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“Spencer”: una seduta psicanalitica

Dopo svariati rimandi, l’opera ultima di Pablo Larraìn, è arrivata in sala da noi. Il 24 Marzo “Spencer” esce finalmente al cinema in Italia (in alcuni viene proiettato anche in lingua originale).

Il regista cileno è uno degli autori più apprezzati dell’epoca contemporanea, a ragion veduta, siccome ritrae con uno sguardo fortemente riflessivo e politico, il suo paese natale, ma non solo. Dopo la trilogia della dittatura, in cui esiste un Cile pre-Pinochet e un Cile post-Pinochet, con “Il Club” ed “Ema” tocca altre vette senza mai discostarsi dalla sua poetica, in “Neruda” e “Jackie” pone l’interrogativo sulle potenzialità cinematografiche e, dunque, del prodotto audio-visivo in quanto tale (soprattutto nel primo, con una derivazione western nel finale che è da applausi); mentre nel secondo, si sposta per la prima volta in America senza rinunciare ai suoi stilemi e l’autorialità che lo ha elevato (il simbolo della circonferenza, la propaganda, la leggenda, libertà e disagio, contraddizioni, la verità, il marcio).

“Spencer” è una seduta psicanalitica sulla principessa Diana, ritratta durante le feste natalizie alla tenuta reale Sandringham House. In questo periodo tutta la famiglia si riunisce, e nonostante le voci sul divorzio con il principe Carlo causa adulterio, si cerca di mantenere di buon grado la facciata, evitando i fotografi alla ricerca dello scoop (o della verità?). Ben presto il senso di disagio accrescerà sempre più, e avrà il via il valzer della percezione, ancorando lo sguardo dello spettatore a quello di Lady D.

Larraìn ancora una volta fa suo un biopic che, con la sola sceneggiatura di Steven Knight (“Locke”), sarebbe stato con tutta probabilità uno dei tanti. E invece racconta molto con la regia, riuscendo a dare una ventata d’aria fresca ad un genere in cui tanti non sempre riescono, persino un grande sceneggiatore come Aaron Sorkin con il suo “A proposito dei Riccardo” non ha fatto centro. Ma come lo fa, il cineasta cileno? Mette in campo una dicotomia basata sull’alto e il basso, il reale e il popolare, artificiale e verità. Varie contrapposizioni in serie, con una messa in scena sempre rigorosa e studiata nei minimi dettagli. Diana è oppressa dalla tradizione, legata al presente, ma mantiene uno sguardo speranzoso verso il futuro tramite la prole, e di fatto le scene con i figli sono le più spensierate; ciò nonostante, l’artefatto per gran parte del film sarà fonte di repressione per la nostra protagonista che dovrà raggirare, per l’appunto, la costruzione di una facciata nobile volta a evolversi in valuta, un esempio da seguire per il popolo, fosse solo con le mode da lanciare indossando costumi sfarzosi in occasioni differenti.

L’importanza della percezione è fondamentale in un film che, a tratti, è da considerare come un horror o un thriller psicologico, richiamando anche “Il Cigno Nero” di Aronofsky, oltre che “Shining” per l’utilizzo dei primi piani sulla protagonista, e “La donna che visse due volte”, per i colori (verde e rosso) e il gioco del potere, come forma e deforma, sceglie per Diana cosa mangiare, cosa indossare e quando. Il sonoro gioca brutti scherzi, e allora quando la situazione si fa sempre più pesante ecco che entra in campo l’acqua del lavandino il cui stridio sembra un urlo di una donna, oppure la colonna sonora che passa dall’extradiegetico al diegetico: nella scena in cui la famiglia è riunita a tavola per cenare, un gesto sempre intimo quanto snervante se posti sotto la lente di ingrandimento di qualcuno lesto nel giudicarti; ed è così che prende il via un climax psicologico in cui la principessa, intenta a mangiare un piatto minimalista e aristocratico nella composizione, strappa le perle che indossa al collo lasciandole cadere nel cibo. Riluttante, Diana si alza e va via, lasciandoci scorgere i violinisti, veri artefici della musica ascoltata in quel momento. Ma se la guerra fredda, Diana la combatte con la famiglia reale, emblematica è la contrapposizione che ha con il principe Carlo. Una distanza lancinante separa quelli che sembrerebbero essere a tutti gli effetti degli ex amanti, e la messa in scena di Larraìn riesce a dire tanto con pochi elementi inquadrati. Gli basta un tavolo da biliardo con i due personaggi posti agli estremi, i colori delle palle diventano evocativi poiché da una parte abbiamo la purezza del bianco (Diana) e dall’altra il marcio del nero (Carlo), figlio del tradimento. Come se non bastasse, vi è un’ulteriore separazione ideologica tra le due altezze reali: la principessa ha davanti a sé tre palle da biliardo tutti di colore diverso e distanziate tra loro, analogia perfetta di una crisi d’identità; all’opposto abbiamo tutte le palle rosse posizionate con il massimo della compostezza, analogia di un’uniformità e di una perfezione in perenne inseguimento. La scena si concluderà poi con l’accusa di Carlo a Diana, non ci pensa due volte prima di insinuare che la moglie abbia un altro, e anche questa volta il parallelismo con gli oggetti è centrato, la palla nera (il marcio) viene fatta rotolare verso di lei, vestita di bianco (la purezza).

