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Recensione – Blue Eye Samurai: la prima stagione della serie animata Netflix

La nuova e sorprendente serie animata Netflix ha, fin da subito, saputo conquistare tanto la critica specializzata quanto il pubblico, con Blue Eye Samurai che si mostra come uno dei progetti più intriganti dell’intera piattaforma.
La recensione della prima stagione di Blue Eye Samurai la serie animata Netflix

SCHEDA DELLA SERIE TV

Titolo della serie: Blue Eye Samurai
Genere: Azione
Anno: 2023
Durata: 8 episodi, 35–62 min
Regia: Jane Wu, Ryan O’Loughlin, Earl A. Hibbert, Alan Wan, Michael Green, Sunny Sun, Alan Taylor
Sceneggiatura: Michael Green e Amber Noizumi
Cast: Maya Erskine, Masi Oka, Darren Barnet, Brenda Song, George Takei, Kenneth Branagh
Società animazione: Blue Spirit
Montaggio: Yuka Shirasuna e Brad Lee Zimmerman
Paese di produzione: Stati Uniti

Rilasciata in piattaforma streaming dal 3 novembre 2023, “Blue Eye Samurai” è il nuovo titolo di punta Netflix che, attraverso gli 8 episodi della sua prima stagione, racconta del nascere di una leggenda durante il periodo Edo giapponese. Ecco di seguito la recensione della prima stagione di “Blue Eye Samurai”, la nuova serie animata Netflix.

La recensione della prima stagione di Blue Eye Samurai

Blue Eye Samurai: la trama della nuova serie animata Netflix

<<Nel 1633 il Giappone chiuse i propri confini al mondo esterno. Completamente. Nessun cittadino aveva mai visto un bianco, né alcun volto che non fosse giapponese. Un bambino di razza mista veniva considerato meno che umano. Miserabile. Impuro. Mostruoso. In quest’epoca nacque la Leggenda. Di uno spadaccino. Di una spada. Di una vendetta.>>. Questo il suggestivo incipit della nuova serie animata targata Netflix “Blue Eye Samurai”, che narra proprio del vendicativo percorso della ronin di razza mista Mizu, desiderosa solo di farla pagare a chi le ha riservato una vita di miseria e sofferenza.

Blue Eye Samurai, la recensione: la Onryo giustiziera tra fiocchi di neve e boccioli di ciliegio

<<[…] ma l’odio è come un tifone: inizia come una brezza marina, che viene inghiottita dall’oscurità; poi, nel profondo, prende forza e diventa sempre più forte, vorticando ed infuriando, finché non è pronto a colpire.>>.
Inaugurando la recensione della nuova serie animata Netflix “Blue Eye Samurai” si potrebbe anche dare risalto al probabile sottotitolo “La giapponese dagli occhi di ghiaccio” che, semicitando il film di Clint Eastwood del 1976, già di per sé racchiuderebbe molto di questi formidabili 8 episodi della sua prima stagione. In primo luogo riferendosi ovviamente alla sua contestualizzazione storica e geografica, con quell’affascinante, antico e misterioso Giappone nel periodo Edo vero e proprio teatro per il genere Jidai-geki, che ha fortemente contribuito a rendere grande il cinema. Nella serie, tuttavia, l’alto citazionismo per la Settima Arte non si muove solo ed esclusivamente verso il maestro Akira Kurosawa ma, appunto, anche agli spaghetti western di Sergio Leone, per poi arrivare a Quentin Tarantino e, perché no, una versione del Sol Levante della Mulan disneyana…decisamente molto più rancorosa e letale. Già, la protagonista dagli “occhi di ghiaccio”, la stessa che sceglie un cammino di solitudine e sofferenza per raggiungere il proprio egoistico appagamento, furente e determinata al risultato, ma non senza quelle determinanti sfaccettature caratteriali ed emotive che rendono il personaggio di Mizu a dir poco splendido.

 

