Articolo pubblicato il 6 Novembre 2024 da Vittorio Pigini
Scritto e diretto dalla regista Jane Schoenbrun, l’horror psicologico Ho visto la Tv brillare arriva in streaming in Italia a fine estate 2024. Nonostante venga presentato sotto diversi punti di vista come un fantasy horror, il film presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2024 ha davvero pochi elementi del cinema dell’orrore, se non nulli. Uno psicodramma adolescenziale che vede protagonisti Justice Smith e Brigette Lundy-Paine, per un coming-of-age visto attraverso lo schermo di un televisore. Ecco di seguito la recensione di Ho visto la Tv brillare di Jane Schoenbrun.
La trama di Ho visto la TV brillare, il film A24 di Jane Schoenbrun
Su sceneggiatura della stessa regista Jane Schoenbrun, il film Ho visto la TV brillare targato A24 vede come protagonista Owen, giovane teenager con problemi a relazionarsi con i coetanei del suo liceo. Ci riesce con Maddy, ragazza che lo introdurrà alla visione della serie tv young adult The Pink Opaque, la quale fungerà da vero e proprio collante per la crescita personale dei due. Ma i problemi, soprattutto in famiglia, sono dietro l’angolo e Maddy scompare, con la conseguente cancellazione della serie dopo 5 stagioni. Anni dopo i due si rincontrano e Maddy afferma a Owen di essere stata nel mondo di The Pink Opaque.

La recensione di Ho visto la TV brillare: gli abbaglianti riflettori di un semplice coming-of-age
Si rimane un po’ spaesati una volta finita la visione di un film come Ho visto la TV brillare (in originale I saw the tv glow) di Jane Schoenbrun, non solo per via di una presentazione emblematica, ma anche per i punti nebulosi lasciati dalla sostanza del film. Per quanto concerne il primo aspetto, il film targato A24 sarebbe stato lanciato come un fantasy-horror adolescenziale, oltre alla presentazione in anteprima nel Midnight del Sundance Film Festival assieme ad altri titoli come In a Violent Nature e Love Lies Bleeding.
Tuttavia, in Ho visto la TV brillare di fantastico e di orrore non c’è nemmeno l’ombra, con gli elementi di genere che scaturiscono unicamente dal programma televisivo seguito dai protagonisti, i quali si avvicinerebbero a rimandi psicologici del cinema di David Lynch. Resta allora il carattere da psicodramma di questa opera adolescenziale, il quale è invece molto forte e presente, sebbene non sempre convincente. Si parte allora con dei “classici” looser, alle prese con la spigolosa crescita personale e che trovano conforto e rifugio in un hobby comune, quello di seguire la loro serie televisiva del cuore: The Pink Opaque.
L’immersione in quel mondo diventa totale e totalizzante, dove il “reietto” trova un mondo che gli appartiene quando quello intorno risulta davvero troppo distante. Collocati in una realtà vissuta come insensibile ed apatica, partire da un proprio interesse, dalle proprie emozioni, diventa un fattore cruciale per iniziare a conoscere soprattutto sé stessi e, di conseguenza, anche gli altri. Per la regista transgender Schoenbrun, Ho visto la TV brillare diventa la metafora della c.d. “crepa dell’uovo“, indicando quel preciso e cruciale momento della vita di una persona che percepisce e capisce di appartenere ad un altro genere. Purtroppo, proprio come accade con la fantomatica “etichetta” del genere, il film non riesce a convincere nemmeno da questo punto di vista, relegando di fatto il caos emotivo e psicologico sull’identità di genere ad una semplice frase del film.
Ho visto la TV brillare non è infatti altro che un particolare e puro coming-of-age, inteso in senso “generale” ed indicando la crescita in fase adolescenziale della consapevolezza di essere, comprendendo il rapporto prima con sé stessi (e quindi anche il tema dell’identità sessuale, la quale resta però uno dei fattori) e poi con la società, il valore dell’amicizia e nelle altre relazioni interpersonali. Il film vuole infatti essere fin troppo ambizioso per le sue corde, presentando un’esperienza al neon tra fantasy e thriller-horror psicologico (attraverso una rilegatura criptica e non lineare alla quale si arriverà a breve), che mostra l’isolamento della società verso una persona alle prese con un caos personale legato all’identità di genere. Emblematico in tal senso il finale del film, dove le urla di disperazione di Owen non vengono ascoltate ed anzi, lo stesso protagonista, viene portato a scusarsi, a rendersi in difetto con il mondo nonostante sia egli stesso una “vittima”.
