Articolo pubblicato il 30 Aprile 2025 da Giovanni Urgnani
Distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il 2 maggio 2025, mentre in quelle italiane a partire dal 30 aprile dello stesso anno, grazie al contributo di Walt Disney Pictures. Trentaseiesimo film del Marvel Cinematic Universe, appartenente alla “Saga del multiverso”, prodotto da Kevin Feige e Louis D’Esposito e diretto dal regista Jake Schreier, con un cast nutrito guidato da Florence Pugh (We live in time), David Harbour (Hellboy) e il candidato all’Oscar Sebastian Stan (La truffa dei Logan). Ma qual è il risultato di Thunderbolts*? Di seguito la recensione e la trama ufficiale del film.
La trama di Thunderbolts*, il film di Jake Schreier
La pellicola è la sesta e ultima della “Fase 5”, con la sceneggiatura firmata da Eric Pearson, Lee Sung Jin e Joanna Calo mentre la colonna sonora è composta da Son Lux. Ma di cosa parla quindi Thunderbolts*? Di seguito la trama ufficiale del film diretto da Jake Schreier:
“Reclutati da Valentina Allegra de Fontaine per una missione segreta, i membri del supergruppo denominato Thunderbolts, segnati da un passato turbolento, scoprono troppo tardi di essere caduti in una trappola mortale. Chiusi in una situazione senza apparenti vie di fuga, devono fare i conti con i propri demoni interiori e con un pericolo che minaccia non solo loro, ma il mondo intero. Le tensioni all’interno del gruppo crescono, alimentate da vecchie rivalità, traumi irrisolti e una fiducia reciproca che vacilla a ogni passo. Mentre il confine tra alleato e nemico si fa sempre più sfumato, ognuno di loro dovrà decidere se combattere per la propria sopravvivenza individuale o se mettere da parte le differenze per diventare qualcosa di più di semplici pedine sacrificabili.”

La recensione di Thunderbolts*, il film Marvel con Florence Pugh
Aldilà del significato reale dell’asterisco inserito nel titolo ufficiale del trentaseiesimo film del Marvel Cinematic Universe, a cui spetterà di essere scoperto dallo spettatore alla fine della visione, gli si può affibbiarne uno simbolico, ad esempio «Diverso ma non troppo», citando indirettamente il sottotitolo di un capitolo della fortunata saga italiana di Don Camillo e Peppone. Diverso per prima cosa nel concetto d’inclusività, quest’ultima troppo spesso relegata alle annose questioni di casting multietnici o rappresentanze sacrosante di altro tipo, perché coinvolgere determinate categorie significa parlare apertamente del loro contesto. Sorprendentemente si prendono di petto aspetti delicati della vita reale di tutti i giorni, di non per nulla facile trattazione, quali: depressione, bipolarismo e traumi mai risolti; nel mondo Marvel non sono mai mancati personaggi tormentati in cerca della seconda possibilità, ma qui si pizzicano delle corde alquanto tese, grazie alle quali molta gente potrà sentirsi coinvolta e appunto inclusa.
Non è di tutti i giorni che un blockbuster hollywoodiano d’intrattenimento metta la salute mentale al centro del suo discorso, in particolare nel momento storico in corso, dove regnano la paura di osare o l’ansia di edulcorare qualsiasi cosa, facendo della trama il più classico dei meri pretesti per mettere in risalto i personaggi, la loro concreta umanità e il loro realismo nel provare paura, rassegnazione e dolore. Thunderbolts* cade forse in un meraviglioso paradosso: la minaccia incombente, per la sua forza astratta, non è affrontabile e non è battibile per mezzo dei soli pugni e delle sole pallottole; così facendo i protagonisti paiono svuotati della loro utilità date le loro abilità nel picchiare e sparare. Al contrario, si dimostrano le persone perfettamente adatte al compito, grazie alla possibilità di creare una connessione autentica con l’antagonista di turno, quindi è l’empatia a diventare la migliore arma da adoperare, ma non per annientare bensì per salvare, per costruire un collegamento emotivo reso credibile dalla capacità di comprensione del dramma.
Giustappunto perché le botte non possono risolvere il problema, occorre creatività nel raggiungere l’epilogo prestabilito e la messa in scena la dimostra grazie ad un terzo atto in grado di lasciarsi ricordare per l’utilizzo d’immagini evocative, sequenze non convenzionali per la norma dei cine fumetti, nello specifico quelle all’interno dell’inconscio di Robert e l’ombra nera su New York, rappresentando suggestivamente lo stato d’animo di chi vive nel buio dell’afflizione. Tra le righe dell’opera si posso inoltre scorgere vibrazioni metanarrative: la ricerca spasmodica di trovare dei sostituti agli Avengers nella narrazione è la stessa vissuta nella vita reale da Kevin Feige e soci; si è infatti consapevoli di quanto non sia cambiato grazie al loro arrivo e di quanto sia necessario passare il testimone a qualcun altro, però allo stesso tempo l’affetto nei confronti dell’originale comporta dei dubbi, delle riserve, se non addirittura delle ostilità nei confronti di tutti i tentativi di nuove proposte. In tal senso è molto intelligente lo sfruttamento dei titoli di coda, in cui in effetti la manifestazione di dissenso è la stessa vissuta in questi ultimissimi anni da parte della compagnia Marvel Studios.
Va bene differenziare, ma non ci si può aspettare il cambio radicale nella struttura e nell’identità e per l’appunto quando il lungometraggio diretto da Jake Schreier si ricorda di far parte di un franchise pluridecennale, si autolimita di conseguenza nella qualità generale, ad esempio nel fornire un umorismo esasperato che deve giocoforza fare il paio con l’atmosfera prettamente più cupa e drammatica del normale, rispetto ovviamente ai loro standard, catalizzando le battute sul comic relief pedante di Red Guardian, sicuramente caratterizzato in modo interessante, ma protagonista di siparietti non del tutto edificanti o quantomeno rivedibili. Si nota poi un’evidente differenza e sproporzione tra i membri del gruppo, l’importanza infatti, va a scalare verso il basso ed è direttamente legata a stretto giro con la qualità del personaggio stesso; Yelena e Alexei vestono il ruolo più centrale, gli altri chi più chi meno restano leggermente sfocati sullo sfondo, non una situazione ideale per una storia corale, dove si richiederebbe una spartizione più equa.