Andando però con ordine, sono veramente innumerevoli i pregi di questo prodotto d’animazione, iniziando dall’egregio lavoro concettuale pattuito dai suoi creatori: Michael Green e Amber Noizumi. Mentre quest’ultima si trova sostanzialmente al suo debutto dietro un importante progetto, Green è stato co-sceneggiatore di “Logan” del 2017 e “Blade Runner 2049” di Denis Villeneuve dello stesso anno, nonché sceneggiatore unico della trilogia del Poirot di Kenneth Branagh (il quale torna nel cast vocale anche di questa serie animata). Il lavoro in sede di sceneggiatura in “Blue Eye Samurai” è encomiabile, soprattutto nella costruzione dei personaggi e della loro interconnessione, ma anche nel saper sfruttare l’ambientazione e periodo di riferimento per portare sullo schermo un sofferto percorso intimista in primis, per poi allargarsi a dinamiche socio-politiche anche e soprattutto universali. L’isolazionismo giapponese è infatti una scelta politica, presa una volta che la popolazione e il governo della nazione è entrato in contatto con il prevalicatore “uomo bianco”: una scelta che altri continenti non hanno potuto adottare e comunque destinata ad infrangersi sotto il fuoco di quello che viene definito “progresso”. Quest’ultimo (come una filastrocca che sembrerebbe tornare nella storia senza limiti di tempo e spazio) sembrerebbe quello di un incremento degli affari economici e l’esportazione di ideali religiosi, il tutto – come sempre purtroppo – col pugno di ferro. Rievocando infatti circostanze storico-politiche con filologici riferimenti, la scrittura di Blue Eye Samurai risulta particolarmente intelligente anche nel saper affrontare il suo materiale originale tematico, non relegando il tutto ad una netta distinzione tra buoni e cattivi (ad esempio non indicando l’isolazionismo come unica vera strada da seguire se il marcio è già all’interno dei propri confini). Gli uomini di potere giapponesi (di donne nemmeno l’ombra) risultano infatti particolarmente ipocriti, doppiogiochisti, sporchi affaristi e spietati strateghi per il proprio tornaconto (mascherato nel famoso “per il bene del Paese”) mentre, i semplici artigiani, contadini e commercianti, sebbene vivano nell’onorevole tradizione e godano delle piccole cose, dal canto loro non si nascondono dietro una maschera nel mostrare un violento razzismo verso ciò che non si conosce, verso il diverso.

 

In questo conflittuale clima interno ed esterno nasce il fuoco della vendetta di Mizu: donna guerriero, costretta a nascondere sesso ed occhi al mondo per poter raggiungere il proprio scopo contro il preponderante colonialismo. Una circostanza socio-politica che, infatti, infuoca l’animo vendicatore che si libera lungo la sottile ed affilata lama che separa il demoniaco odio dal senso di giustizia, quest’ultimo comunque di stampo personalistico ed intimista specialmente in un genere, come quello western, divenuto appunto grande anche e soprattutto nella terra del Sol Levante. In Blue Eye Samurai si respira così un indomabile senso di emancipazione (non solo femminile) volto maggiormente all’onorevole difesa della propria persona, indirizzando lo spettatore a rimuovere le “impurità” del razzismo, dell’egoistico spirito demoniaco umano e facendo i conti con la storia, dove non esistono buoni e cattivi ma dove si richiede necessariamente uno sforzo ulteriore per poter individuare il buono e il cattivo dentro ognuno di noi.

Blue Eye Samurai, la recensione: la (quasi) solitaria via del Ronin

Oltre ai temi importanti adattati su schermo dagli sceneggiatori, il vero grande lavoro di scrittura in Blue Eye Samurai è quello della creazione dei suoi personaggi e delle dinamiche ad essi correlate. Già dalla sua accattivante presentazione, nella prima parte dell’episodio che inaugura la serie, viene mostrato allo spettatore un personaggio protagonista ammaliante non solo nel character design ma anche e soprattutto per la sua personalità. Come più volte ribadito anche all’interno della serie animata, Mizu non è assolutamente un samurai, non vuole esserlo e non saprebbe che farci di quel titolo vuoto, il quale cieco onore porterebbe solo alla morte. Non si mostra sicuramente come eroina e né come anti-eroina, ovvero nel senso di porre le proprie azioni – sebbene attraverso metodi non convenzionali – volte comunque al bene comune, deducibile soprattutto in una glaciale sequenza in particolare con un personaggio sordomuto. Mizu è solo ed esclusivamente orientata a percorrere il suo doloroso e tortuoso cammino della vendetta, per un egoistico appagamento personale. Ma il personaggio non nasce Onryo, non sono i tratti somatici appresi dalla nascita a rendere automaticamente demoniaci, ci diventa a causa delle avversità della vita. Attraverso i vari flashback si viene a presentare infatti un personaggio mai monodimensionale ma capace, pur rimanendo fedele a sé stesso, di evolvere ed interagire in modo diverso a seconda delle circostanze, non presentandosi solo come freddo automa accecato dalla rabbia.

