Articolo pubblicato il 26 Maggio 2025 da Bruno Santini
Si è conclusa ufficialmente la seconda stagione di The Last Of Us, che porta sullo schermo la prima parte del celebre secondo videogioco diretto da Neil Druckmann; con l’esaurirsi dei tre giorni di Ellie e con il finale della seconda stagione che anticipa il futuro dedicato ad Abby, è possibile riflettere non soltanto sull’episodio 2×07, Convergenza, ma anche sull’intera serie televisiva giunta fino ad ora. Nel corso delle diverse settimane, in più occasioni abbiamo sottolineato tutti gli enormi problemi di una serie che ha ricercato a tutti i costi la diversificazione rispetto al videogioco, in alcuni casi riuscendo a innovare alcuni elementi o, addirittura, a introdurre nuove caratterizzazioni, mentre in altri fallendo miseramente nel proprio intento. A questo punto, non resta che procedere con la recensione di The Last Of Us 2×07, Convergenza, con un focus sull’intera serie televisiva.
La recensione di The Last Of Us 2×07: verbosità, accelerazioni, emozioni a tutti i costi
Nell’ambito del sesto episodio della seconda stagione di The Last Of Us sottolineavamo come, al di là di tutto e indipendentemente dal fattore differenza rispetto al videogioco, la puntata riuscisse a conquistare un animo indipendente, quasi originale e innovativo rispetto alla controparte e alla proposta videoludica. Che piacesse o meno, l’approccio (che in effetti si reindirizzava alla regia di Neil Druckmann) era totalmente indipendente e personale rispetto a tutto ciò che era stato visto precedentemente, rimandando quasi a quella stessa intuizione che c’era stata con l’episodio 1×03 della prima stagione e con il racconto di Bill e Frank. Che il settimo episodio dovesse riportare al presente, oltre che al complicatissimo terzo giorno di Seattle, era un fattore già noto, così come ci si poteva attendere un ritorno a quelle medesime logiche fallaci conosciute nel corso dell’intera stagione.
Le direttrici principali della recensione di The Last Of Us 2×07, oltre che della puntata stessa nel suo modo di strutturarsi, sono allora tre: verbosità, accelerazioni, emozioni a tutti i costi. Se c’è qualcosa che The Last Of Us serie ha saputo insegnarci, rispetto a The Last Of Us videogioco, è che lo spettatore può essere sottovalutato, o ancor meglio mal-valutato; ciò che il celebre titolo di Neil Druckmann ha creato, al di là di una forma estrema di immedesimazione e identificazione sensoriale, riguarda la consapevolezza di un utente in grado di costruire la propria verità, di saper distinguere (anche alla fine del mondo) il bene dal male, di cogliere le sfumature dell’odio e della vendetta, di comprendere a fondo le ragioni di ogni personaggio, senza doverle mai esplicitare in forma di dialoghi o monologhi di alcun tipo. Tutto ciò, inevitabilmente, si perde in The Last Of Us e l’episodio 2×07 ne è l’esplicitazione: in qualsiasi momento della puntata, anche quando sarebbe necessario lasciare spazio alla crudeltà di ciò che si sta mostrando, si cede alla tentazione di spiegare, di parlare e di rendere tutto estremamente didascalico e comprensibile dallo spettatore; il risultato non è una maggior chiarezza, ma uno svilimento di ogni elemento mostrato, oltre che una banalizzazione dell’oggetto del racconto che, nella maggior parte dei casi, coincide con la sottovalutazione dello spettatore.