Il fil rouge delle analogie continua a dispiegarsi fino ad arrivare alla figura degli animali, in particolare il fagiano su più strati, partendo dalla suggestiva prima inquadratura in cui il corpo senza vita di uno di questi uccelli viene quasi decapitato dalla ruota delle auto in arrivo, eppure resta lì integro. Per tutta la durata del film si insisterà sulla figura di Anna Bolena, regina vittima della decapitazione per volontà di suo marito, Enrico VIII, e di cui Diana Spencer ha visioni in continuazione (al limite del gotico), perché la percezione sa essere davvero spietata alle volte. Con il fagiano non finiscono qui i punti in comune, siccome è un volatile, è nella sua natura essere ricoperto di piume, per di più bellissime e fonte di grande ammirazione, così come i costumi indossati dalla principessa sono di esempio per il popolo. Ma nella sua natura c’è anche il volo, il dispiegare le ali per andare dove si vuole senza limiti, e in tal senso Diana ci prova più e più volte: tenta di innalzarsi dall’artificiosità della vita aristocratica, e piuttosto che volare in alto vorrebbe farlo verso il basso. L’aria aperta è la soluzione, si può parlare senza essere visti o ascoltati da qualcuno, mentre negli interni la fa da padrone il senso di claustrofobia.

Tuttavia non possiamo esentarci dall’elencare qualche problematica del film, in virtù del fatto che ci sono momenti in cui i dialoghi risultano didascalici, delle scelte che semplificano eccessivamente, e forse è uno scorciatoia porre Diana moralmente ed emotivamente superiore agli altri, ma potrebbe essere giustificata dal contesto favolistico; alcune scene al limite del ridondante, non sono sposate perfettamente all’idea registica di Larraìn. Su quasi due ore di durata, ci sono effettivamente dei momenti che si ripetono in uno schema circolare, e questa potrebbe essere anche una chiave di lettura interessante per giustificare certe ripetizioni come l’alternare dei dialoghi-sfogo che Diana porta avanti con diversi personaggi a turno (i figli, la guardia, il cuoco e la costumista), susseguiti da forti crisi percettive; infatti ognuno di queste persone, da esterne, vedono gli eventi con sguardo neutro e differente da quello della principessa, ma quando sembra riprendersi poi ci ricasca, e sembra di assistere precisamente ad un incontro psicanalitico tra medico e paziente. Unica analogia banale e probabilmente di troppo, è quella con il cavallo che non vuole essere domato.

Tornando alle note positive, minuziosa è la scelta dei colori che richiamano il periodo natalizio in cui si svolge il film, tanti costumi e diverse scenografie hanno in sé il rosso, il verde, il bianco e il blu, con una luce morbida senza contorni, come dei raggi. La colonna sonora di Jonny Greenwood è sublime, mescola le sviolinate intense alla dolcezza classica, con un brio di blues cucito sulla malinconia intrinseca alla protagonista (il blues letteralmente deriva dal senso di insofferenza). Larraìn usa la macchina da presa come un bisturi, viviseziona la sua opera aprendoci a diverse riflessioni, ne decide i movimenti per creare un campo semiotico attorno alla libertà, la ricerca della verità; e quale modo migliore se non quello di dare ampiezza e circolarità, scavalcando il campo con grazia purché ci fornisca un immagine a 360° (solo così si avrà la verità). Le carrellate addolciscono il movimento, la danza è messa in atto sia dalla macchina da presa, talvolta ruotando, che da Diana stessa per sentirsi viva, sconfiggendo il blues (la malinconia).

Insomma “Spencer” è percezione, sguardo, contraddizioni, psicologia, paura. Kristen Stewart fa un lavoro incredibile meritando la nomination agli Oscar, il suo accento fatto di parole abbreviate e quasi mangiate oserei dire, lo si deve alla contrapposizione linguistica tra l’alto, la famiglia reale, e il basso, il popolo che non usa “Can Not”, ma “Can’t”, perché la sostanza realmente sentita la fa da padrone sulla forma costruita a tavolino; perché i bambini devono correre e non cacciare creature indifese, devono giocare e non sparare; perché il caviale non è necessariamente migliore di un fast food; perché la libertà è la ricerca di sé, trovarsi e abbracciarsi stretto senza temere il giudizio altrui, mostrarsi nonostante tutto, anche quando ti cuciono le tende per non farti vedere la luce, non puoi far altro che prendere le cesoie e tagliarle. Il titolo non è un caso, non si pronuncia quasi mai il nome Diana ma sentiamo più volte Spencer, perché Spencer sono le origini da classe media della principessa, e anche quando sarà un vecchio abito abbandonato su uno spaventapasseri a ricordarci il nostro passato, basterà per capire che le radici sono le fondamenta per potersi sporgere verso un futuro luminoso, senza appesantirsi di costumi superflui.

Larraìn.. dirigi tutti i biopic del mondo!

Voto: 8\10

– Christian D’Avanzo

Andrea Barone: 9,5
Andrea Boggione:
Carlo Iarossi:
Paolo Innocenti: 8,5
Alessio Minorenti:
Paola Perri:
Giovanni Urgnani: 8,5
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