Ma Ho visto la TV brillare non riesce però ad arrivare a nessuno di questi elementi, lasciando intatto un classico coming-of-age alquanto confusionario e dalla poca sostanza, che non viene sicuramente agevolato dall’astrattismo surreale della visione, alquanto ingiustificata se non per un esercizio di stile. L’elemento forse più affascinante del film resta il profondo binomio tra l’esperienza nel seguire la serie tv del cuore e la crescita personale. Non a caso, la collocazione temporale nel film è determinante, ambientandosi inizialmente negli anni ’90. In questo periodo resta forte il contatto fisico e diretto con le VHS, le quali costituirebbero un vero e proprio stile mentale, rapportato poi all’esperienza di una serie tv con le puntate che vanno attese di volta in volta, settimana dopo settimana.
Immersi nel “vivere” la crescita della serie tv si assiste così anche alla “crescita personale”, di volta in volta, episodio dopo episodio fatti di storie, emozioni ed incontri di nuovi personaggi. Il cambio del mezzo diventa cruciale, con la freneticità del presente (incarnata dall’immensa ed immediata disponibilità in streaming) che spezza questo percorso di crescita. La serie diventa accessibile tutta d’un fiato, non c’è più tempo per crescere e anche la sua qualità ne risente, ridimensionando di fatto quel compagno di vita che ti aveva fatto trovare un appiglio sicuro quando il mondo esterno risultava inaccessibile.
La recensione di Ho visto la TV brillare: l’eccessiva e dannosa voglia di impressionare
Nell’appariscente “pacchetto” di Ho visto la TV brillare si riesce ad estrarre quindi giusto un piccolo cuore che batte, ricondotto alla necessità di essere ascoltati e all’uso che se ne fa del proprio mezzo di “evasione”, ponendo il monito che il rifugio sicuro non finisca per inghiottire in un buco nero. La sostanza del film è quindi “minimalista” e sicuramente poco originale, con la messa in scena che, al contrario, risulta fin troppo incisiva e distaccata da essa. Un’estetica al neon, fluo, che porta ad un’esperienza soft allucinatoria in sé efficace (soprattutto grazie al funzionale sonoro) ma che, di fatto, risulta fatalmente fine a sé stessa.
La regista incasella infatti qualche idea immaginifica intrigante (citazioni al Videodrome di David Cronenberg), ma davvero troppo poco per reggere sulle spalle un’esperienza allucinata che non trova molta aderenza con quanto mostrato dalla visione, con gli elementi fantastici che risultano a conti fatti dei veri e propri esercizi di stile giusto per arricchire una visione di per sé asettica. Uno dei punti nevralgici di Ho visto la TV brillare è infatti quello della sua totale mancanza di ritmo, per un film di per sé soporifero e che presenta davvero pochi punti di svolta.
Il primo di questi, forse il più importante, entra infatti in scena oltre la metà della visione, impedendo di coinvolgere pienamente lo spettatore. A seconda dell’etichetta (che nel 2024 rappresenta più un “gioco di catalogazione”), tanto lo sviluppo narrativo quanto gli elementi visivi introdotti portano ad un film comunque psicologico, dove però appunto la ricerca di stimoli viene appiattita. Se Ho visto la TV brillare presenta un ritmo claudicante, non ci sono enormi passi in avanti nemmeno per quanto concerne le emozioni che un film di questo tipo ha la necessità di sprigionare. Colpevoli di ciò sono infatti diversi fattori, uno di questi rappresentato innanzitutto da una difficoltà, in senso narrativa ed estetica, di gestire lo sviluppo temporale, con il passaggio degli anni che diventa poco incisivo e credibile per i protagonisti.
Parlando poi di “credibilità”, un altro problema della mancanza di emotività del film è data sempre dal registro di visione adottato, con l’esperienza psicologica e surreale (fuori luogo) che lascia solo inutili punti interrogativi ed una mancanza di pathos sacrificata dall’effetto scenico. Infine, la coppia protagonista non riesce a dare una copiosa mano, non aiutata tuttavia dalla scrittura ed evoluzione dei loro personaggi. Justice Smith (Pokémon: Detective Pikachu, Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri) e Brigette Lundy-Paine (Downsizing – Vivere alla grande, Bombshell – La voce dello scandalo) ce la mettono tutta, ma il loro rapporto nato in modo molto efficace si perde fatalmente per strada, così come i loro personaggi.