La vendetta di Ellie sembra quasi essere diventata la vendetta, la crudeltà, la ragione di qualsiasi altro personaggio: vale per Dina, che vorrebbe proseguire il viaggio per cui Ellie tituba; vale per Jesse, che persegue l’ideale di paternità e di bontà in un mondo che ha ormai dimenticato questi valori; vale per Abby, l’unico personaggio che sia stato davvero (per ora) sapientemente costruito senza alcuna macchina nella caratterizzazione globale. Il risultato è, ancora una volta, un comportamento ondivago del personaggio principale, che si barcamena tra diversi modi di essere senza tuttavia mai incarnarne uno davvero, e anche quando ci sarebbe l’assist perfetto del videogioco – che la crudeltà la mostra pur ribadendo all’utente che ci si può pentire di ciò che si è appena fatto, nel momento della morte di Owen e Mel – la serie rinuncia a tutto, si affida a meccanismi narrativi anomali, crea delle forme alternative e inverosimili di rappresentazione pur di non affidarsi a ciò che The Last Of Us stesso è. Per ragioni di concretezza: nel videogioco Ellie uccide Owen e Mel così come si mostra nella serie, ma prima spara all’uomo, poi uccide la donna con un coltello in gola, salvo rendersi conto del suo essere incinta; qui, la sua crudeltà atroce e incontrollata si accompagna alla consapevolezza di un frammento di vita e di bontà (Mel è incinta, così come Dina), generando una condizione di shock che accompagnerà una Ellie ormai al di fuori di sé durante tutto il suo viaggio. Nella serie il tutto si traduce con un colpo di pistola per legittima difesa, che trapassa la trachea di uno e uccide, colpendo di striscio, l’altra, che poi chiede di effettuare a Ellie un taglio cesario.
Perché si dice tutto questo? Non di certo per sottolineare che dove c’è differenza c’è un errore, ma per sottolineare che le caratterizzazioni post-umane di Ellie, quelle che la serie non ha mai ottenuto e mai riuscirà ad ottenere sullo schermo, sono frutto di una serie di scelte sapientemente messe in sequenza; nulla di ciò che si vede prevede uno sviluppo psicologico plausibile per la Ellie della serie televisiva, che diventa così il Rat King (un incrocio deforme di infetti mai curati) di questa narrazione.
Un viaggio fallimentare
Si conclude con estrema delusione, allora, la seconda stagione di The Last Of Us che, in effetti, arrivava da una serie di episodi totalmente sbagliati, per cui non poteva certamente bastare la cura del sesto diretto da Neil Druckmann. Per ragioni di sintesi, benché ci si possa affidare a tutte le recensioni precedenti diella seconda stagione, è bene allora sottolineare perché questo viaggio sia stato fallimentare. Che si tratti della rivelazione di Abby nel secondo episodio, delle reiterate battute di Ellie nella situazione drammatica della sua storia, del modo in cui vengono collocati i personaggi o di tutti i difetti perfettamente riscontrati, The Last Of Us non è più ciò che dovrebbe essere; al netto di scenografie mozzafiato, di una colonna sonora sapientemente selezionata e di scelte tecniche che dimostrano comunque il peso dell’enorme budget messo a disposizione della serie, c’è un dubbio fortissimo che aleggia nello scrivere questa recensione: è davvero possibile adattare un videogioco?
Se la necessità si riscontra per ragioni di consolidamento del brand, è proprio nella fattività delle scelte contenutistiche il vero problema: The Last Of Us è, in fondo, il più grande esempio di ciò che un videogioco può creare dal punto di vista stilistico, narrativo, estetico e tecnico; ma è, allo stesso tempo, anche la sublimazione di un discorso estremamente sensoriale, che stabilisce un rapporto uno a uno (irreplicabile da qualsiasi altro medium) con il videogiocatore, generando così un’esperienza che può vivere solo ed esclusivamente attraverso la spinta nervosa della singola persona. Forse è per questo che c’è così tanto bisogno di parole, lacrime ed emozioni reiterate, atte a sostituire quella compartecipazione emotiva che una serie televisiva o un film non possono offrire allo spettatore così come avviene in un videogioco; una serie come The Last Of Us 2, allora, dimostra che il videogioco può sì essere considerato ottava arte, che si potrebbe connettere ad una forma mediata, che ha una forma di interpretazione cinematografica: tuttavia, è un mondo a sé, con le sue regole, le sue esperienze e le sue espressioni sensoriali. Illudersi che il cinema o la televisione possano anche solo flebilmente riportarle sullo schermo vuol dire fallire in partenza.