Articolo pubblicato il 6 Gennaio 2025 da Bruno Santini
Con il nuovo anno, su Netflix sono arrivati diversi prodotti che hanno arricchito il catalogo della piattaforma a partire dal primo gennaio: accanto all’italiano Mica è Colpa Mia e al norvegese Numero 24, c’è anche un documentario che ha sicuramente ottenuto un gran numero di visualizzazioni e che è diventato velocemente oggetto dell’attenzione di numerosi spettatori, in virtù delle polemiche nate a seguito della sua distribuzione sulla piattaforma di streaming. Si parla di Don’t Die: l’uomo che vuole vivere per sempre, che racconta la vita di Bryan Johnson e il suo progetto di sopravvivere per sempre sconfiggendo vecchiaia e morte, per mezzo di un programma algoritmico che regola qualsiasi azione nella sua giornata. Ma qual è il risultato (soprattutto morale) di questo documentario?
La trama di Don’t Die: l’uomo che vuole vivere per sempre, di che parla il documentario su Bryan Johnson?
Prima di procedere con la recensione del documentario Don’t Die: l’uomo che vuole vivere per sempre, si indica innanzitutto di che parla il documentario su Bryan Johnson, a partire dalla trama di quest’ultimo. L’uomo raccontato, a seguito di un difficile passato fatto di cibo spazzatura, problematiche fisiche e personali, decide di cambiare totalmente la sua vita diventando – di fatto – una cavia umana per un esperimento particolarmente ambizioso: sconfiggere l’invecchiamento, per mezzo di un algoritmo che regola qualsiasi momento della sua giornata. Fin da quando si sveglia, con un programma specifico di esercizi, strumenti da utilizzare e pillole da assumere, Bryan Johnson controlla spasmodicamente qualsiasi aspetto di dieta, allenamento fisico, azioni da compiere e nutrienti da assumere costantemente, per diminuire progressivamente la sua età organica e perseguire l’ideale dell’immortalità. Tra risultati (che fanno discutere la comunità scientifica) e prodotti pubblicizzati sul suo sito web, Bryan Johnson si racconta affrontando anche la sua sfera personale.
La recensione di Don’t Die: l’uomo che vuole vivere per sempre e il fascino disturbante del capitalismo immorale
100 milioni di dollari: è questa la cifra che Elon Musk ha deciso di stanziare per ricompensare coloro che troveranno, tramite la ricerca scientifica, un modo per allungare progressivamente l’età umana attraverso strumenti tecnologici coniugati alla condotta organica che può essere perseguita nell’ambito della propria quotidianità. Verrebbe da chiedersi quasi, a leggere questa cifra, se non sia effettivamente troppo bassa per il desiderio di chi vuole diventare immortale; il noto uomo più ricco al mondo, così come tanti altri nel suo settore e ambito, iniziano a credere che scoperte scientifiche e progresso tecnologico siano secondari rispetto al senso della sopravvivenza e, allora, risorse economiche e personali iniziano ad essere investite nell’anti-aging. Nulla di totalmente sbagliato in tal senso, sia chiaro, ma c’è un aspetto macabro dietro tutte queste ricerche e dietro quest’ossessione che muove il capitalista, ricco e tycoon per eccellenza: la volontà di poter comprare qualsiasi cosa, la vita stessa, semplicemente perché ce n’è la potenzialità tecnica ed economica.
Bryan Johnson persegue la stessa linea e decide di investire non solo i soldi, ma anche la propria vita alla ricerca di un tentativo di sopravvivere quanto più possibile, con pillole, cappelli con elettrodi, intrugli che non conservano altro se non il nutriente del cibo, allenamenti costanti, esercizi fisici, macchinari particolarmente costosi e tanto altro ancora. C’è da chiarire innanzitutto un aspetto che permette di comprendere quale sia l’elemento ideologico da cui muove questo documentario: che Bryan Johnson voglia diventare una cavia umana e sottoporsi ad un programma algoritmico costante, che regola qualsiasi movimento ed esercizio della propria giornata non è (e non può essere) un problema che ci riguarda. La scelta è sua, come del resto il suo corpo, le sue decisioni e il perseguire dei suoi obiettivi; il vero problema si muove nel momento in cui il racconto del documentario smette di essere un inquadramento della quotidianità dell’uomo, per tramutarsi piuttosto in una lista di impianti ideologici e morali che vogliono essere prescritti per lo spettatore. Come spesso accade, nel mondo del capitalismo e della sua rappresentazione per il grande pubblico, Bryan Johnson si mostra (e probabilmente si considera) come un pioniere, un anticipatore di tendenze future o – forse – un nuovo Messia che sfida l’invecchiamento e la naturale morte che giunge alla fine della vita, attraverso l’egida di un controllo algoritmico che possa portarlo ad essere il primo umano e decidere se (e quando) morire. E ancora, non c’è davvero tanto da discutere del carattere dell’uomo, né di una condotta ideologica personale che appartiene comunque al dominio della sua intimità e personalità: non si può fare a meno di notare come, però, Don’t Die voglia essere evidentemente un racconto collettivo, un messaggio per una comunità, una prescrizione di comportamenti, attività e azioni che devono essere realizzate per vivere dalla parte giusta del mondo e dell’esistenza.
Con delle evidenti fallacie logiche, che il documentario (salvo rari punti, neanche troppo accennati e immediatamente smentiti al contempo) manca di sottolineare: innanzitutto un aspetto concreto, determinato dal fatto che le possibilità economiche di Bryan Johnson appartengono al solo Bryan Johnson – e ad un gruppo neanche troppo nutrito di persone in tutto il mondo -, per cui qualsiasi soluzione mostrata all’interno del documentario non appare assolutamente perseguibile neanche con la “sana forza di volontà” che vorrebbe essere raccontata nel lungometraggio. In secondo luogo poiché Bryan Johnson non mette mai in discussione se stesso e il suo metodo, anzi utilizza degli imperativi esortativi al grido di migliorare le proprie condizioni corporee, di fatto ponendosi al di sopra di un ragionamento scientifico che non approva (né tanto meno ha interesse nel farlo) i suoi metodi. Terzo motivo, poiché la logica del “o con me o contro di me” viene ridotta alla stregua di un dialogo elementare e infantile, ponendo in risalto coloro che manifestano dubbi circa la condotta di Bryan Johnson e mettendo loro alla berlina, mostrandoli per brevi spezzoni di video e quasi volendo ridicolizzarli poiché non accettano di seguire il salvifico quanto auto-imposto metodo dell’uomo.
Anche quando parla delle sue difficoltà personali e familiari, Bryan Johnson non sembra mai davvero puntare il dito contro se stesso, additando come responsabili e pericolosi gli altri (tutte le donne, ad esempio, che potrebbero volerlo avvicinare semplicemente perché ricco e famoso) sentendosi inevitabilmente parte di un mondo diverso dal nostro, semplicemente perché pecunia non olet e, forse, addirittura rende più profumati. È un documentario davvero sterile e immorale, nella sua messa in scena risibile e nel suo voler inquadrare costantemente l’uomo, colto nella sua moltitudine di look differenti e nel suo pettorale scolpito. Un’opera del genere fa male a chi guarda, insulta la sua intelligenza e – ancora – dimostra che il capitalismo, quello davvero più becero, non fa altro che evidenziare e accentuare (lucrandoci) differenze sociali, fino a renderle esistenziali.