Articolo pubblicato il 15 Maggio 2025 da Bruno Santini
Sulla piattaforma di streaming Netflix e appartenente alla serie dei documentari Untold, che raccontano casi sportivi più o meno conosciuti e personaggi che sono stati mediaticamente rilevanti, The Liver King è l’ultimo documentario della piattaforma di streaming che ha fatto il suo esordio a partire dal 13 maggio 2025. Il racconto è quello di Brian Johnson, influencer particolarmente conosciuto per essere il “liver king” e per il suo “stile di vita ancestrale” basato su nove punti, che ha visto il suo personaggio distrutto a seguito di uno scandalo legato all’assunzione di steroidi. Testosterone, daddy issues e patriarcato si fanno spazio in 68 minuti di documentario insopportabile e sterile, come tentiamo di osservare nella recensione di Untold: The Liver King.
La recensione di Untold: The Liver King e il documentario come apologia
Che la serie Untold sia uno spazio di rappresentazione tutt’altro che analitico e in grado di mettere in discussione le figure che racconta, non lo scopriamo certo oggi. La recensione di Untold: The Liver King, deve allora necessariamente prendere considerazione della natura di un prodotto che nasce come spazio di estrema espressione mediatica di personaggi discutibili, ma qui giungiamo ad un’estremizzazione incredibilmente fastidiosa e ridicola di un uomo che ha fatto della truffa e della menzogna il suo stile di vita. Senza entrare troppo nel merito della storia di Brian Johnson – l’uomo che ha iniziato a cibarsi di testicoli e organi animali, compiendo 1000 flessioni al giorno e proponendo il suo modello al prossimo -, ciò che ci interessa è più che altro il modo in cui il documentario approccia queste componenti.
Dal punto di vista squisitamente strutturale, parliamo di un lavoro che non ha alcuna cura tecnica, proponendo semplicemente qualche intervista in taglio classico alternata a spezzoni di video Youtube e sacrificando anche approfondimenti maggiori in forma di archivio o di montaggio stesso dell’opera; mai una volontà di mettere in discussione il soggetto raccontato, che ha dunque tutto lo spazio per raccontarsi esattamente come si vuole. Benché la truffa di Liver King sia nota, è relegata a pochi minuti finali del documentario, ha uno spazio enormemente più blando rispetto al falso racconto della sua crescita e viene immediatamente soppiantata dal racconto di un uomo nuovo, con ridicolo spiritualismo che accompagna la fase finale del documentario. Un documentario come apologia, che non ha alcuna pretesa di reale racconto e che si fa guidare dalla comunicazione di un uomo che si conosce come truffaldino: patriarcato, machismo, daddy issues, testosterone, dinamiche sessiste emergono costantemente dall’intero lavoro che certamente intrattiene lo spettatore e si lascia guardare per 68 minuti, ma per i motivi sbagliati di interrelazione con il peggio che possa essere mostrato. Untold: The Liver King è allora un lavoro estremamente fastidioso, inconcepibile nella sua cornice e nel suo stile, inqualificabile per il messaggio che lancia senza effettuare mai una contestualizzazione o una forma di discussione, francamente inaccettabile in questo momento storico.

I nove pilastri di un lavoro inqualificabile
Sono nove i pilastri della vita ancestrale che Brian Johnson propone nell’ambito della sua vita da influencer, dieci se si aggiunge quella componente fortemente satirica che interessa i suoi ultimi anni a partire dalla scoperta di assunzione di steroidi. Nove pilastri che hanno avuto, come obiettivo fondamentale, l’instaurarsi di una forma di mercato particolarmente radicata in cui – indipendentemente da come la si voglia guardare – hanno portato il Liver King ad arricchirsi sulla base del falso sistema di credenze da egli stesso creato. Vogliamo, allora, sovvertire i nove pilastri della vita ancestrale di Brian Johnson, per trasformarli in nove pilastri di un lavoro inqualificabile e di un documentario improponibile.