 

Quello di Mizu (doppiata in originale da Maya Erskine) è dunque un personaggio splendido, letale ma dall’anima altrettanto fragile, stratificato e coerente alla sua natura; ma ciò che rende particolarmente affascinante questa serie animata Netflix è anche la cura riservata a chi accompagna la Ronin protagonista nella sua tortuosa via quasi solitaria. I personaggi secondari di Blue Eye Samurai, infatti, godono di una spiccata personalità tanto nel character design degno di nota quanto soprattutto per la valenza funzionale in termini narrativi e qualitativi. Dall’irresistibile apprendista Ringo (Masi Oka) al saggio fabbro cieco Eiji (Cary-Hiroyuki Tagaw), passando per la risoluta Madame Kaji (Ming-Na Wen) e la fragile ed indomabile principessa Akemi (Brenda Song) nessuno viene abbandonato a sé stesso dalla sceneggiatura. Queste ultime due, in particolare, si ergono poi ad esaltare importanti personaggi chiamati a tenere vivo lo stendardo di dignità, forza ed eleganza della propria emancipazione (qui sì femminile), in un periodo ed una contestualizzazione storica giapponese, di stampo profondamente patriarcale, dove una donna si ritrova a scegliere nella vita due destini: moglie (sottomessa) o prostituta. Blue Eye Samurai è infatti anche la katana tagliente nel fodero del c.d. girl power, in questo caso mai banale e scontato ma quasi sacrale e deciso nella sua liricità.

Blue Eye Samurai, la recensione: un formidabile Teatro Bunraku romantico, spirituale e sanguinolento

Il Bunraku è infatti il tipico teatro giapponese che viene caratterizzato dalla combinazione di tre pratiche: recitazione di un testo, manipolazione dei burattini ed accompagnamento musicale. Presente in un formidabile episodio della stessa serie, questo tipo di teatro resta perfettamente attinente nell’intento evocativo di Blue Eye Samurai. Il testo (sceneggiatura) viene infatti portato avanti attraverso una narrazione che non risparmia importanti colpi di scena, più o meno pronosticabili ma comunque sempre efficaci e coerenti con la visione, soprattutto attraverso l’uso intelligente dei vari flashback che aiutano la contestualizzazione emotiva e caratteriale, nonché la fluidità narrativa. Una visione cinica e spietata, svincolata da catene censurabili e decisamente non edulcorata, nella quale non si risparmiano sangue, budella, sessualità, violenza fisica e verbale. Ritmo a volte spiritualmente rilassato a volte frenetico, con esaltanti sequenze action di combattimenti che uniscono arti marziali e duelli di spada, seguendo abilmente nelle coreografie pose e movimenti tecnici delle effettive arti sospese tra corpo e spirito, in pieno stile e sapore Jidai-geki.


I burattini poi vengono manipolati all’interno di una messa in scena magistrale. Attraverso un’animazione ibrida di 2D e 3D, luci ed ombre esaltano un tratto grafico che imprime solennità ed emotività, con squarci innevati mozzafiato e diversi shot da poter “appendere”. Una qualità pittoresca che si degna anche di un’ottima ricostruzione storica del periodo Edo (un’operazione mai scontata), che viene esaltata dalla stessa animazione per un’ambientazione mai statica e che continua a cambiare le proprie location accattivanti e ben curate. Qui la tecnica tende infatti a risaltare tanto un semplice ma fondamentale dettaglio quanto l’esaltazione ed esposizione di mastodontiche ed abbaglianti scenografie, anche attraverso sequenze oniriche di intrigante efficacia artistico-visiva. Ma, non meno efficace, è la terza pratica del Bunraku Netflix, ovvero il suo accompagnamento musicale. Le magniloquenti immagini vengono infatti coadiuvate dall’immersivo ed intenso comparto sonoro dalle tipiche note dello shamisen, dando però libero sfogo anche all’epica e alle sfuriate rockeggianti, da “For whom the bell tolls” a “Battle without honor or humanity”, tanto per rimanere tra gli omaggi a Tarantino.


Blue Eye Samurai rasenta così una vera perfezione tecnica e stilistica, non priva comunque di qualche sbavatura per quanto riguarda ad esempio la fluidità dell’azione su schermo (qualche volta eccessiva ed abbozzata, ma niente che un budget ancor più sostenuto possa risolvere) o alcune forzature ed esagerazioni verso il finale di stagione che troppo volentieri si lascia trascinare dalla sospensione dell’incredulità (scelte giustificabili ai fini della spettacolarità, parlando comunque di un prodotto d’animazione che, senza immergervisi, si avvicina anche al fantasy). Qualche sbavatura dunque, ma di lieve entità e poste al margine di una tela magniloquente tanto dal punto di vista estetico quanto da quello contenutistico, condividendo così le lodi quasi all’unanimità per Blue Eye Samurai che – in attesa ovviamente delle prossime stagioni – si porrebbe come uno dei progetti più affascinanti e travolgenti della piattaforma streaming.

Voto:
5/5
Gabriele Maccauro
4/5
Bruno Santini
0/5
0,0
Rated 0,0 out of 5
0,0 su 5 stelle (basato su 0 recensioni)
Voto del redattore:
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