille inserendo una medicina dentro il cibo che le somministra con il cucchiaio. Lei non vuole mangiare. Comincia invece a giocare con l’acqua, coinvolgendo la madre e la sorella in questo conflitto acquatico. La cucina si allaga in pochi secondi e quando Gilles fa ritorno a casa la sera trova il pavimento bagnato, ma non si pone particolari problemi. La moglie e le figlie sono nel letto, abbracciate davanti alla televisione. Lo spettatore è subito coinvolto e intimamente connesso alla situazione. L’esordio di Japy ha il pregio di porre delle premesse alle quali rimane coerente per tutto lo svolgimento, affidando a un cast di livello il compito di creare personaggi ai quali lo spettatore possa affezionarsi in pochissimo tempo, stabilendo un rapporto di grande empatia. Ognuno di loro ha le proprie difficoltà sia con se stesso che con gli altri membri della famiglia, mentre il rapporto tra il dentro e il fuori della casa definisce la necessità, e di allontanarsi dal focolare domestico, e di farvi ritorno per ricevere l’affetto di cui si necessita.
Poi c’è Bertille; Bertille scappa, si muove, cerca qualcosa con lo sguardo e con il corpo che forse non possiamo capire. Da qui la paura che possa sempre verificarsi la tragedia da un momento all’altro, il che non consente alcuna disattenzione o umana distrazione, né momenti di stanchezza. La regista riprende i corpi in movimento delle due sorelle con una particolare prossimità, tentando di cogliere nell’immediato la drammaticità o, perché no, l’ironia delle situazioni. Ha una modalità osservativa da documentario questo film, e in ciò risiede la sua grande forza: nel non voler raccontare un arco narrativo o le conseguenza estreme di una grave patologia, ma le piccole grandi difficoltà del convivere con essa e le possibilità di aggregazione o allontanamento che può causare all’interno di un nucleo famigliare. Nella comprensione, nell’accettazione, ma soprattutto nell’unione si può trovare la forza per farcela.