- Machismo: l’elemento più forte e marcato del patriarcato, che si indirizza – è questo l’oggetto più curioso dell’ignoranza nei confronti del tema – contro l’uomo stesso, obbligandolo a uno stile di vita, pensiero, parola e interrelazione fatto di sola violenza e aggressività, incapace di mostrare l’emotività e proponendo, anzi, di mascherarla in qualsiasi forma ridicola e goffa, tra cui c’è anche il gonfiare muscoli in maniera artificiale;
- Dinamica familiare patriarcale: connesso al precedente punto, lo stile di vita patriarcale si applica anche alla dinamica familiare, non tanto perché ci sia un esplicito obbligo di comportarsi in un determinato modo, quanto perché il patriarcato nelle sue forme più moleste interessa (senza alcuna distinzione) uomini, donne e bambini. La famiglia del Liver King è allora quasi presentata in forma di ameba, con figli che credono nell’insegnamento spirituale del padre e con una moglie che beve testosterone pur consapevole di non averne bisogno in grande quantità;
- Sfruttamento animale: la violenza si applica a chi è ritenuto più debole e nel classico e sempreverde meccanismo patriarcale anche l’animale è un oggetto di sacrificio. Facendo riferimento ad una tendenza storica francamente anacronistica rispetto al nostro tempo e con la pretesa di seguire l’insegnamento di avi e antenati, si deturpa e violenta allora l’animale, non soltanto cibandosene oltre ogni modo e misura, ma esibendolo in forma di trofeo pacchiano del proprio stile di vita;
- Comunicazione violenta e aggressiva: un punto che ci è tanto caro e che spesso si osserva in documentari di questo genere è l’esaltazione di forme di comunicazione e marketing che puntino tutto sull’aggressività della propria proposta. Indipendentemente dalla questione steroidi, nessun piano comunicativo basato sull’odiare l’altro, sul mostrarsi machi a tutti i costi e sull’urlare e mostrare muscoli può durare nel tempo;
- I numeri come unico elemento: connesso al precedente punto c’è l’ossessione dei numeri, una scansione costante e decisiva nella formula atavica di valutazione di ogni azione. Gli uomini-numero mostrati in questi documentari – un altro caso recente è quello di Don’t Die – sembrano essere totalmente disumanizzati e incapaci di applicare una qualsiasi forma di pensiero alla propria azione, motivata soltanto da elementi statistici;
- Deny, deny, deny: come si diceva nelle regole-tipo di The Apprentice, la negazione come unica formula che viene, addirittura, incensata in forma di apologia quando si parla di modello di vita che, tutto sommato, non ha mai fatto male a nessuno. Connessa a questo senso c’è una sorta di falsa autocommiserazione nel momento in cui la verità viene a galla e ci si vuole mostrare come più piccoli o meno rilevanti di quel che si è;
- Pressappochismo e pochezza: giungendo al punto fondamentale della questione, nel momento in cui si scopre della verità sugli steroidi, l’approccio e il modo di comportarsi e di mostrarsi come nuovi è assolutamente ridicolo e goffo, truffaldino allo stesso modo;
- Spiritualismo scevro: la sublimazione di tale processo, con inserimento di elementi legati alle difficoltà genitoriali o relative ai problemi di figli, è lo spiritualismo scevro con piedi nudi che toccano il terreno, sole che sorge all’orizzonte e contatto con la natura o con un pezzo di cocomero. È l’antitesi della vita precedente mostrata, adesso negata nelle sue componenti, che però ha lo stesso tipo di impatto nel mostrare il nuovo uomo allo stesso modo falso e improponibile nelle sue componenti;
- Truffa: la parola chiave di tutto il processo. È truffa il metodo ancestrale, il personaggio Liver King, il nuovo Brian Johnson, il documentario stesso nel suo modo di essere.