Articolo pubblicato il 24 Maggio 2025 da Bruno Santini
La coppia di registi formata da Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis torna al cinema di finzione dopo Re Granchio (2021); lo fa con un western girato e ambientato interamente nel Lazio, assemblando un cast internazionale pregiatissimo e prestando grande attenzione al lato tecnico. È uno spaghetti western come se ne facevano una volta? È un film che gioca col genere per decostruirlo? È un omaggio al western tout court? Ma, soprattutto, è un film riuscito? Testa o croce? è in concorso al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard.
La trama di Testa o croce?, di Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis
Siamo nella seconda metà dell’ottocento dopo l’unificazione del Regno d’Italia. Buffalo Bill (John C. Reilly) è in tour per l’Europa e fa tappa nel Lazio. Narra le sue avventure a cavallo, vantando imprese eroiche. Tra gli spettatori c’è Rosa (Nadia Tereszkiewicz) giovane moglie di un decorato uomo dello Stato, Ercole Rupè (Mirko Artuso). Santino (Alessandro Borghi) è un buttero – un cowboy all’italiana. Vince una sfida che avrebbe dovuto perdere contro uno degli uomini di Bill. Rupè è arrabbiato, ci ha perso dei soldi e trova Rosa in sua compagnia nella stalla. Le usa violenza e non è la prima volta. Lei lo uccide con un colpo di pistola. Rosa e Santino scappano a cavallo, sognando di partire per l’America, ma su di lui pende una taglia di mille scudi d’oro e perfino Buffalo Bill si mette sulle loro tracce.
Recensione di Testa o croce?, il western all’italiana con Alessandro Borghi, John C. Reilly e Nadia Tereszkiewicz
“Il Paese era molto giovane, i soldati a cavallo era la sua difesa…” con queste parole comincia la canzone Bufalo Bill di Francesco De Gregori, forse l’opera che più di ogni altra somiglia a Testa o croce?. Sì, perchè l’opera di Rigo De Righi e Zoppis centra una particolare atmosfera che il cantautore romano di cui sopra evoca nei suoi versi. Uno dei più celebri e calzanti per portare avanti questo paragone sarebbe certamente “Tra la vita e la morte avrei scelto l’America“, la meta che sognano i due fuggitivi Rosa e Santino, pur non sapendo come arrivarci o dove si trovi sulle mappe. È piuttosto il mito dell’America – quella evocata nei racconti del Buffalo Bill di John C. Reilly -, e di come questo mito incarna pienamente il sogno di ricominciare una nuova vita a muovere i protagonisti, prima sulla sella di un cavallo e poi con gli stivali nella melma della palude.
Ma com’è costruito o, meglio, assemblato, questo western? Alessandro Borghi e Nadia Tereszkiewicz sulla carta sono perfetti come coppia di protagonisti: di talento, giovani, con due volti non solo belli, ma che piacciono alla macchina da presa. E pure, questa loro presenza non è abbastanza e risultano essere, problematicamente, uno dei punti deboli del film, proprio per come sono stati – più che scritti – abbozzati. Borghi non è lo straniero senza nome di Eastwood, che padroneggia un film con l’espressione col cappello e quella senza cappello, come diceva di lui Sergio Leone. Gli altri personaggi sono tutti più interessanti. Gianni Garko interpreta il perfido suocero di Rosa, lui che è stato il volto dell’iconico Sartana, in una fortunata serie di film del filone spaghetti western. Quentin Tarantino quando realizzò Django Unchained ebbe un’idea molto simile: chiamò Franco Nero – il Django originale, quello del film di Sergio Corbucci – per un simpatico cameo meta-cinematografico. Qui però Garko ha un ruolo vero e proprio, anche nell’economia della narrazione il suo personaggio ha un certo peso. Poi c’è John C. Reilly, un attore di grande talento, preso per prestare il volto all’icona di Buffalo Bill. Reilly viene da un western ancora diverso; ha preso parte, infatti, a The Sisters brothers (2018) di Jacques Audiard, premiato al Festival di Venezia con il Leone d’argento per la regia. È senza dubbio la scelta di casting più riuscita quella di John C. Reilly, un volto il suo che incarna perfettamente l’insicurezza e la voglia di rivalsa; ed è molto adatto al ruolo di un uomo che vanta una serie di imprese principalmente inventate ad hoc per il pubblico.
Ed ecco l’importanza della storia in Testa o croce?: lo stesso Bill afferma “La gente dice di volere la verità, ma poi paga per ascoltare le storie”. Il peso di ciò che è veramente accaduto non regge il confronto con la tendenza a mistificare, a inventare di sana pianta, far circolare voci. Anche il Santino di Alessandro Borghi cavalcherà un mito che su di lui ha fatto circolare un gruppo di esiliati argentini che vuole fare la rivoluzione; ne fanno una bandiera politica: il buttero che ha ucciso il padrone. E, infine, la storia a cui credono tutti senza neppure il bisogno d’inventarla: Santino ha ucciso Rupé e rapito la bella moglie Rosa, sottovalutando la capacità di azione della stessa: non può essere stata lei a rendersi capace di ciò. Gli spietati di Clint Eastwood nel 1992 impiegava già una decostruzione del genere in tal senso: mostrava piccoli uomini violenti e megalomani che giravano di città in città con lo scribacchino appresso, allo scopo di romanzare ogni accadimento già nel suo svolgersi. Smontava le leggende che li volevano pistoleri precisissimi e veloci ai limiti dell’assurdo.
Cosa c’è però sotto strati di meta-cinema, di citazioni? Sotto l’estetica autocompiaciuta, volutamente un po’ grezza, cruda – molto raffinata in realtà – resa possibile da una pellicola a grana grossa e da un’ottima fotografia di Simone D’Arcangelo (suo il lavoro anche nel bellissimo Los Colonos di Felipe Galvez)? E cosa rimane allo spettatore una volta che ha avuto modo di apprezzare tutti gli intellettualismi propri di questo modo di fare film? Poco, purtroppo. Questo perché il western è un genere viscerale, ma Testa o croce? non ne possiede che la patina, la placcatura. Non ha niente di viscerale, non si sporca le mani con le scene che rendevano grandi quegli spaghetti western di cui questo sterile erede non ne condivide che la nazionalità. Non c’è violenza, non c’è sangue o sesso. Non c’è il divertimento, tantomeno il desiderio di rivolgersi veramente al pubblico, che costituiva la principale condizione d’esistenza del filone di riferimento. Siamo, purtroppo, di fronte a un film anemico e dimenticabile, nel quale la spocchia autoriale si mangia tutto.