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Occhiali Neri: l’intimità macabra e politica di Dario Argento

Erano 10 anni che il maestro Dario Argento non realizzava una nuova opera dopo il controverso “Dracula 3D”. Dopo gli ultimi flop al botteghino accompagnati da una critica sfavorevole, si pensava che non sarebbe mai tornato… ed invece a sorpresa è uscito nelle sale cinematografiche il suo nuovo thriller “Occhiali Neri”, presentato fuori concorso all’ultimo Festival Di Berlino. L’opera parla di Diana, una prostituta che viene perseguitata da un serial killer che da diverso tempo sta effettuando omicidi solo alle donne che praticano la stessa professione della protagonista. Durante un inseguimento d’auto in cui cerca di fuggire proprio dal killer, Diana fa un incidente per cui una famiglia subisce una brutta sorte: il padre muore sul colpo mentre la madre rimane in coma, ma il loro figlio di 11 anni riesce ad uscirne illeso. In tutto questo, l’incidente rende Diana cieca e, mentre cerca di abituarsi alla sua nuova condizione, cerca di sostenere il bambino dopo la tragedia. Tuttavia il killer non ha rinunciato a scegliere Diana come sua prossima vittima…

Registicamente Dario Argento non adotta lo stesso approccio utilizzato per il suo immortale cinema degli anni 70/80, ma stavolta non rinuncia nemmeno alla ricercatezza visiva: sono infatti evidenziate la sensibilità degli occhi non solo attraverso l’utilizzo della prima persona, ma anche attraverso sequenze più classiche che vogliono richiamare ad una sensazione di solitudine e di smarrimento. Da evidenziare per esempio l’inizio in cui la protagonista attraversa incerta una città che, accompagnata da diverse inquadrature delle strade (e dei palazzi) accalcate tra di loro che sembrano quasi richiamare un’atmosfera mista tra “Taxi Driver” e “Mulholland Drive”, si concentra su un’eclissi in corso che evidenzia già l’oscurità che sta arrivando ad invadere il mondo sia fisicamente che simbolicamente (e qui è intenso il primo piano della donna con il volto preoccupato). Nelle uccisioni, Argento stavolta appare più contenuto ed utilizza l’estrema violenza splatter solo in pochissimi momenti (con gli effetti di Stivaletti sempre ottimi), ma quando questi ultimi non sono accompagnati dal sangue, la forza del dolore è comunque molto presente anche grazie ad un eccellente sonoro che ti fa avvertire ogni colpo. Probabilmente la sequenza di maggior impatto a livello visivo è quella che vede come protagonisti degli animali che mette con grande risalto e terrore il tormento del corpo umano attraverso un’alternanza di inquadrature piene di dettagli accompagnati da un notevole misto di cgi e animatronics.

Un altro elemento interessante è l’uso dei campi lunghi che danno una sensazione di impotenza rispetto all’immensità di un territorio che ormai non può più essere visibile. Bisogna comunque dire che la presenza di tutti questi guizzi registici non è continua e Dario Argento alterna tra queste sequenze ed altre decisamente più tradizionali, ma tutto ciò rende il risultato più intenso di molti dei suoi lavori moderni come “Giallo” o “La Terza Madre” che sembravano piuttosto spenti su quel lato ed anzi, la presenza di diversi dettagli interessantissimi rendono invece il tutto qualcosa di più sentito e decisamente superiore alla media. Oltre all’efficacia registica, la fotografia di Matteo Cocco è bella nel suo riuscire ad utilizzare dei colori che danno una sensazione urbana durante il giorno e che vanno invece su una forte sporcizia durante la notte, con pochissimi sprazzi di colori accesi che richiamano al sangue durante le rare sequenze oniriche. Per quanto riguarda la recitazione, Ilenia Pastorelli offre una buona performance facendo trasparire tutta l’insicurezza ma allo stesso tempo determinazione nel personaggio, anche se in dei momenti appare sottotono, ma in generale non si tratta di un brutto risultato ed anche nelle parti meno efficaci la sua presenza scenica rende il tutto efficace. L’attore bambino Xinyu Zhang è accettabile e non va mai sotto la recitazione media dei minorenni presenti nelle produzioni italiane, mentre Asia Argento se ne esce fuori con quella che è la sua migliore interpretazione in un film del padre, dando al personaggio una sensazione di accoglienza ed utilizzando un’impostazione contenuta nei momenti giusti (salvo una scena in cui urla dove appare eccessiva). La recitazione di tutti gli altri attori è altalenante, ma nessuna di queste appare sottotono a tal punto da rovinare le scene (a tal proposito: Guglielmo Favilla si rivela sempre un ottimo caratterista). Da segnalare le ottime musiche da Arnanud Rebotini che omaggiano i lavori dei Goblin e che rimangono in testa.

