Articolo pubblicato il 21 Maggio 2025 da Gabriele Maccauro
Tra le maggiori autrici del cinema contemporaneo, Julia Ducournau torna con il suo nuovo lungometraggio. Alpha – che arriva a distanza di quattro anni dalla Palma d’oro vinta grazie a Titane – è il titolo del suo nuovo film, presentato in anteprima all’interno del concorso ufficiale del 78esimo Festival di Cannes e, indubbiamente, uno dei titoli più attesi. Un Body Horror con protagonisti Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Emma Mackey e la giovane Mélissa Boros con chiari rimandi al cinema di David Cronenberg ma che afferma sempre più lo stile autoriale di Ducournau, sempre più capace di maneggiare il mezzo cinematografico. A seguire, trama e recensione di Alpha.
La trama di Alpha, diretto da Julia Ducournau
Dopo quattro anni di attesa, Julia Ducournau torna alla regia con un nuovo attesissimo film. La regista vincitrice di una sorprendente Palma d’Oro nel 2021 con Titane, presenta infatti in anteprima in concorso al 78esimo Festival di Cannes Alpha, ma di cosa parla? Prima di passare all’analisi e recensione del film, segue una breve sinossi dell’opera:
“Alpha, 13 anni, è un’adolescente problematica che vive da sola con la madre. Il loro mondo crolla il giorno in cui lei torna a casa da scuola con un tatuaggio sul braccio”.

Mélissa Boros in una scena di Alpha, diretto da Julia Ducournau
La recensione di Alpha, presentato in anteprima a Cannes78
Ti porta costantemente fuori strada, Alpha. Lo fa a parite dal titolo – che convince lo spettatore che la protagonista sia la giovane Mélissa Boros – come anche nella prima sequenza, in cui la piccola unisce i segni delle punture sul braccio dello zio Amin, quasi a tracciare un percorso per il pubblico, pur consapevole delle mille deviazioni che ci saranno. Per poter percorrere questa via però, bisogna essere in due: autore e spettatore e quest’ultimo, in Alpha, non ha mai avuto davvero fiducia. Dal 78esimo Festival di Cannes infatti, pubblico e stampa hanno unanimemente bocciato l’ultimo lungometraggio della regista Palma d’oro Julia Ducournau. Un film senza capo né coda, un pastrocchio di sceneggiatura, addirittura gli attori sarebbero fuori parte. Mentre in queste ore sulla Croisette ci si continua ad abbaiare a vicenda su chi abbia compreso per davvero, più dell’altro, il film, ecco invece che (pochi) altri, come chi vi scrive, raggiungono la pace dei sensi.
Qual è, davvero, il senso del cinema? Quale obiettivo ultimo dovrebbe avere un film? Lasciamo perdere discorsi da bar come soggettività e oggettività, perché è evidente che un film non debba piacere sempre e per forza a tutti – soprattutto uno come Alpha – l’importante resta sempre e solo articolare i propri pensieri senza tentare di sopraffare l’interlocutore ma anzi, abbracciando la sua opinione, a prescindere da quanto possa essere simile alla nostra. Oggi invece, soprattutto attraverso il web e la critica cinematografica 2.0, avviene il contrario. Si indica una via e quella va percorsa. Ma c’è anche la critica “vera”, quella della carta stampata, quella con maggior esperienza, che invece resta spesso e volentieri inchiodata ad un’idea di cinema vecchia, senza rendersi conto che quest’arte, come tutte le arti, si evolve, costantemente, inevitabilmente e se non si sta al passo con i tempi, anche senza necessariamente condividere tutto ciò, la colpa non è di certo delle opere.
Da Titane a Alpha, in quattro anni, non è stato imparato nulla e molti, troppi, continuano a pensare che a vincere uno dei più prestigiosi premi nel mondo della settima arte sia stato un film in cui una donna fa sesso con una macchina. Inutile sottolineare come questa sia una visione a dir poco banale del film con protagonista Agathe Rousselle, eppure la reazione nei confronti del terzo lungometraggio della Ducournau ricorda bene o male proprio questa. Non si capisce perché avviene qualcosa, si lascia contaminare l’opera dalla propria idea di cinema, la si impone, ci si arrabbia se le cose non vanno come dovrebbero, come se poi ci fosse una strada, per l’appunto, da seguire senza battere ciglio. Julia Ducournau tutto questo lo ha compreso e Alpha è la sua risposta. Nel parlare di Alpha, pare quasi che i critici di tutto il mondo si siano messi a risolvere delle equazioni: un buco di trama qua, un errore di montaggio là e poi la solita variabile pazza, ovvero le proprie idee che, in quanto tali, per ciascuno sono la verità assoluta da cui non spostarsi mai. Sbagli tu, non io. E per carità, va benissimo, l’abbiamo detto poco fa, ognuno pensi ciò che vuole ma, oltre perlomeno a farsi una propria idea e non seguire il gregge, che si rifletta per un attimo su tutto ciò che ci si perde.
Cosa c’è di più sbagliato di inseguire la perfezione, cosa di più deludente della coerenza? Alpha è un film pieno di problemi, ma è cinema, cinema vero. È un dramma familiare e la inevitabile evoluzione del body horror: la nuova carne di Cronenberg non c’è più, non è più nuova, è ora e adesso, è la contemporaneità che viviamo tutti. Il mondo distopico in cui si ambienta e la malattia che trasforma gli uomini in sculture marmoree sono lo sfondo perché sono il non-luogo in cui vivono i protagonisti, che sono il vero cuore del film. Qui non c’è bisogno di spiegoni e non tutto va commentato, perché si lascia libertà allo spettatore di immaginare, di crearsi un pensiero su quello che c’è intorno alla storia narrata. Dall’elaborazione del lutto alle malattie infettive, dal bullismo all’amore, Julia Ducournau tocca tutte queste tematiche con uno stile ormai ben preciso e con l’ennesimo utilizzo delle musiche semplicemente straordinario. Ci sono Portishead e Tame Impala: ma di che parliamo? Un film deve suscitare un’emozione in chi lo guarda, deve sorprenderlo e spaventarlo, coccolarlo e metterlo a disagio, farlo ridere e farlo piangere e Alpha fa tutto questo, con delle scelte estetiche e delle sequenze che sono l’essenza stessa del cinema. Pazienza dunque se alcuni lo hanno odiato e lo continueranno a odiare. Qui, dopo aver imparato a non aver paura della critica e ad amare il cinema, si sta benissimo.