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Recensione-Tereddüt Çizgisi (Ferita da esitazione), il film turco di Selman Nacar a #Venezia80

Foto di Ferita da esitazione diretto da Selman Nacar

Presentato in anteprima all’80esima Mostra Internazionale D’arte Cinematografica di Venezia nella sezione OrizzontiFerita da esitazione è il secondo film di Selman Nacar, thriller giudiziario turco che vede tra i suoi interpreti principali Tülin Özen, Oğulcan Arman Uslu, Gülçin Kültür Şahin, Vedat Erincin, Erdem Şenocak. Di seguito, ecco trama e recensione del film.

La trama di Ferita da esitazione, diretto da Selman Nacar

Di seguito la trama ufficiale del film:”L’avvocata penalista Canan divide il proprio tempo tra le mattine in tribunale e le sere in ospedale al capezzale della madre. Il giorno dell’udienza di condanna di un sospettato di omicidio che sta difendendo, Canan deve fare una scelta morale che influenzerà le vite di sua madre, del giudice e dell’imputato.”

La recensione di Ferita da esitazione: un’ottimo thriller giudiziario

Molte cinematografie in giro nel mondo tendono a essere vittima di ingiustificati pregiudizi. Si pensa dunque spesso che registi di determinate nazionalità non meritino particolare attenzione o che siano destinati a sfornare solo e unicamente film irricevibili dal grande pubblico. Ebbene queste assunzioni sono ovviamente false e basterebbe partecipare a un qualsiasi festival cinematografico internazionale per rendersi conto di come molto spesso le aspettative che si hanno finiscano per essere completamente sovvertite. Nello specifico Ferita da esitazione, film turco diretto da Selman Nacar può essere considerato a ragion veduta il miglior thriller giudiziario di questa Venezia 80. La pellicola infatti dispone di numerose frecce al suo arco, a partire da una protagonista tanto sfaccettata (nei soli 84 minuti di durata) quanto contraddittoria. Tülin Özen interpreta infatti un’avvocatessa molto capace e ostinata, la quale ritiene che la causa intentata nei confronti del proprio cliente sia assolutamente pretestuosa e sia frutto di una messa in scena tesa a scagionare il figlio della vittima. Per sbrogliare questa matassa tuttavia la protagonista si troverà a dover compiere una scelta affatto banale che finir per incidere sulla propria vita professionale e personale contemporaneamente e con egual incisività.

 

Il film dunque appare una interessante riflessione sul contrasto tra etica lavorativa e etica personale e su come queste due non sempre coincidano. Non è affatto banale infatti stabilire quale sia il limite presso in quale fermarsi, ovvero dove un avvocato debba smettere di esercitare tutte le armi a sua disposizione pur di salvare da condanna il proprio imputato. Quello che è certo è che in questo caso Canan supera questa soglia in quanto convinta fortemente delle sue ragioni. Tuttavia una lunga lista di pellicola hanno insegnato come il senso di giudizio dei protagonisti possa essere offuscato dai più disparati fattori (magistrale in tal senso è Mother di Bong Joon-ho). La protagonista inoltre si muove in un ambiente nel suo complesso totalmente decadente e precario. La Turchia viene rappresentata come un Paese soggetto a un lento e inesorabile declino all’interno del quale il caos regna sovrano. La scena che vede crollare parte del tetto dell’aula di tribunale nel corso di una sentita arringa della protagonista (che continua imperterrita nella sua declamazione) è in questo senso paradigmatica. A queste difficoltà sul lato professionale se ne affiancano poi altre sul lato umano per Canan, infatti lei e la sorella sono costrette ogni giorno a vegliare presso il capezzale della madre che oramai è tenuta in vita soltanto dai macchinari ospedalieri e per la quale viene presto dichiarata la morte celebrale. Da questo frangente sorge una ulteriore contraddizione per il personaggio di Canan, l’avvocatessa infatti decide deliberatamente di non rispettare (se non soltanto nel finale) le volontà della madre di porre fine alla sua vita in caso impossibilità di recupero.

 

E’ quest’ultima scelta tardivamente compiuta dalla protagonista che costituisce il fulcro di tutta la vicenda e il punto di intersezione di tutte le scelte morali da compiere. A sorprendere positivamente è come Nacar sia in grado di gestire tutte queste istanze con una mirabile sintesi e in tal senso non può non essere citata la scena finale della pellicola. Un campo lunghissimo infatti racchiude nel suo insieme tutti gli elementi che lo spettatore deve avere a disposizione per comprendere ciò che sia accaduto. La narrazione fino a quel punto lineare viene infatti bruscamente interrotta e decifrare il significato dei particolari dell’immagine presente a schermo risulta essere l’unico modo per capire come l’opera si conclude. Il regista utilizza anche in modo fine un aspetto puramente naturalistico per lasciare intendere il futuro che attende la protagonista o forse per elargire infine un suo giudizio morale sull’atto che (forse) è stato compiuto. Ciò che è certo tuttavia è che una padronanza del mezzo cinematografico così spiccata in quello che è soltanto un secondo film lascia ben sperare per il prosieguo della carriera di Canan.

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