Tuttavia la nuova opera del maestro non è interessante solamente dal punto di vista tecnico, ma lo è anche dal punto di vista di ciò che vuole comunicare concettualmente: Diana è probabilmente uno dei personaggi più delicati e interessanti che la sua filmografia abbia partorito. Nel film viene infatti descritta una forte condizione di emarginazione, denunciando spesso le persone che giudicano o ne approfittano di lei in quanto prostituta, ritenendo che essendo tale non abbia diritto di scegliere nemmeno il modo in cui deve lavorare, causando in lei un forte senso di sconforto e di rabbia nei confronti del mondo esterno. Per quanto ci sia una forte denuncia nei confronti del patriarcato, l’opera non risparmia nessuno: anche una stessa persona emarginata può apparire pregiudiziosa ed assolutista nei confronti di un’altra persona attraverso un altro motivo, come un inopportuno bigottismo religioso evidenziato in maniera cattiva ed efficace. Colpisce in maniera inaspettata anche la descrizione dell’insicurezza che può prendere anche le persone che si sentono inadatte alla società perché non rispettano gli stessi canoni di bellezza. Ma uno dei momenti migliori è proprio il parallelismo tra il bambino Chin, discriminato in quanto cinese, e Diana: entrambi si sentono soli ed entrambi notano l’uno nell’altro una condizione di difficoltà ma anche un senso di protezione e di dolcezza che trasforma il tutto in un rapporto materno.

In questo modo la prima parte del film appare molto interessante, non concentrandosi per forza sul killer che bracca la donna, ma anzi, richiama a dei ritmi più classici che evidenziano soprattutto la caratterizzazione dei personaggi ed il loro senso di appartenenza al mondo, mentre anche degli individui che dovrebbero essere protettivi secondo la società appaiono invece insensibili ed indifferenti (il poliziotto Jerry ne è un grosso esempio). I problemi arrivano principalmente nella parte centrale, dove c’è un buco di trama per quanto riguarda una scelta di Diana nel lasciare a casa un’importante sostegno per la sua incolumità e dove si sente una carenza di ritmo a causa di un inseguimento un po’ troppo diluito. Tuttavia il terzo atto, senza fare spoiler, una volta rivelato chi è l’assassino, chiude il cerchio in maniera perfetta dando un senso simbolico alla rabbia ingiustificata da parte dell’essere umano ed alla ricerca dell’attenzione e dell’empatia anche nei confronti di creature che apparentemente sembrano indifese e sottomesse quando in realtà possono fare grandi cose, anche se il mondo continuerà ad essere un luogo oscuro e per nulla accogliente, su cui lo stesso autore non ha particolare ottimismo pur continuando ad evidenziare la bellezza che può ancora essere trovata.

“Occhiali Neri” non è solo un bel thriller, ma è un’opera fortemente politica ed estremamente sensibile, che da voce a tutte le persone che sono abbandonate dalla società, ma senza evitare di mostrare che comunque la natura orrida dell’essere umano può nascere da tutti, nessuno escluso. In questa sua delicatezza ci sono anche guizzi visivi che dimostrano che Dario Argento ha davvero messo amore in questo film che, nonostante i difetti, si dimostra più che efficace e la migliore opera del maestro degli anni 2000.

Voto: 8

Andrea Barone

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